Trebisacce-15/03/2016:OMAGGIO A UMBERTO ECO (di Salvatore La Moglie)

 

ECO-image-OMAGGIO A UMBERTO ECO

Di Salvatore La Moglie

 

    Nella notte del 19 febbraio scorso Umberto Eco ci ha lasciati, a 84 anni, per colpa di un tumore al pancreas, contro il quale combatteva da un po’ di tempo. Quando la mattina seguente ho appreso la terribile, dolorosa notizia dai TG, confesso che sono rimasto allibito, non riuscivo a credere che un uomo come Eco ci avesse potuto giocare il brutto scherzo di lasciarci un po’ più soli su questo mondo. Perché la morte di Eco è una di quelle morti che, per dirla con Mao Tse-tung, pesano come montagne.

Salvatore La Moglie
Salvatore La Moglie

    Senza tracciare qui una biografia del grande scomparso, quello che bisogna sottolineare è la perdita gravissima per la cultura italiana e mondiale. Sì, perché Eco è stato uno dei pochi intellettuali, uomini di cultura che riescono ad ottenere non solo un successo universale ma soprattutto la stima e il rispetto universali. Il nostro Eco ce lo invidiavano tutti, perchè apparteneva (e appartiene) al patrimonio culturale dell’umanità. Egli può certamente essere definito l’ultimo erede della grande cultura umanistico-rinascimentale e anche di quella illuministica. La sua cultura era immensa, tanto da poterlo definire uomo-libro, uomo-enciclopedia. Ricordo che sul Venerdì di Repubblica di un po’ di anni fa il critico letterario Angelo Guglielmi (che, insieme ad Eco e altri, ha fondato il Gruppo 63, movimento di neoavanguardia) scrisse che: Eco sa tutto. Eco conosce tutto. Eco, insomma, era una sorta di tuttologo, una mente multidisciplinare in grado di dare una risposta su ogni argomento. E’ rimasta famosa la sua riflessione sulla lettura, sul leggere: chi legge è come se vivesse più vite, anzi è come se vivesse cinquemila anni, mentre chi non legge ha vissuto solo per settanta o ottanta anni. Vale la pena riportare quanto Eco scrisse su“L’Espresso” del 2 giugno 1991, in una sua Bustina di Minerva, dal titolo Perché i libri allungano la vita:

 L'ESPRESSO-3-3-2016

…Una volta Valentino Bompiani aveva fatto circolare un motto: “Un uomo che legge ne vale due.” Detto da un editore potrebbe essere inteso solo come uno slogan indovinato, ma io penso significhi che la scrittura (in generale il linguaggio) allunga la vita. Sin dai tempi in cui la specie incominciava a emettere i suoi primi suoni significativi, le famiglie e le tribù hanno avuto bisogno dei vecchi. Forse prima non servivano e venivano buttati quando non erano più buoni per la caccia. Ma con il linguaggio i vecchi sono diventati la memoria della specie: si sedevano nella caverna, attorno al fuoco, e raccontavano quello che era accaduto (o si diceva fosse accaduto, ecco la funzione dei miti) prima che i giovani fossero nati. Prima che si iniziasse a coltivare questa memoria sociale, l’uomo nasceva senza esperienza, non faceva in tempo a farsela, e moriva. Dopo, un giovane di vent’anni era come se ne avesse vissuti cinquemila. I fatti accaduti prima di lui, e quello che avevano imparato gli anziani, entravano a far parte della sua memoria.

Oggi i libri sono i nostri vecchi. Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissuto moltissime. Ricordiamo, insieme ai nostri giochi d’infanzia, quelli di Proust, abbiamo spasimato per il nostro amore ma anche per quello di Piramo e Tisbe, abbiamo assimilato qualcosa della saggezza di Solone, abbiamo rabbrividito per certe notti di vento a Sant’Elena e ci ripetiamo, insieme alla fiaba che ci ha raccontato la nonna, quella che aveva raccontato Sheherazade.

A qualcuno tutto questo dà l’impressione che, appena nati, noi siamo già insopportabilmente anziani. Ma è più decrepito l’analfabeta (di origine o di ritorno), che patisce di arteriosclerosi sin da bambino, e non ricorda (perché non sa) che cosa sia accaduto alle Idi di Marzo. Naturalmente potremmo ricordare anche menzogne, ma leggere aiuta anche a discriminare. Non conoscendo i torti degli altri l’analfabeta non conosce neppure i propri diritti.

Il libro è un’assicurazione sulla vita, una piccola anticipazione di immortalità. All’indietro (ahimè) anziché in avanti. Ma non si può avere tutto.

 

 

Eco visto da Guido Scarabottolo
Eco visto da Guido Scarabottolo

 

Insomma, secondo Eco: Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

    Certo: non si può avere tutto, ma anche se la cultura non ci allunga realmente la vita ci dà almeno la sensazione di una vita lunghissima e ben vissuta. Poi, per uomini come Eco, che non solo hanno letto ma anche scritto tanto (ben 45 libri!) la cultura garantisce l’immortalità e l’eternità, almeno finchè il mondo ci sarà. E non è certo il mancato Nobel (che Eco meritava) che potrà mettere in dubbio tale immortalità. Perché Eco è ugualmente un gigante, anzi l’ultimo dei geni che la nostra difficile e complessa  epoca sia stata in grado di generare. I suoi libri, primo fra tutti Il nome della rosa, sono stati venduti e letti in milioni di copie. Solo Il nome ha venduto oltre 30 milioni di copie! Insomma, uno scrittore da best-seller che ha fatto conoscere la cultura italiana in tutto il mondo. E che cultura! Cultura alta e, però, allo stesso tempo, capace di essere compresa anche da un pubblico di massa. Perché Eco è stato tutto questo: cultura di altissimo livello e cultura in grado di essere compresa dalle masse, capace di comunicare il sapere e divulgarlo alle masse, al pubblico delle masse di fruitori dell’epoca post-moderna che si vorrebbe o apocalittici o integrati, ma che lui dice di non volere né in un modo né in un altro: li avrebbe voluti semplicemente avvertiti, intelligenti, illuminati, possibilmente ben armati culturalmente, almeno quel tanto che basta per non cadere nelle trappole e nelle insidie di internet o nelle possibili carenze o errori di Wikipedia. Per un uomo come lui che, tra Milano e Bologna, possedeva oltre 50 mila libri e, quindi, una immensa biblioteca in cui amava naufragare, è chiaro che Wikipedia era vista con un po’ di sospetto. Ecco cosa scrisse un po’ di anni fà: …Wikipedia ha anche un’altra proprietà: chiunque può correggere una voce che ritiene sbagliata. Ho fatto la prova per la voce che mi riguarda: conteneva un dato biografico impreciso, l’ho corretto e da allora la voce non contiene più quell’errore. […] La cosa non mi tranquillizza per nulla. Chiunque potrebbe domani intervenire ancora su questa voce e attribuirmi  (per gusto della beffa, per cattiveria, per stupidità) il contrario di quello che ho detto o fatto.  E ancora:  …Quanto ci si deve fidare di Wikipedia? Dico subito che io mi fido perché la uso con la tecnica dello studioso di professione [… ] Ma io ho fatto l’esempio di uno studioso che ha imparato un poco come si lavora confrontando le fonti tra loro. E gli altri? Quelli che si fidano? I ragazzini che ricorrono a Wikipedia per i compiti scolastici? [… ] da gran tempo io avevo consigliato, anche a gruppi di giovani, di costituire un centro di monitoraggio di Internet, con un comitato formato da esperti sicuri, materia per materia, in modo che i vari siti fossero recensiti e giudicati quanto ad attendibilità e completezza.

    Grande studioso dei mass media, Eco, che non ha mai disdegnato di analizzare i piani bassi della cultura nelle complesse società di massa, negli ultimi tempi, aveva detto la sua (suscitando l’ira di tanti internauti…) anche sull’imbecillità così diffusa sui social network: I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. E di imbecilli, come diceva un altro grande, Eugenio Montale, ce ne sono tanti, sono quelli che non mancano mai… e possono combinare guai… Insomma, Eco si è sempre occupato dei media e dei fenomeni comunicativi della società di massa (perfino di un fenomeno come Mike Bongiorno, che fece tanto discutere) ma mettendo sempre in guardia il lettore, invitandolo, cioè, a leggere la realtà e i fatti con intelligenza e occhio critico, guardando in profondità senza mai accontentarsi della superficie. Un uomo da 50 mila libri non poteva accontentarsi della superficie. E, in questo diffidare con intelligenza del fenomeno internet e dell’enciclopedia libera Wikipedia, il Maestro invitava a fidarsi soprattutto della memoria, ad usarla e ad esercitarla perché senza memoria non siamo nulla, al massimo uno dei tanti animali che abitano la terra. Eco sapeva bene che la memoria è tutto, conosceva il pensiero di Dante sulla memoria e lo condivideva: Chè non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, cioè non si ha sapere, conoscenza se non si trattiene a mente ciò che si inteso e appreso, e insomma, non c’è sapere senza memoria: solo la memoria può salvare il sapere, la conoscenza, e soltanto in tal modo il mondo potrà ancora essere dominato razionalmente dall’uomo ed essere suo. Diceva, infatti, se non erro, il filosofo Nietzsche, che  il futuro e, dunque, il mondo di domani apparterrà a chi avrà più memoria.

    Proprio con la forza della memoria e le tante migliaia e migliaia di libri letti, Eco è stato la metafora vivente dell’unità del sapere, della sintesi di tutto il sapere racchiuso in un uomo, in un microcosmo che reca dentro di sé il macrocosmo, capace di custodirne tutto lo scibile e, pertanto, la sua invidiabile biblioteca milanese appare come metafora di quella biblioteca (un po’ alla Borges…) che era una bibliotecauniversobabelelabirinto dentro alla quale, però, solo l’uomo di vastissima cultura e di sterminata e infallibile memoria è capace di districarsi agevolmente ed essere in grado di trovare l’uscita ogniqualvolta vi entra.

    Insomma, Eco è stato e resta un grande e insostituibile  Maestro, così lucido e limpido, limpida lingua e limpida ragione (direbbe Pasolini), di quelli che non dovrebbero morire mai e, infatti, ha detto bene Roberto Benigni al funerale: Faceva bene al mondo, era una cosa bella… Di persone come lui ce n’è più bisogno sulla terra che in cielo. .. Quindi quando si perde una persona così è un grande dolore. E Moni Ovadia ha detto che: Dio sopporta i credenti ma predilige gli atei. Sì, perché Eco non era credente e, infatti, si è fatto cremare. Certamente, con un sorriso sulle labbra, avrebbe detto, come Luis Bunuel, che: grazie a Dio, sono ateo… Non credente, scettico, razionale, illuminista ma pur sempre aperto alla discussione e alla riflessione anche su Dio, la fede e la religione che sono state così importanti ed egemonizzanti in quel Medioevo che lui tanto ha amato e riscoperto come periodo storico non tutto in negativo ma, anzi, così innovativo e disposto ai cambiamenti.

    Sull’immenso Eco – che Dante, pure così enciclopedico e totale, definirebbe, oggi, il maestro di color che sanno – ci sarebbe tanto da dire e da scrivere, tanto la sua opera è vasta e tanto è il peso che ha avuto nella vita culturale e sociale del nostro paese nella seconda metà del Novecento fino ai nostri giorni e tanta ancora quello che continuerà ad avere nei tempi che verranno. Perché il Maestro dalla mostruosa cultura e dalla mostruosa memoria è ormai un classico. E che cos’è un classico? Un classico è un autore che ha sempre qualcosa da dirci e da darci anche fra diecimila anni. Eco era un postmoderno antiaccademico, antiretorico e anticonformista, capace di ironia e di autoironia, capace di fare cultura alta rendendola accessibile ad un pubblico di massa, capace di rendere semplici anche le cose più difficili come, per esempio, la filosofia. Egli ci ha insegnato tante cose, tra queste, per esempio, che la cultura classica, la cultura dei millenni che ci hanno preceduto non può e non deve essere ignorata ma, anzi, deve farci da guida nell’affrontare la complessità del mondo in cui viviamo. Nel Nome della rosa ci ha insegnato quanto un libro e la sua lettura possano essere rivoluzionari e, anzi, pericolosi, tanto da impedirne la fruizione pena la morte, proprio come accadeva nella medievale abbazia dei misteri, nella cui grande biblioteca era custodito il secondo libro della Poetica di Aristotele, creduto andato perso per sempre. Ebbene, questo secondo libro non poteva essere letto perché parlava del riso e il riso, per la Chiesa dell’Inquisizione (fondata intorno al 1215), era diabolico e conduceva alla perversione… Insomma, Eco ci ha aiutato a saper pensare e a saper ben riflettere, dicendoci che solo con la cultura e la memoria possiamo riuscire a  non farci travolgere e, quindi,  a dominare il caos, la babele, il mostruoso labirinto che il mondo è diventato e poter riuscire, anche, ad allontanare i mostri che facilmente vengono alla luce con il sonno della ragione, come già ci aveva avvertito il grande Goya. E, dunque, grazie caro Maestro Eco, grazie per quello che sei stato e che hai fatto per la nostra cultura e per quella universale. Altro che cattivo maestro come qualche miserabile foglio di carta stampata di certa famiglia berlusconiana ha cercato, miseramente, appunto, di tacciare un genio come Te, solo perché durante l’era di Berlusconi  fosti  fiero avversario del berlusconismo… Fa male questo vezzo tutto italico di denigrare anche un genio soltanto perché non è stato o non è organico a questo o quel partito o a questo o quel governo. Lo stesso destino di denigrazione (da parte della destra di questo politicamente infelice paese) lo subisce da anni anche  il premio Nobel Dario Fo. Invece, noi siamo orgogliosi sia di Fo che di Eco, perché sono entrambi patrimonio della cultura italiana e universale.

     Per completare l’omaggio al Maestro che conosceva il nome della rosa e soprattutto il segreto che racchiudeva, vogliamo offrire, qui di seguito, agli amici e ai lettori de La Palestra il testo della prima Bustina di Minerva scritta per L’Espresso e pubblicata sul numero del 31 marzo del 1985 con il titolo  Che bell’errore!, in cui, al centro, c’erano  lo sbaglio e il caso come strumenti di scoperta.

 Sto iniziando una rubrica. Mi è accaduto altre volte e ho sempre avuto la forza di smettere nel giro di un anno. L’appuntamento settimanale corrode. Questa volta forse smetterò prima, provo soltanto, per far piacere al Direttore, uomo potentissimo e vendicativo, e in vena di novità.
L’intitolo alla bustina di Minerva, senza riferimenti alla dea della sapienza, bensì ai fiammiferi. Quando capita che la bustina abbia il lembo interno vergine di pubblicità, gli uomini pensosi usano appuntarvi idee vaganti, numeri di telefono di donne che un giorno sarà opportuno amare, titoli di libri da comperare, o da evitare. Valentino Bompiani scriveva (e forse scrive ancora) le idee che gli passavano per la testa sul retro delle scatole di raffinatissime sigarette turche. Credo conservi migliaia di ritagli di scatole nei suoi archivi, e molte delle sue iniziative editoriali sono cominciate così. Dal numero delle schede accumulate felicemente, direi che il fumo non fa male.
Ritengo sia utile appuntare idee sulle bustine di Minerva, e anche Husserl faceva qualcosa del genere. A Lovanio non hanno ancora finito di decifrare tutto quello che ha scritto, e il rettore di quella università, che deve stanziare i fondi per la ricerca su quei crittogrammi, mi diceva tra il preoccupato e il faceto che un uomo che ha scritto tanti foglietti (credo siano centomila) non può sempre aver scritto delle cose sensate. Però le cose che ha pubblicate sono piene di senso. Questo significa che l’umanità pensante si divide tra chi si limita ai Minerva e chi poi coordina questi appunti in un discorso organico. Lì vengono i nodi al pettine.
Per intanto bustine: sull’ultimo libro non letto, sull’intuizione che ci ha attraversato la mente in autostrada mentre si frenava per non finire in coda a un Tir, sull’essere e il nulla, sui passi celebri di Fred Astaire. Poi si vedrà.
Primo pensiero. Sto seguendo il Colombo televisivo, né intendo rubare il mestiere al titolare della rubrica apposita. Semplicemente (e accade ogni qual volta si rilegge la storia di Colombo) stupisce quanto si possa andare lontano con una idea sbagliata. Anzi, con un pacchetto di idee tutte sbagliate: sbagliato il calcolo delle dimensioni della terra, sbagliato il credito dato a certi cartografi, sbagliato il progetto di redenzione dei selvaggi asiatici, sbagliato persino l’investimento economico. Povero Cristoforo finito poi così tristemente. Eppure, la sua scoperta ha rivoluzionato il nostro millennio.
Per questo genere di scoperte, fatte per sbaglio, gli inglesi hanno un termine che non esiste nel nostro lessico se non per ricalco: “serendipità”. È curioso che il termine si formi nel lessico inglese, a causa della storia dei tre principi di Serendip scritta nel Settecento da Horace Walpole. Perché di fatto la storia di questi tre principi, che trovano qualcosa cercando qualcosa d’altro, viene da una antica novella persiana, poi tradotta in italiano nel Rinascimento, poi passata alle altre culture europee, come anche ci ripeteva Carlo Ginzburg nel suo famoso saggio sul paradigma indiziario.
Il fatto è che tutte le grandi scoperte avvengono per una certa qual forma di serendipità. E non sto solo pensando a Madame Curie che lascia la pecblenda sul comodino per disattenzione, o allo sciagurato Bertoldo il Nero che cerca la polvere di proiezione e scopre la polvere da sparo. Ogni grande scoperta avviene perché lo scienziato (o il filologo, o il detective) invece di seguire le vie normali di ragionamento si diverte a pensare che cosa succederebbe se si ipotizzasse una legge del tutto inedita e puramente possibile, la quale però fosse capace di giustificare – se fosse vera – i fatti curiosi a cui con le leggi esistenti non si riesce a dare spiegazione. Ma questa legge inedita non viene fuori al primo colpo: si va per così dire per farfalle, si passeggia con la mente in territori altrui. In fondo il pensatore creativo è colui che decide di fare, ma scientemente, quello che Colombo ha fatto per sbaglio: «Visto che non trovo una risposta a questo problema, perché non cerco la risposta a un altro problema, magari del tutto extravagante?».
Allenarsi a rischiare errori, con la speranza che alcuni siano fecondi. In fondo anche scrivere sulle bustine di Minerva può avere la stessa funzione. Dipende naturalmente se ci scrive Kant o se ci scrivo io (a cui Luis Pancorbo ha attribuito una volta l’angoscioso pensiero: «I can’t be Kant»).
Certe volte temo che chi non scopre mai niente sia colui che parla solo quando è sicuro di aver ragione. È mica vero quel che ci raccomandavano i genitori: «Prima di parlare pensa!». Pensa, certo, ma pensa anche ad altro. Le idee migliori vengono per caso. Per questo, se sono buone, non sono mai del tutto tue.