Trebisacce-21/04/2015: Profilo di Italo Calvino ( di Salvatore La Moglie)
Profilo di Italo Calvino
di Salvatore La Moglie
“Dati biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere (…). Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra (…)” : così scriveva e puntualizzava Calvino in una lettera a Germana Pescio Bottino del 9 giugno 1964. Questa sua avversione per il dato biografico, per l’autobiografismo che, per dirla con parole sue, fissa e oggettiva la vita ingenerando angoscia, Calvino se la portò con sé fino alla fine dei suoi giorni, quasi come una dichiarazione di poetica. E noi, che a trent’anni dalla sua morte, vogliamo rendergli il dovuto omaggio, cercheremo di ridurre all’essenziale il dato biografico proprio per rispettare questa sua visione. Anche se- come Calvino ben sapeva- alcuni momenti biografici sono fondamentali per comprendere un autore e che in un’ opera c’è sempre qualcosa di autobiografico.
Italo Calvino nacque il 15 ottobre 1923 non Italia ma a Santiago de Las Vegas, presso l’Avana a Cuba. Il padre, Mario, era un agronomo di origine sanremese; la madre, Evelina Mameli, era di origine sassarese e aveva la laurea in Scienze naturali. Entrambi i genitori – come ci informa lo stesso Calvino – erano molto severi, austeri e un po’ burberi e collerici, entrambi di estrazione laica e di orientamento socialista.
I Calvino ritornarono in Italia nel 1925 e il piccolo Italo visse un’infanzia ed un’adolescenza serene e senza problemi economici. Nel ’34 frequentò il ginnasio-liceo e tra e 16 e i 20 anni cominciò a scrivere racconti, poesie e testi teatrali. In famiglia era la “pecora nera” – come lui stesso ebbe a dire – in quanto l’unico con tendenze letterarie in mezzo a tanti che erano orientati per gli studi scientifici i quali, tuttavia, avranno una certa influenza sul Calvino più maturo. Infatti, nelle sue opere, non mancherà la terminologia scientifica: sono tanti i vocaboli legati alla botanica, alle scienze naturali ed anche alla tecnica. In questi anni incominciò anche a disegnare, a fare caricature e vignette e Guareschi gliene pubblicò alcune sulla rivista umoristica il Bertoldo.
Nel 1941 si iscrisse alla Facoltà di Agraria all’Università di Torino, dove il padre era incaricato di Agricoltura tropicale. Nel ’46, però, passò alla Facoltà di Lettere. Il ventennio fascista lo vide all’opposizione, anche se di carattere più intellettuale che militante. Nel ’43, dopo l’8 settembre, respinse la chiamata alla leva che gli veniva dalla Repubblica sociale di Salò. Fu questo un periodo di grande solitudine e di intense letture, importanti per la sua vocazione letteraria. Insieme al fratello sedicenne, Floriano, si unì, nel ’44, alla divisione di assalto “Garibaldi”. Fece, così, l’esperienza di partigiano a fianco dei comunisti, diventando egli stesso comunista. Fu un’esperienza che segnò molto il nostro autore: lo spirito dei partigiani gli appariva esemplare, a lui che, in fondo, aveva una visione politica piuttosto anarchica.
Collaborò ad alcuni periodici della Liguria, ma importante per la sua formazione culturale fu il sodalizio intellettuale con Eugenio Scalfari (già suo compagno di liceo) e poi l’incontro con Elio Vittorini e soprattutto con Cesare Pavese, di cui divenne amico. Sono gli anni tra il ’45 e il ’46, anni decisivi per il suo futuro e per il suo destino di scrittore. Pavese fu il suo primo grande lettore ed estimatore: fu Pavese a segnalare, nel ’45, a Carlo Muscetta, il racconto Angoscia in caserma, che uscì sulla rivista “Aretusa”, nel numero di dicembre, mese in cui iniziò anche a collaborare al “ Politecnico” di Elio Vittorini.
L’autodidatta Calvino (tale si considerava allora) pubblicò, nel ’46, sulle riviste comuniste, numerosi racconti che poi saranno pubblicati insieme a Ultimo viene il corvo (1949). Sempre nel ’46, incoraggiato da Pavese, scrisse il suo primo romanzo I sentieri dei nidi di ragno, il cui neorealismo è, in verità, già diverso da quello più rigidamente aderente ai suoi canoni. Il romanzo ebbe successo grazie a Pavese che lo fece pubblicare da Einaudi. A Torino strinse amicizia anche con Natalia Ginzburg, con gli storici Delio Cantimori e Franco Venturi e con i filosofi Norberto Bobbio e Felice Balbo. Oltre alla collaborazione con la casa editrice Einaudi, tra il ’48 e il ’49’, lavorò attivamente a “l’Unità” e a “Rinascita”.
Nel ’50 restò molto scosso per il suicidio di Cesare Pavese. Intanto dedicava molto del suo tempo “ai libri degli altri” per l’Einaudi, ma non trascurava se stesso e, nel ’51, scrisse di getto Il Visconte dimezzato, e si dedicò anche ad altri lavori minori. Il visconte dimezzato ebbe molto successo, ma divise anche la critica marxista nelle sue interpretazioni. I fatti del ’56 – il XX Congresso del PCUS, la rivolta polacca e la rivoluzione ungherese – gli procurarono disagio e lo condussero a polemizzare col PCI per la sua incapacità di rinnovamento alla luce di quegli avvenimenti. Nel novembre di quell’anno, uscirono le Fiabe italiane, il cui successo accreditò l’immagine di Calvino “favolista”, che contrastava con quella dell’intellettuale “engagé”. Nel ‘57’ pubblicò Il barone rampante, La speculazione edilizia e su “Botteghe oscure” il racconto La gran bonaccia delle Antille. In agosto uscì dal PCI e si allontanò dalla politica, della quale avrebbe negli anni successivi sempre diffidato.
Nel ’58 pubblicò i Racconti e nel ’59 Il cavaliere inesistente. Nello stesso anno usciva il
“ Menabò di letteratura” e Vittorini lo volle come condirettore.
Dagli inizi degli anni ’60 Calvino divenne sempre più noto e la sua penna era richiesta da diversi giornali, ed anche il cinema, il teatro, la radio e la televisione chiedevano la sua collaborazione con altrettanti contratti. Ma lui rifiutò persino la proposta di collaborare con “Il Corriere della sera”. Quello “scoiattolo della penna “, come lo definì una volta Pavese, diventava sempre più maturo e più maestro nel suo mestiere di scrittore, oramai proiettato verso un destino di fama mondiale. Nel ’62, sul V numero del Menabò uscì il saggio La sfida al labirinto (in cui si avverte la lezione del labirintico Borges) mentre nel ’63 (anno del movimento della neoavanguardia,che seguì con interesse), pubblicò La Giornata di uno scrutatore e curò l’edizione in volume autonomo de La speculazione edilizia. Viaggiò molto tra Roma, Torino, Parigi, San Remo. Nel ’64 – anno del suo matrimonio – pubblicò Una pietra sopra e nel ’65 Le Cosmicomiche. La morte di Vittorini, avvenuta l’anno successivo, lo colpì profondamente, tanto che – come lui stesso confessò- mutò il suo atteggiamento verso l’attualità facendogli assumere una posizione di distanza che, tuttavia, non fu mai permalosa chiusura verso l’esterno.
Nel ’67 si trasferì stabilmente a Parigi, dove rimase fino al 1980. Nella capitale francese ebbe modo di conoscere e in parte anche frequentare alcuni fra i maggiori intellettuali sperimentatori del momento, tra i quali il semiologo dell’ arte combinatoria Roland Barthes e lo scrittore Raymond Queneau(quello degli OuLiPo) di cui tradusse I fiori blu. In questo periodo rivelò un grande interesse per la semiologia e per la scienza, e mostrò di avere gusto per la comicità paradossale e per il gioco combinatorio. Intanto, maturava sempre più un’idea di letteratura che fosse allo stesso tempo classica e sperimentalista.
Nel ’68 seguì con interesse la Contestazione studentesca e lui, che aveva già ottenuto premi letterari, rifiutò il “Viareggio” per il libro Ti con zero. In quell’anno pubblicò La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche; nel ’69 Il castello dei destini incrociati e nel ’70 Gli amori difficili. Dal ’71 riprese a lavorare con l’Einaudi e l’anno successivo pubblicò Le città invisibili. Nel ’76 tenne alcuni seminari alla John Hopkins University di Baltimora, negli USA, sulle Cosmicomiche e sui Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York, opera che aveva scritto nel ’69.
Nel 1979 uscì il metaromanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, che ci mostra un Calvino ormai maestro e al massimo del suo sperimentalismo. Quell’antiromanzo ci conferma anche che la forma di espressione da Lui preferita e a Lui più congeniale era il racconto e, se si vuole, anche il racconto-saggio, piuttosto che il classico romanzo “compiuto” e “ben definito”. Nel 1980 raccolse nel volume Una pietra sopra -Discorsi di letteratura e società i suoi saggi più significativi scritti a partire dal 1955. Nell’83, invece, uscì l’edizione definitiva di Palomar presso Einaudi. Nello stesso anno, alla New York University, tenne in inglese una conferenza su Mondo scritto e mondo non scritto che, poi, sarebbe stata pubblicata in un volume dalla Mondadori. Il 6 settembre dell’85, Calvino fu colpito da un ictus e morì nella notte fra il 18 e il 19 di quello stesso mese.
Dopo la sua morte sono state pubblicate altre sue opere, come Perché leggere i classici e, tra le altre, le ormai celebri Lezioni americane, lezioni di letteratura che avrebbe dovuto tenere all’Università di Harvard. Indimenticabili sono le pagine che ha scritto sulla leggerezza, quella leggerezza che si intravede già nel primo Calvino e che aleggia anche nel Calvino neorealista, e che Pavese aveva già colto quando in una recensione lo aveva definito (come già ricordato) uno “scoiattolo della penna”. Non è un caso che tra gli autori più amati da Calvino vi fosse Ludovico Ariosto, quell’Ariosto in cui realismo e fantasia, fiaba e realtà, incanto e disincanto, gusto del comico e del magico, insieme a una visione spesso anche tragica della vita mimetizzata in un mondo di sogno, che sogno non è, convivono in perfetta armonia. Calvino, come Ariosto, fu sempre consapevole della tragicità, della negatività e della pesantezza della realtà e dell’essere, ma, come Ariosto, ha sempre cercato di rappresentarli con leggerezza, con un superiore sorriso sulle labbra che rende meno cupa quella visione.
Che il mondo, la società e la civiltà in cui siamo condannati a vivere siano “infernali”, Calvino lo sapeva benissimo. Ecco cosa scrive ne Le città invisibili: “L’inferno dei viventi…è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo è facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”.
Questo “inferno dei viventi” ha raccontato l’immenso Calvino in circa quarant’anni di attività letteraria e l’ha raccontato con quella maestria e con quella leggerezza tutta sua che oggi ci manca tanto.
Lo stile di Calvino era uno stile raffinato e limpido, preciso, puntuale, essenziale e scorrevole nel quale prevaleva, illuministicamente, l’esigenza della leggibilità, che era poi l’esigenza razionale della leggibilità del mondo e della realtà. La sua tendenza a trasformare la realtà nel fantastico e nel fiabesco, attraverso un procedimento realistico-allegorico, non lo faceva stare sulle nuvole, ma gli consentiva di parlarci, in altro modo, di cose vere e reali come l’inferno che l’uomo ha creato in questo mondo, le incertezze, l’instabilità e l’alienazione dell’uomo contemporaneo in una realtà così complessa come quella post-moderna. Gli consentiva di parlare di industria e operai; di speculazione edilizia e inquinamento; di boom economico e degradazione del paesaggio; di consumismo e decadenza dei costumi pubblici e privati; di corruzione,di truffa e di avidità; di disuguaglianza e ingiustizia; di perdita dei valori veri come la libertà, la bellezza e la spontaneità. Il richiamo alla cultura decadente gli consentiva anche di rappresentare la realtà nelle sue sfaccettature, nella sua relatività, nel suo disordine e nella sua caoticità alienante.
Per Calvino la realtà e il mondo sono come un labirinto, e la sfida consiste nel riuscire a capirli e a leggerli, affrontarli e starci dentro, ma in maniera perplessa e critica, distaccata e ironica se non si vuole perdersi e smarrirsi in essi senza più possibilità di ritrovarsi.