Rocca Imperiale-28/08/2016:Un ritorno alle origini: Alla scoperta di Rocca Imperiale, un paesino calabrese (di Sabrina Pugliese)
Un ritorno alle origini:
Alla scoperta di Rocca Imperiale, un paesino calabrese
Solitamente un giornalista ha il dovere di raccogliere sì informazioni di prima mano ma poi è tenuto a rielaborare i dati e ad offrire le varie testimonianze mediate dalla sua penna e dal suo stile. Questa volta faremo un’eccezione. È giunta in redazione una lettera preziosa, una testimonianza che non necessita di trascrizioni. Un giovane ragazzo francese, ma nato da genitori italiani immigrati in Francia, ha voluto scoprire quelle radici che sapeva di avere ma che non aveva mai testato dal vivo. Ecco qui il suo racconto.
Mio padre mi parlava con frequenza costante della sua terra natia, la Calabria. Io non capivo perché ogni occasione fosse buona per fare riferimenti e confronti con “le abitudini del Sud”. Che poi mi chiedevo perché dovesse specificare proprio quelle del Sud se tanto mio padre comunque parlava dell’Italia in generale che, di per sé, ha altre usanze rispetto alla Francia. Spesso gli rispondevo che, in fondo, tutte queste differenze che egli notava erano frutto della sua fantasia, o meglio della sua nostalgia. Gli replicavo che non avendo studiato, non sapeva dell’origine latina che accomuna Francia e Italia, della loro lingua così veracemente commista, fusa insieme, caratterizzata da scambi e prestiti linguistici innumerevoli. Gli spiegavo che “noi” francesi non potevano esserci evoluti in modo autonomo se la nostra civiltà ha iniziato a risplendere grazie alle province romane. Testardamente però mio padre, senza esitazioni, continuava a dirmi che su certi versanti, le logiche di causa e di effetto della storia non contano. Ci vuole sentimento per capire alcuni legami. Lui non parlava solo di legami affettivi ma di un dialogo continuo, mai spezzato né interrotto, con la sua “terra” e sottolineo il termine terra. Questa è la madre-terra che visceralmente avvinghia a sé anche colui che ha osato allontanarsene e distaccarsene. Sebbene ci siano motivi indiscutibili, impegni improrogabili, la madre-terra ha sempre il potere di far sentire in colpa in qualche modo il figlio che l’abbandona.
Tutte queste accartocciate sensazioni malinconiche le provava mio padre. In realtà anche mia madre, ma lei aveva più l’inclinazione alla rassegnazione. Lei ripeteva un modo di dire che si usava nel suo paese “Dio così ce l’ha destinata e così ce la dobbiamo tenere”, sottintesa la vita. Invece mio padre mi sembrava un vero e proprio brontolone, e ora il mare non era pulito e tranquillo come quello del suo paese, e ora lo stile di città lo angustiava troppo e non vedeva l’ora di ritornare alla quiete delle sue masserie. Per me desiderava soltanto regredire in uno stadio rurale, fuori dalla dimensione del tempo.
In ogni caso, per quanto io appartenga ad una seconda generazione di immigrati e mi senta francese piuttosto che italiano, perché nato, cresciuto qui, in quel posto agognato che per i miei coetanei italiani si chiama l’estero, nonostante tutto ciò, ero curioso di esplorare le mie origini e di conoscere i miei nonni. D’altronde sono anziani e forse non avrei avuto ancora molti anni a disposizione per conoscerli. Quando i miei genitori sono arrivati in Francia, hanno trovato la cosiddetta “America”, un benessere che nella loro patria non esisteva. Soprattutto hanno trovato un posto di lavoro. Ora, la mia generazione, “bazzica”, arranca e così anche io, alla scadenza di un contratto a tempo determinato, mi sono ritrovato con le mani in mano.
Perché non cogliere l’occasione per andare in Italia? Tutti si stupivano che la mia prima volta nel Bel Paese fosse a Rocca Imperiale. “E che mai andrai a fare in questo paesino sperduto della Calabria?“ mi chiedevano. Io però continuavo a rispondere che lì stavano le mie origini, che lì erano i miei affetti anche se queste parentele non avevano mai ricevuto un contatto umano. In effetti, tante volte i miei genitori mi avevano promesso che saremmo tornati in Calabria ma c’era sempre una scusa per rimandare, poche ferie oppure pochi soldi.
Persino il volo in aereo mi sembrò lungo, io che ero abituato a piccole tratte e a vedere una sola dimensione spaziale ristretta. Che sciagura per me avere a disposizione scarsi collegamenti come quello dall’aeroporto di Bari a Rocca Imperiale, sulla costa jonica.
Rocca è il primo paese calabrese che incontra chi proviene dalla Basilicata ma si trova già nella provincia di Cosenza. Mi trovavo in una nazione europea, l’Italia, al confine con la mia amata Francia eppure mi sembrava di stare in territorio straniero. A Rocca il mare è davvero a pochi passi e, informandomi, scoprii che c’erano ben 7 km di spiaggia sotto il suo stesso comune.
Sceso dal pullman, ho letto un cartellone: “Marina di Rocca Imperiale, il paese dei limoni e della poesia”. Mica male per essere un paesino di soli 3000 abitanti circa. In lontananza notai uno stemma di drappo azzurro ornato di ricami. Al centro erano rappresentate tre torri, simbolo del castello. In effetti, sulle cartoline conservate da papà c’era sempre questo famoso castello che io in quel momento riuscivo a malapena a intravedere da lontano, era in cima ad una rocca appunto. Papà, infatti, mi aveva raccontato che il nome Rocca era in realtà un toponimo dal latino volgare “rocca”, cioè rupe o luogo fortificato, insomma una fortezza ricostruita in un luogo elevato. Come dare torto ai latini, il castello sembrava proprio avvinghiato sulla sommità della collina, alta solo 250 m ma le basi delle torri sembravano far fatica a tenersi strette attorno alla cima.
Intanto vedevo passare davanti a me una processione di donne e uomini di seguito ad un parroco che pregava rivolgendosi ad una statua rappresentante la Madonna portata sulle spalle da alcuni fedeli. Come gridavano certe donne anziane, come si addoloravano! Sapevano tutti i canti religiosi a memoria, quasi come se fossero impossessate da Dio, in senso positivo ovviamente. Che festa religiosa ci sarà mai la prima domenica di agosto? Incuriosito mi sono avvicinato ad una donna, sembrava una madre di famiglia e le ho chiesto di che tipo di ricorrenza si trattava. Stupita dalla mia ignoranza, mi ha subito informato che naturalmente si trattava di una processione che si svolge ogni anno proprio d’estate quando tutti gli emigranti tornano in paese. Infatti era la Festa dell’Emigrante. Mi dicevo, bene allora siamo in molti ad aver “tradito la patria”. La maggior parte dei partecipanti alla manifestazione, infatti, erano forestieri ma c’erano anche molti residenti. Tra l’una e l’altra componente non si notava una frattura. Gente che non si vedeva da anni, ora si ritrovava di nuovo insieme, di nuovo nello stesso posto, nella stessa occasione e avevano il sorriso di sempre.
Ai lati delle strade, trafficavano turisti, bambini in costume che si dirigevano al mare, anche loro ovviamente tornano a Rocca solo per l’estate. Allora, in quanti rimangono qui durante l’anno? Diventavo sempre più desideroso di indagare, a volte forse esageravo, forse potevo risultare impertinente e opprimevo i passanti con troppe domande. Tuttavia, questi perfetti sconosciuti erano persino lusingati di ricevere così tanta attenzione da parte mia. Pensavano che finalmente qualcuno si interessasse di loro, della vita che facevano, delle loro famiglie. E poi, a tratti, si insospettivano. Si chiedevano come mai un ragazzo così giovane si preoccupasse del loro parere di anziani. Erano convinti che io stessi facendo una qualche indagine, magari un sondaggio per l’Istat, che fossi un politico a caccia di voti oppure che fossi un giornalista alle prime armi. Ed io così mi divertii a spacciarmi per giornalista e loro continuavano a ripetere “ehi scrivi questo, mi raccomando sottolinea quest’altro, qui non se ne può più! Non abbiamo servizi, pochi mezzi di collegamento, tutti si stanno dimenticando di noi. Noi stessi lo chiamiamo il paese della tranquillità ma ora basta!”.
Nel frattempo continuavo a seguire la processione. Forse non era il posto migliore per reclamare delle risposte ma così, in una volta sola, avevo a disposizione tante persone con una storia simile alla mia, sotto il segno dell’emigrazione. Ciononostante mi ripetevo che, in fondo, io non avevo vissuto un bel niente, io non avevo subito nessun “trauma del distacco”. Eppure in quelle storie mi ci riconoscevo. Storie di povertà, storie di fame e di chi si ritrova senza alternative. Non sto esagerando se dei vecchietti mi hanno raccontato che, durante la guerra, si viveva trincerati in casa, che si aveva il terrore di accendere la luce in casa per il rischio di essere bombardati. Non riporto fandonie se scrivo che la gente si nutriva unicamente di ciò che trovava spontaneamente offerto dalla natura come fichi, erbe selvatiche, cicorie, pere anche marce. Si dice che la longevità maggiore sia riscontrabile in Calabria perché gli anziani sono abituati a mangiare verdure dal sapore amarognolo…e ci credo!
Decisi a un certo punto di abbandonare la processione e di avviarmi “al paese”, cioè verso la parte più antica del centro abitato. Lì abitavano i nonni, proprio in cima al cucuzzolo.
Dopo essere riuscito a trovare un passaggio con l’autostop, mi avvicinavo sempre più a questo triangolo di case antiche e notavo dal finestrino l’ingigantirsi di una fila interminabile di mattoni marroncini, rossicci, un tetto sopra l’altro, piccole piccolissime finestre. Tutti questi rettangoli di case erano dominati dall’altro dall’imponenza del castello. Sullo sfondo si scorgeva il parco nazionale del Pollino con le sue vette innevate.
Una volta ringraziato il conducente, mi fermai ai piedi del paese perché subito mi colpì la vista di una bella cupola. Questa fa parte del convento, così mi spiegò il conducente che entusiasta aggiunse “vai a visitarlo dentro. Accanto c’è anche il museo delle cere come lo si trova soltanto a Londra. In più possiamo vantare una biblioteca molto fornita e una sala convegni. Ad esempio se ti sbrighi, stasera potrai assistere alla presentazione di un libro sui famosi limoni di Rocca. Arrivederci e buona fortuna!”.
Mi avvicinai al convento e lessi un cartellone marrone con le notizie storiche relative. L’autorizzazione per la costruzione fu data nel 1562 e portata avanti per opera dei frati Minori Francescani dell’Osservanza Regolare. In un primo momento furono costruiti dei locali adibiti come alloggio dei frati stessi e subito dopo fu eretta la chiesa intorno al 1583. È un classico modello di architettura francescana con chiostro, cisterna, porticato, celle e chiesa. Dopo essere passato sotto il possesso di privati, è oggi proprietà del comune. All’interno si trova custodita una statua dell’Addolorata del XVII-XVIII secolo e una statua lignea di S. Antonio da Padova.
Bussai alla porta e venne ad aprire un frate molto gentile. Approfittai dell’occasione per chiedere indicazioni precise su dove si trovava la casa dei miei nonni. Pur avendo l’indirizzo non sapevo proprio che strada imboccare. Rimasi impressionato quando, non appena gli dissi il cognome dei miei nonni, lui capì subito di chi si trattasse e mi indicò il tragitto da fare. “Sono davvero brave persone, saranno contentissimi di ricevere il nipote!”.
Così mi avviai su una strada ripida, tortuosa e in salita, un girone dietro l’altro che faceva aumentare il mio affanno. Per riposarmi mi fermai un pochino ai margini della strada e notai parecchi anziani seduti davanti le porte delle loro case, fermi e immobili che si lamentavano del caldo torrido. Soprattutto mi colpirono le loro occhiate su di me. Mi osservavano, si capiva che volevano dedurre chi io fossi. Mi avvicinai ad un’anziana per chiedere se, proseguendo per quella stessa strada, potevo visitare anche il famoso castello di Rocca. Lei mi rispose di si, mi disse che se andavo sempre dritto ci sarei arrivato facilmente. Ma a questo punto si invertirono i ruoli, lei diventò l’intervistatrice e io l’intervistato. “Ma a chi appartieni? Da dove vieni? Non ti ho mai visto qui!”. Anche lei capì subito chi fossero i miei nonni e mi rassicurò “è brava gente, grandi lavoratori!”. Poi senza che io glielo chiedessi iniziò a spiegarmi tutte le parentele che mi riguardavano, chi si era sposato con chi, quanti figli aveva partorito una certa cugina ecc… tutte persone di cui io non conoscevo neanche il volto.
Tuttavia, notai una cordialità inusuale per me. In fondo non la conoscevo affatto quella signora ma in un quarto d’ora lei conosceva tutto di me e, a sua volta, lei mi stava raccontando tutta la sua vita. Fu tanto calorosa quest’accoglienza che mi convinse ad entrare in casa sua per offrirmi qualcosa da bere giacché mi vedeva tutto spossato. Era una casa semplice, spartana, umile. Spiccavano un crocefisso in cucina, immagini di santi e dei peperoni “cruschi”, cioè essiccati, appesi ad un filo che era fissato alle due estremità di una parete. Io non volevo essere invadente, mi sentivo quasi a disagio ad entrare in casa di una sconosciuta ma la signora anziana mi infondeva il calore di una nonnina. Mi raccontò di essere rimasta vedova e per giunta sola. I suoi figli erano tutti lontani, chi in nord Italia, chi in Sicilia, chi addirittura all’estero. Allora compresi che novità potesse essere per lei la chiacchierata con me, un’occasione casuale che può dare un andamento diverso alla giornata. Le chiesi come mai, dunque, non avesse fatto amicizie con altre sue coetanee e lei mi rispose con un dispiacere forte nel cuore “davanti sono tutti amici ma appena ti voltano le spalle non fanno che parlare male di te. Io li odio questi paesini dove la gente non ha nulla da fare che interessarsi delle sciagure degli altri. Troppa gente pettegola che si diverte a dare soprannomi ai compaesani. Sai come si dice qui? A ch(e) s’ fa gabb, i nascid a gobb, cioè a chi si fa gabbo degli altri gli nasce la gobba. Inoltre non c’è rimasto più nessuno qui. In 30 anni il paese si è quasi completamente spopolato.. e tra poco moriremo tutti noi anziani. Chi rimarrà qui? Chi?”. Una sentenza così amara, così triste che quasi mi sentii in colpa per essere nato all’estero, ma sapevo ovviamente che si trattava di un senso di colpa ingiustificato.
La ringraziai e continuai il mio ”viaggio” alla scoperta di Rocca Imperiale. Che fosse un paese molto religioso ormai lo potevo dedurre da ogni angolo di strada. C’era persino un murales della Madonna delle Cesine, festeggiata il 2 luglio. Un muro colorato, in evidenza, come se dovesse proteggere tutti coloro che passavano di lì. Più avanti, scorsi un manifesto con tutti gli eventi religiosi dell’anno: S. Antonio 13 giugno, Giornata dell’Emigrante la prima domenica di agosto, San Francesco da Paola la prima domenica dopo Pasqua. Gli abitanti saranno in continua processione pensai allibito! Per non parlare delle sagre, quella delle maiatiche a Carnevale e del vino, dei firzuli (maccheroni), della fresella tutte ad agosto e quella dei crispi a Natale. Sono anche dei buongustai questi rocchesi!
Finalmente arrivai al famoso “castill” come dicono qua. Non c’erano molti visitatori e la cosa mi dispiaceva molto. Il biglietto costava una miseria in confronto ai carissimi musei francesi. Una guida mi accompagnò nel tour e iniziò a narrarmi la storia del castello con uno spiccato accento calabrese. “Anche Federico II di Svevia è stato qui. Il castello è la parte più alta del paese, distante circa 4 km dal mare. Fa parte del borgo medievale che comprende anche tutte le costruzioni a gradinata. Questa struttura ha una rilevanza militare notevole, usata come dimora per gli spostamenti di Federico che amava alloggiare a Rocca perché luogo perfetto per la pratica venatoria. Non avete notato che il castello sembra un’enorme nave di pietra i cui lati si innalzano su un profondo burrone? Guardate il muro di cinta e divertitevi ad immaginare i soldati mentre gettano olio bollente dalle feritoie per difendersi dai nemici. In più un cordone di pietra aumentava il gettito dell’olio che sbattendo su di esso, schizzava su tutta l’area circostante. Ricordatevi che qui non mancano neanche le prigioni, le sale dei supplizi e delle torture, atte proprio a costringere i prigionieri a parlare contro la loro volontà. Usavano perfino anelli di ferro per le impiccagioni. Pensate che Rocca è un piccolo borgo collegato con grandi centri urbani attraverso vie sotterranee per fuggire di nascosto in caso di assalto dei nemici. Pure il castello è simbolo dello sciacallaggio di stampo italiano. Una volta abolito il feudalesimo, l’ultimo signore di Rocca nel 1835 vendette mobili, arredi, travi in legno e persino interi soffitti pur di trarne un vantaggio economico. Questo è il vandalismo, l’abbandono e la devastazione che caratterizzano i beni culturali italiani. La nascita dell’abitato risale al tempo di Federico II, nel 1239. Lo stile del castello non è diverso da quello delle chiese, uno stile romanico semplice ed essenziale. Suggestiva la sua forma quadrangolare con otto torri massicce di cui cinque a pianta circolare. La fortezza è circondata da un grande muro di cinta merlato con un fossato profondo ben otto metri provvisto di ponte levatoio esterno”. Il signor Federico si trattava davvero bene per essere soltanto un alloggio abitato nel periodo della caccia.
Uscendo dall’ingresso principale di quello che una volta era un baluardo militare, guardai l’immagine di Federico II dipinta su cartone quasi come se volesse ancora sorvegliare gli intrusi che oggi fortunatamente sono solo visitatori. Uno sguardo minaccioso, una presenza viva che si fa sentire come un richiamo alla storia attuale per dare una sentenza eterna: custodite dall’alto il vostro paese se lo amate veramente.
E ancora mi immaginavo i coccodrilli nel fossato, l’olio bollente che schizzava a dirotto sui nemici, i soldati pronti a sferzare frecce e pietre da dietro le feritoie. Più mi aggiravo per quelle stanze enormi, per quelle mura secolari, su quel pavimento decorato, su quelle travi a volte tremanti e più mi accorgevo che io stesso facevo parte di quella storia senza fine. Perché la continuazione siamo noi. Chissà che ruolo avrei avuto in quella società rurale e feudale. Magari sarei stato un semplice contadino ma comunque un elemento essenziale per la struttura di quell’antico sistema sociale.
Di colpo, uscito dal castello, subii il trauma di ritrovarmi di otto secoli più avanti. In quello stesso posto, luci abbaglianti, gente in movimento, chiasso e baccano prendevano il sopravvento su di me. Mi accorsi che avevano preparato degli stand, tavoli imbanditi accerchiati da gente curiosa. Era tutto a base di limone e in effetti scorsi un manifesto con su scritto “festa del limone. L’oro di Federico”. In quegli stand c’era tanto ben di Dio: marmellate di limone, torta al limone, granita rigorosamente al limone, limoncello ecc… Io guardavo tutto da persona stupita con un certo senso di straniamento tanto che un anziano si avvicinò a me dicendomi “tu sicuramente non sei di questo posto. Non ti ho mai visto e ti osservo da un po’. Caro ragazzo, tu pensi che questo sia un comune limone ma ti sbagli! Solo qui abbiamo il limone dolce che si mangia. Prova per credere!”. Provai eccome, che dolce delizia.
Un politico poi attrasse l’attenzione su di sé parlando da un microfono “oggi 3 agosto possiamo felicemente dichiarare che è nata la casa delle eccellenze Dop e Igp della regione Calabria”. Così continuò il suo discorso informandoci che era stato firmato un protocollo di intesa per il coordinamento dei consorzi di tutela, lo studio e la promozione dei prodotti di qualità regionali con la creazione di un marchio territoriale.
Allontanandomi dalla festa, notavo questa popolazione dagli abiti contemporanei con una pronuncia caratterizzata da vocali molto aperte, queste vetture all’ultima moda immerse in un contesto anni ’50. Infatti da un lato c’era il mercatino di beneficenza, dall’altro quello di alimentari, tutti piccoli negozietti con insegne generiche, i paesani che si ritrovano al bar e si richiamano con diversi soprannomi, la piazza come luogo per raccogliere informazioni in una maniera così scrupolosa come se dovessero scrivere un articolo per la gazzetta ufficiale. Eppure in vicoletti dai lampioni in stile romantico, si scorgono piccoli angoli di paese degradati o più che altro abbandonati. Serrande abbassate, porte chiuse di case sfitte e vuote che rischiano di presagire un paese-fantasma. Eppure in quella dimensione fuori dal tempo si parlava della tassa dell’Imu, della fatica di riuscire a sostenere le spese per case così “inutili”, ormai disabitate. Un territorio antico come questo non dovrebbe essere preservato in qualità di patrimonio dell’umanità? Mi chiedevo ancora perché gli italiani avessero permesso il furto di un immenso patrimonio artistico in modo così sciagurato da parte dei francesi che da sempre hanno avuto un fiuto più fine per gli affari.
Cercai di scacciare questi pensieri e di prepararmi all’atteso incontro con i miei nonni. Per strada scorgevo insegne ogni due passi e quindi camminavo a rallentatore per leggere le poesie che vi erano scritte sopra. Di qui “l’Infinito di Leopardi”, di là “I poeti lavorano di notte” di Alda Merini e poi ancora due passi avanti il “Tramonto” di Pirandello e così ogni vicolo era battezzato da un canto poetico. Ecco perché lo chiamano il paese della poesia. Per giunta c’era anche un manifesto che invitava a partecipare al V concorso di poesia inedita “Il Federiciano. L’unico concorso che dà l’eternità”. Un’iniziativa aperta a tutti, dilettanti e non, che stimolava la vena poetica dei rocchesi. Tra l’altro l’evento attraeva ancora poeti da ogni parte del mondo. Quasi quasi mi veniva voglia di cimentarmi anche io…chissà se ne fossi stato capace.
Arrivato a destinazione, bussai alla porta e mi aprì una vecchietta dallo sguardo dolce, con la schiena leggermente ingobbita. Un pò spaventata mi chiese chi fossi, cosa volessi da lei e soprattutto “a chi appartenessi”. Le risposi che appartenevo alla sua famiglia, che ero suo nipote e per toglierle ogni dubbio le feci vedere una foto con mamma e papà. Da lì mi assalì con una marea di abbracci, mi invitò ad entrare e, nel giro di un’ora, mi raccontò tutta la storia della sua vita che poi era anche quella della mia famiglia. Che fosse cordiale e accogliente me l’avevano detto ma notai un certo affetto tipico di quel calore familiare di cui solo un paesello ti può avvolgere. In quei momenti non rimpiangevo affatto la frenesia e la disinvoltura dei parigini. In quel momento volevo essere proprio lì in quel posto, in casa di mia nonna per recuperare tutto il tempo perduto, per sentire quelle storie di altri tempi che solitamente annoiano i nipoti, avendole sentite raccontare ripetutamente. Invece per me era tutto nuovo. Mi spiegò che mio nonno era andato in campagna e che sebbene ormai fosse in pensione non poteva fare a meno della sua terra, di occuparsi di nutrire conigli e galline. “Con l’attività da agricoltore ormai si guadagna davvero poco, è rimasto un ‘vizio’, un affanno giornaliero ma anche un piacere. Il piacere di mangiare ciò che coltivi con le tue mani. Una soddisfazione inappagabile. È solo un’attività secondaria per il sostentamento ma primaria per il benessere mentale. Togli la campagna a tuo nonno, la sua aria pura di prima mattina e gli toglierai la vita”. Io quasi mi vergognavo a confessarle di aver visto una masseria o una fattoria solo dal finestrino di una macchina e di non aver mai vissuto neanche una giornata in stile contadino. Capii però che proprio questo “stile” di vita stava alla base della genuinità, semplicità e generosità di questa gente.
Non vorrei idealizzare Rocca ma questo è un teorema che ben si adatta ai piccoli centri italiani, in modo particolare a quelli del sud. In un solo giorno avevo dimenticato tutti i pensieri che mi affannavano, i miei muscoli da sempre in tensione si erano distesi e io all’improvviso mi sentii più sereno.
Mi guardavo in giro, osservavo gli ambienti e immaginavo mio padre da piccolo mentre magari giocava in quella stessa sala da pranzo dove mi trovavo io. Osservai vecchi centrini che abbellivano il divano e le superfici dei mobili. Mia nonna, notando la mia attenzione su quegli oggetti, ci tenne a precisare che li aveva fatti lei con le sue stesse mani ma che non era l’unica, anzi, un tempo la principale attività femminile era proprio l’uncinetto. Lei una volta faceva la sarta ed era capace di cucire interi materassi. Anzi questa era una tipica attività anche maschile; erano numerosi una volta i sarti e si cercava di rattoppare qualsiasi indumento, in fondo il “vestito buono” serviva solo per le feste e per altre rare occasioni.
Preoccupata che fossi affamato, mia nonna si sforzava di propormi tutte le pietanze tipiche di Rocca che lei sapeva cucinare meglio. Giacché era ovviamente una perfetta donna di casa, non c’era piatto che non fosse squisito e finì per appesantirmi lo stomaco. Ancora sentivo sul palato quel misto tra il piccante del peperoncino (coltivato rigorosamente nel suo orto) e l’amarezza di certe verdure selvatiche. Il menù era vasto e assortito per il connubio tra pietanze di mare e di montagna. Mia nonna mi aveva praticamente costretto ad assaggiare gamberi e seppie fritti di cui vanno ghiotti a Rocca. Per di più come descrivere quel sapore mai provato di salsicce e soppressate di maiale nostrano! Mi fece gustare anche un ottimo primo piatto di fruzzuli fatti in casa con il sugo, il formaggio grattugiato e la mollica del pane, promettendomi addirittura che la prossima volta non mi sarei potuto perdere un altro tipo di pasta fresca, i cavatelli! Gustai ancora una portata che lei chiamava “la rosa marina salata” fatta di alici, triglie e altre specie di pesci con pepe rosso piccante, sale e olio di oliva. Mi spiegò che questo pesce viene conservato sott’olio nei barattoli di vetro e sono una vera delizia. Per non parlare della “maiatica” a base di peperoni secchi! Questa volta però ho voluto dare un aiuto in cucina a mia nonna e ho imparato il procedimento.
Innanzitutto bisogna porre i peperoni in acqua calda. A parte, bisogna creare un impasto liquido di acqua, farina e sale. Dopo aver soffritto i peperoni, una volta ammorbiditi, li unii alla pastella friggendoli in abbondante olio caldo. Insomma i rocchesi si mantengono davvero leggeri! Ovviamente da queste parti si conserva ancora la tradizione di mangiare carne locale di agnelli, conigli, polli, maiali di propria produzione che quindi hanno un sapore introvabile in altre parti del mondo! Devo dire però che non erano assenti neanche le verdure, soprattutto quelle di stagione e cioè estive come i fagiolini verdi, le zucchine, le melanzane, i pomodori, i cetrioli rigorosamente di propria coltivazione.
Anche la frutta è abbondante sul territorio come i fichi e anche quelli cosiddetti “a paletta” cioè i fichi d’india oppure i succosi agrumi. Tuttavia la frutta più nota di Rocca è l’uva regina che fa da padrone in modo particolare per la produzione del vino. Inutile dire che qui quasi ogni famiglia da ottobre a novembre è impegnata per la raccolta delle olive ricavandone un olio che può davvero essere definito extra vergine di oliva. Spizzicai ancora le famose “pitt lisc” cioè un pane dall’aspetto esterno liscio insieme alle “affellarusc”, crostini particolari di pane ricavati infornando in un primo momento delle pagnotte. In un secondo momento, devono essere tagliate longitudinalmente a metà e reinfornate per rendere la crosta davvero croccante. Di solito infatti le “affellarusc” vengono condite con pomodoro, olio e sale.
Per finire, mia nonna mi ha offerto il dolce tipico di Rocca, la “pitta duce”, un pan di spagna alto, a tre strati imbevuto di limoncello. Sempre pronti per essere offerti (altrimenti le nonne si offendono!) sono i biscotti con le mandorle, cotti con la stessa procedura della “affellarusc” e perciò hanno lo stesso nome e poi c’erano anche i dolci che vengono detti, con una certa italianizzazione, “pastarelle” resi gustosi da una spolverata di zucchero all’esterno.
Dopo essermi sfamato con pietanze così gustose quanto insolite per me, mi sentii quasi in colpa considerando i discorsi fatti precedentemente da mia nonna. Mi aveva raccontato che nel dopo guerra, in quello stesso paesino era un lusso mangiare carne che si poteva permettere solo il barone, proprietario di quasi tutti i terreni della zona. I contadini riuscivano a sopravvivere con quel poco di olio e di uva che ricavavano grazie al loro stesso lavoro.
Capii in poco tempo che questo paese colmo di storie amare e concrete, di gente semplice e verace, di leggende antiche e di date storiche, era parte integrante della mia identità. Quell’identità che non hanno mai tradito i miei genitori e che solo ora comprendevo a pieno.
Ora anche io potevo ripartire per altre terre, persino lontane, ma sentendo sempre forte e stretto quel cordone ombelicale indivisibile con la “mia” terra, quella nostalgia che ormai nessuno mi può strappare via.
Così mi tornavano in mente le parole di Cesare Pavese: “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Sabrina Pugliese