Cosenza-08/01/2016:MIGRANTI ITALIANI: APRIRE UN FRONTE DI AUTONOMIA SOCIALE
MIGRANTI ITALIANI: APRIRE UN FRONTE DI AUTONOMIA SOCIALE – Ecco alcune mie riflessioni pubblicate questa mattina sulla prima pagina del Quotidiano del Sud.
Visti i numeri pubblicati in queste ultime ore sui principali organi di stampa, viene da riflettere diversamente sul fenomeno migratorio da cui l’Europa è invasa ed è responsabile. In Italia arrivano i migranti dei paesi un tempo colonizzati dagli Europei, arrivano “braccia” di lavoro a basso costo in un paese, il nostro, dove si lamenta l’elevato costo del lavoro e della sicurezza, dove domina il lavoro nero che diventa più tale quando si accoglie la forza lavoro migrante. Un tempo erano “proletari” che partivano in cerca di fortuna, possessori solo della propria prole, adesso si dice “migranti” ed è come una “traduzione” dello stesso termine. I migranti che arrivano in Italia hanno la stessa faccia degli Italiani del dopoguerra, anche loro arrivano dopo una guerra o da una guerra in corso nel loro paese. Una guerra è il bisogno. Si capisce perché alcuni politici dicevano che i migranti sono la nostra ricchezza, il nostro futuro: certo sono lavoro a costo zero, meglio ancora se clandestini. Da noi allora arrivano le braccia di lavoro senza garanzia, permettono anche la cattiveria della corruzione di chi lucra sulla loro miseria, anche questo accadeva nell’Italia di un altro tempo. Ma una storia non c’è più, questo è un tempo che non ha la storia come sua periodizzazione, l’effetto della globalizzazione è anche questo. Da questa Italia migrano i giovani, laureati e no, c’è chi ha la laurea dell’università e chi ha la semplice laurea dell’età, perché avere venti anni significa avere la laurea del futuro. La vanno a consegnare in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti, in quelli che sono stati e sono i paesi colonialisti. Noi consegniamo i “cervelli”, si scrive, ed è assurda anche questa espressione che dice non di una persona, ma di una parte del corpo, quello ad uso della produzione richiesta e corrente. È un effetto domino: a noi arriva la forza lavoro di braccia e da noi parte la forza lavoro d’intelligenza. Questo paese, il nostro, resta ad economia di braccia, mentre formiamo intelligenze che altri assumono a proprio vantaggio e consumo, ringraziando delle spese risparmiate per la formazione. È una follia. La Germania ha chiesto i documenti ai Siriani, assicurandosi che fossero “intelligenze”, gli altri li hanno inviati altrove. La Svezia, la Danimarca hanno chiuso l’accesso, non certo agli Italiani. Ed è preoccupante perché capiamo che siamo un paese di migranti, non un paese che accoglie i migranti, ma che fa parte del flusso di migrazione secondo una “sistemazione” geoeconomica assai precisa, una distribuzione a misura dello sviluppo. Gli effetti sono questi. L’Europa colonialista non può più restare nelle terre di colonizzazione, non offrono sicurezza, ci sono guerre, restano quelle del petrolio, dove s’inviano aeri di supporto ai coloni locali. Non si può certo investire in quelle zone, così ecco che si fa il percorso inverso, vengono loro da noi a lavorare a costo zero, si pagano anche il viaggio, arrivano nudi alla meta, cioè nella condizione di accettare qualunque sfruttamento. Dall’Italia vanno via i laureati, pronti a produrre ricerche, oggetti, applicazioni, tecnologie. Ci sono poi quelli che vanno a fare i banconisti, i camerieri, i ristoratori. A vedere dall’alto come un padrone divino, si direbbe che tutto funziona secondo quel ciclo di distribuzione del lavoro che soppiantò quello che un tempo era la distribuzione delle merci di lavoro. Adesso la distribuzione non è delle merci, ma di chi le produce. Non si distribuiscono cose ma persone. Le merci sono le persone. Così leggiamo le statistiche del giorno che danno l’emigrazione dall’Italia più forte al Nord che al Sud con a capo le grandi città Milano, Roma, Napoli, ma anche Bolzano a rappresentare come sia falsificante quell’altra statistica che dice che la qualità della vita è più alta a Trento che a Reggio. L’emigrazione da Trento dice che ad emigrare sono i centri universitari. Quelli di Reggio possono restare e confondersi con quelli che arrivano a braccia nude. I Calabresi restano le persone più ospitali del Paese, bisognerebbe farle queste statistiche. Anche per Napoli che sta vivendo com’era in altri tempi la rappresentazione di una città alternativa alla globalizzazione, dove la qualità della vita ha lo stile della gioia. Certo bisogna fare passi avanti, ma è questo lo sviluppo che vogliamo ed è fuori dal mercato delle persone. C’è da riflettere sul grado di libertà del paese. C’è da riflettere. La libertà di un paese si misura dalla qualità dei propri legami sociali. Qui dobbiamo fare resistenza. Aprire questo fronte, non di secessione territoriale, ma di autonomia sociale. Non si tratta di imitare o riportare qui modelli di altri e di altrove. Si tratta di ritornare ad essere autonomi, riprenderci la nostra ricchezza, ritornare qui, convocare un “convegno di ritorno” di tutti gli emigrati e di tutti i giovani che vogliono migrare qui dove vivono ed abitano, perché migrare sia alla fine trasformare e fare delle nostre terre un meta di viaggio. In fondo siamo viaggiatori, la differenza è questa. Chi viaggia sa ritornare, conosce il ritorno, sa dell’origine. Può anche non ritornare e continuare a restare là da dove è partito, lo sappiamo, non perdiamo il nostro accento e i nostri gesti. Chi non sa ritornare non viaggia, va via, non sogna.