Trebisacce-09/05/2017: 9 MAGGIO GIORNATA DELLA MEMORIA DELLE VITTIME DEL TERRORISMO. OMAGGIO AD ALDO MORO E ALLE VITTIME DI VIA FANI (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera). (Di Salvatore La Moglie)
9 MAGGIO GIORNATA DELLA MEMORIA DELLE VITTIME DEL TERRORISMO. OMAGGIO AD ALDO MORO E ALLE VITTIME DI VIA FANI (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera).
Di Salvatore La Moglie
Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Giulio Rivera.
Sono passati 39 anni dalla strage di via Fani, dal sequestro e poi dal freddo assassinio dell’on. Aldo Moro, leader della Democrazia Cristiana che, quel 16 marzo del 1978 si recava in Parlamento per varare il primo governo con l’appoggio esplicito del PCI dopo decenni di esclusione dalle stanze del potere. La posta in gioco, in quel lontano e terribile 1978, era alta, anzi altissima e, dopo tanti anni, siamo ancora costretti a pensare a cosa c’è stato dietro, cioè siamo costretti a fare analisi complottiste e dietrologiche. E questo perché tuttora – come per tante altre orribili stragi e delitti politici di questo nostro “disgraziato” paese – non esiste tuttora una verità definitiva e soddisfacente sull’affare Moro. Tante cose sono ancora destinate a restare misteri e/o segreti, come per es., le borse di Moro, in alcune delle quali il leader democristiano portava documenti riservati, e, soprattutto, il Memoriale (che Miguel Gotor ha giustamente definito della Repubblica) che, a noi mortali, è stato dato di conoscere solo in forma censurata. Tanti sono i puntini di sospensione, gli omissis (operati da chi?) nella narrazione di Moro, il quale chissà cosa aveva scritto a futura memoria degli smemorati italiani… Non lo sapremo forse mai, ma c’è chi ha letto, c’è chi ha censurato, c’è chi ha custodito e c’è chi sa dove è custodito il testo completo del Memoriale. E poi ci sono tanti altri misteri destinati probabilmente a restare tali, come le “prigioni” in cui fu tenuto Moro, l’inquietante “bar Olivetti” della scena della strage e l’informazione, di fonte palestinese, proveniente da Beirut, datata 18 febbraio 1978, secondo cui, in Italia, era in preparazione un grave attentato. Informazione che il ministero degli Interni guidato da Cossiga e i vertici dei nostri servizi segreti finsero di non aver visto, letto e udito. Perché Moro (l’uomo politico più importante d’Italia) che temeva per sé e per i suoi familiari, non fu adeguatamente protetto? Inoltre, se è vero che ci fu una trattativa per salvare Moro, perché fu fatta fallire e da chi? Possibile che le BR fossero così dure e pure da rifiutare ben dieci miliardi di lire messi sul tavolo dal Vaticano? E ancora: si sa che i nostri Servizi conoscevano la “prigionia” di Moro, sapevano del covo di via Gradoli e di quello di via Montalcini: perché non hanno tentato un blitz? O, meglio, chi decise di non realizzarlo e/o di bloccarlo all’ultimo momento e perchè? Se è vero che i brigatisti registrarono la voce di Moro che rispondeva al loro “rivoluzionario” questionario, la domanda è: c’è qualcuno, chi è e dove custodisce nastri o videocassette? Perché proprio quando la direzione della Dc, con Fanfani al centro del discorso, stava decidendo per lo scambio di prigionieri, proprio quella mattina si decise, o meglio si diede l’ordine di eliminare un uomo che, probabilmente, si era deciso già dal 16 marzo di sopprimere? Infine, Moro fu veramente ucciso una volta accovacciato nella Renault? Sin da subito, a chi scrive, è parsa cosa davvero inverosimile. Più probabile è che sia stato assassinato all’impiedi o seduto e con l’assassino o gli assassini di fronte, guardati in faccia. In verità, una domanda da porsi è anche questa: perché Moro non è stato ucciso in via Fani, insieme ai cinque uomini della scorta? Evidentemente, chi progettò la strage e poi i 55 giorni di “prigionia” aveva come obiettivo principale quello di tenere sotto scacco e sotto pesantissimo ricatto non solo un’intera classe politica (non molto amata dalla maggiorparte degli italiani) ma soprattutto un intero Paese. Chi come Raniero La Valle scrisse allora, sulle colonne di Paese Sera, che in via Fani era avvenuta una Caporetto e, insomma, una vergogna nazionale che non poteva essere lavata con la via facile di un’assurda e inerte linea della fermezza, non si sbagliava perchè non era certo con il sangue di Moro che si sarebbe salvato uno Stato per il quale la DC al potere da più di trent’anni non aveva mai avuto il senso, se non il senso del potere fine a se stesso, tanto da averlo occupato e gestito anche con tanti scandali, malaffare e normale convivenza con le mafie. Durante il caso Moro la DC scoprì, improvvisamente, il senso dello Stato e delle sue istituzioni e decise, già il 16 marzo, che questo Stato (così, giustamente, lo definiva allora l’estrema sinistra) non si sarebbe piegato al ricatto delle BR e che per salvare se stesso avrebbe sacrificato l’uomo che si prevedeva essere destinato ad essere il nuovo presidente della Repubblica dopo il non esaltante mandato di Giovanni Leone, forse troppo ingiustamente attaccato dalla stampa e da certi ambienti politici. E così l’Italia dei guelfi e ghibellini si divise in falchi e colombe, in partito della fermezza e partito della trattativa. La DC-Governo-Stato respingeva il cosiddetto attacco al cuore dello Stato in nome della fredda ragion di Stato ma anche della ragion di partito, mostrando la propria inutile durezza e di avere un cuore così freddo da sacrificare il suo più prestigioso leader in nome della conservazione e della continuità del proprio potere e, allo stesso tempo, in nome della logica della sovranità limitata che, forse, impose il male minore dell’auto-golpe per evitare il peggio, cioè uno scenario di tipo cileno, simile a quello che si ebbe con Allende nel 1973. Il tutto, naturalmente, nel più completo accordo tra le due Superpotenze e con reciproci vantaggi: Si pensi che, nell’annus horribilis del 1978, proprio durante i 55 giorni, l’America rinunciò alla spaventosa “bomba N”, tanto osteggiata dall’URSS, e che chiuse un occhio sul colpo di Stato filosovietico in Afghanistan dove, di lì a poco, Mosca l’avrebbe fatta da padrona per poi doversene scappare nel 1989.
In effetti, tra i tanti perché e i tanti dubbi dell’affaire Moro c’è, tra i principali, questo: chi e perché volle impedire a Moro (che già nel 1971 era stato un papabile) di diventare il naturale successore di Leone? Il chi possiamo immaginarlo e ipotizzare più di un’entità, ma sul perché è certamente più facile dare una risposta: perché Moro, dal suo alto scranno di capo dello Stato, avrebbe dato la sua autorevole benedizione all’operazione compromesso storico e, insomma, alla svolta politica in atto nel nostro Paese che vedeva, dopo una lunga conventio ad excludendum, il partito comunista nell’area del governo, poi magari in più aperta e più esplicita collaborazione con la DC fino a giungere, più in là, ad una vera e propria alternanza al potere come in ogni altro paese dell’Europa Occidentale. Dunque, forse tra i primi dietro del caso Moro ce ne sono alcuni che sono certamente indicibili, inammissibili e inconfessabili e sui quali è meglio far permanere il più assoluto silenzio e il più assoluto segreto di Stato. Di uno Stato (il doppio Stato di “Gladio”…) che, per più di un verso, è rimasto questo Stato, lo Stato di quarant’anni fa, lo Stato di sempre, con gli stessi problemi irrisolti, le stesse ingiustizie, le stesse disuguaglianze, la stessa corruzione (se non peggio!…), lo stesso malaffare e l’eterna tacita convivenza con le mafie che non muoiono mai, forse perché, in verità, non le si vuole – per varie ragioni – far morire.
Chi aveva progettato l’operazione via Fani aveva progettato tutto, fin nei minimi particolari e quella che viene fatta a partire dal 16 marzo sembra la cronaca di una morte annunciata e certo, Moro, pur sperando fino alla fine nella salvezza, aveva intuito che dallo pseudo “carcere del popolo”, dopo uno pseudo-processo, non sarebbe uscito vivo.
Si può tentare un elenco degli obiettivi, anche di lungo periodo, che il caso Moro e l’uso politico del brigatismo avrebbe dovuto permettere di conseguire nelle intenzioni di che progettò l’orrendo crimine (che fu un vero e proprio attentato alla democrazia del nostro paese) o che erano nei desiderata di chi alimentava il “fenomeno” BR e/o ne favorì il disegno reazionario; ed è un elenco purtroppo lungo e consistente. Vediamolo, tenendo presente che l’ordine è puramente, come dire?, formale, in quanto i diversi punti elencati vanno visti come in concomitanza, come se tutti viaggiassero alla stessa velocità, come se fossero strettamente ben legati e collegati tra di loro, tanto che l’ultimo potrebbe essere il primo:
- impedire a Moro di diventare il Presidente della Repubblica;
- porre fine alla politica morotea della terza fase e dell’attenzione nei confronti del Partito Comunista di Berlinguer e quindi impedire la realizzazione del compromesso storico, cioè dell’accordo DC-PCI per risolvere la crisi socio-economica del paese; politica diretta, nel medio-lungo periodo a creare una situazione di normale alternanza al potere, come in tutte le democrazie compiute;
- fingere di destabilizzare il paese per stabilizzarlo in senso conservatore e reazionario, realizzando un’operazione Gattopardo in grande stile, con l’aggravante di peggiorare le cose e non semplicemente di farle restare così come sono;
- utilizzare le BR per infliggere un pesante attacco alla cosiddetta Prima Repubblica nata dalla Resistenza al nazi-fascismo, con l’obiettivo di superarla e imporne una Seconda, di segno conservatore e autoritario (certamente meno esaltante e della quale ci sarà ben poco per cui esultare), di cui poi si sarebbe parlato dopo lo scandalo di Tangentopoli; in realtà la Prima Repubblica finì con il corpo di Moro nella Renault in via Caetani;
- consentire a una Democrazia Cristiana fortemente in crisi (che Montanelli, nel 1976, invitava a votare turandosi il naso…) di rifondarsi sul sangue del proprio leader assassinato, il primo grande martire della DC vittima del terrorismo rosso; una rifondazione che sarebbe avvenuta in direzione antimorotea, cioè con l’abbandono della strategia e della linea politica dell’incontro con il PCI per ritornare all’antico rapporto privilegiato con il PSI il quale, in nome del comune anticomunismo, riuscirà ad imporre il trattativista Bettino Craxi alla guida del governo negli anni ’80;
- indebolire e ridimensionare il PCI sia in termini elettorali che nei rapporti di forza con gli altri partiti, cercando di porre un argine alla sua “egemonia culturale” nel paese;
- indebolire, ridimensionare i sindacati (soprattutto la CGIL, tradizionalmente vicina al PCI) e ridurne il potere contrattuale al fine di essere sempre meno combattivi e sempre meno difensori della classe lavoratrice (alla quale si cercava già in quegli anni di imporre la logica economica del nascente neoliberismo), classe lavoratrice che, in quei maledetti anni di piombo veniva interessatamente additata come fiancheggiatrice e simpatizzante delle BR e anche come genitrice di terroristi per poterla criminalizzare, colpire nelle sue conquiste e farla arretrare di qualche decennio;
- dare un colpo mortale alla Nuova Sinistra, cioè alla sinistra estrema, rivoluzionaria che, all’epoca, aveva nel cosiddetto Movimento la sua più tangibile espressione; in quest’operazione la DC ebbe come alleato-complice il PCI di Berlinguer che scelse di fare da mannaia e da boia sia perché l’ultrasinistra era la sua spina nel fianco per le dure critiche alla politica del compromesso e dei sacrifici e sia perché, nel “disperato” tentativo di dimostrare che i brigatisti non avevano nulla a che vedere con il PCI (indicato da più parti come il loro padre), preferì scegliere di fare di tutta l’erba un fascio e di dire basta all’estremismo una volte per tutte, con tanto di “autocritiche” degli Amendola, dei Bufalini, dei Pecchioli e dei Lama; e così quelli del Movimento non erano simpatizzanti e fiancheggiatori delle BR solo per i partiti e i giornali di centro-destra e comunque conservatori, ma lo erano anche per i comunisti: in quel ’78 la criminalizzazione e la repressione dei militanti del Movimento, già ben avviata nel ’77 con tutto quel che di drammatico era avvenuto, proseguì in maniera ancora più decisa e pesante fino a condurre a morte lenta la Nuova Sinistra e, quel che è peggio, fino a condurre alcuni militanti alla scelta della clandestinità e della lotta armata come unica alternativa di lotta politica nel nostro paese e tantissimi altri a ripiegare nel privato visto che ormai il pubblico, il politico era meglio lasciarlo ad altri;
- con l’operazione Moro si volle porre fine al lungo Sessantotto italiano e dare inizio a un contro o anti-Sessantotto che avrebbe dovuto consentire alla classe dominante borghese e alla sua espressione politica al potere di riprendersi la rivincita e, a poco a poco, riprendersi tutto quel poco che era stata costretta a concedere ai lavoratori e alle masse popolari (dopo tante dure lotte) proprio in virtù dell’indebolimento e del ridimensionamento dei partiti di sinistra e dei sindacati sempre più in difficoltà nella difesa dei più deboli della società; si tratta di un’operazione che è proseguita fino ai nostri giorni e che è stata favorita anche dall’avvento della globalizzazione più selvaggia e più sfrenata di questi ultimi venti anni, oltre che dall’Europa neoliberista e tecnocratica delle banche e della finanza e dalla crisi della rappresentanza dei partiti della sinistra e dei sindacati, per cui è stato possibile al governo Renzi spazzare via l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (del 1970), realizzando, in tal modo, il sogno della classe padronale (come si sarebbe detto una volta);
- con l’affaire Moro si mise in pratica il tentativo di silenziare e passivizzare l’opinione pubblica più agguerrita, di costringere, di fatto, tante coscienze critiche a preferire la sicurezza della vita privata, del privato e ad allontanarsi sempre più dalla vita politica, dal politico e, dunque, portare, anche se lentamente, alla morte della coscienza, al conformismo, all’omologazione più disperante nella consapevolezza coatta che la politica è meglio che sia cosa loro, cioè di una ristretta cerchia, di un’elite borghese neoliberista e arrogante che, nel suo delirio di onnipotenza presume e pretende di essere lei sola, l’unica capace di governare;
- grazie al brigatismo e all’operazione Moro fu messo in atto un durissimo e ingiusto attacco agli intellettuali, o meglio a certi intellettuali, a quelli che come Sciascia e Moravia e pochi altri ebbero il coraggio di non adeguarsi supinamente alla logica e alla narrazione del Potere, che, cioè, non si piegarono al conformismo e alla menzogna secondo cui criticare questo Stato (né con lo Stato né con le BR fu la formula con cui allora si sintetizzò sbrigativamente un certo stato d’animo) significava essere oggettivamente complice o fiancheggiatore dei brigatisti, come pure volere la trattativa per salvare Moro significava volere la fine dello Stato, la sua distruzione: proprio come dicevano di volere le BR!… Era, praticamente, come condividere quell’attacco al cuore dello Stato di cui si riempivano la bocca i terroristi…; quanto a Sciascia, ebbe, fra l’altro, la colpa di aver scritto Todo modo e, pertanto, gli attacchi alla sua persona furono davvero al limite della decenza;
- si cercò di silenziare, di mettere il bavaglio alla stampa legata alla Nuova Sinistra e ai suoi piccoli partiti, come DP (Democrazia Proletaria) e PDUP (Partito di Unità Proletaria per il comunismo) appunto col pretesto del terrorismo di sinistra, del terrorismo rosso che era figlio del PCI e di quell’estrema sinistra nata dalle lotte del Sessantotto: davvero memorabili gli editoriali e gli articoli di commento di analisti come, per es., Alberto Ronchey e Alfredo Vinciguerra;
- con l’affare Moro si mise in atto un vero e proprio colpo di Stato, con prove di regime autoritario (la democrazia autoritaria di cui parlava la Nuova Sinistra) fatto di leggi speciali liberticide, grandi retate, repressione indiscriminata dell’ultrasinistra, coprifuoco non scritto, giornalisti che si autocensurano per senso di responsabilità, sindacati e partiti di sinistra sotto ricatto, Parlamento e magistratura alquanto esautorati, intellettuali che firmano appelli statolatrici e scrivono articoli in difesa dello Stato, uno Stato che non si deve più criticare come non si deve più criticare la DC che ne è la massima espressione da 30 anni, perché altrimenti si è complici delle BR, si fa il loro gioco, ecc. ecc.
- si mise, inevitabilmente, in piedi una vasta, imponente operazione culturale, politica e ideologica diretta a criminalizzare, demonizzare e demolire l’idea stessa di comunismo e l’ideologia marxista-leninista indicati dai Ronchey e dai Vinciguerra come i reali padri delle Brigate Rosse, come le veri matrici appunto ideologiche, politiche e culturali dei brigatisti che, in verità, mostrarono una miseria morale e una povertà culturale e ideologica il cui spessore poteva vedere solo chi, a tutti i costi, voleva inficiare l’ideologia comunista e marxista-leninista e, allo stesso tempo, conferire alle BR quel riconoscimento e quella legittimazione che per 55 giorni si negò in nome e in difesa della linea dell’intransigenza per evitare la trattativa che avrebbe salvato Moro; si negò cioè col pretesto-menzogna che, qualora si fosse conferita accettando lo scambio di prigionieri, lo Stato sarebbe andato in rovina…
Si tenga presente che alcuni di questi obiettivi sono stati raggiunti subito mentre su altri si è cercato di raggiungerli fino ai nostri giorni e senza più le Brigate Rosse: non c’era più bisogno di loro, avevano esaurito il loro compito. Pensiamo agli attacchi alla magistratura, alla stampa, ai sindacati e allo svuotamento sistematico del Parlamento al fine di realizzare un sistema politico sempre più libero da tutto ciò che complica e disturba il lavoro della classe politica. Una classe politica che preferisce la disaffezione dei cittadini nei confronti della vita politica piuttosto che una vasta e consapevole partecipazione delle masse popolari. Queste fanno comodo e sono perentoriamente chiamate in causa quando si tratta di tracciare linee del Piave dirette alla salvezza della Patria o dello Stato…
Ha scritto Alberto Arbasino che l’Italia è un Paese senza: senza tante cose, anche senza Stato. È vero, ma si può aggiungere che è anche (e proprio per tutto questo…) un Paese così così. Un Paese che è come quella persona che, alla domanda: come stai? risponde: così così… L’Italia è un Paese così così ormai da decenni, come da decenni è ormai il Paese del si stava meglio quando si stava peggio e del male minore. Un Paese in cui per più di un evento si è costretti a pensare sempre a cosa ci sia dietro, e questo proprio perché davanti non c’è la limpidezza e la luce ma solo il buio, l’oscurità, la zona grigia e la zona d’ombra, il segreto, il mistero, l’enigma e, insomma, anche il peggior machiavellismo, anche quello di più bassa lega, tutte cose che, ormai da sempre, come una costante storica, ben si legano e collegano alla malattia tutta italiana del trasformismo politico, dei perversi legami tra politica-mafia-Servizi e politica-economia-affari con tutto quel che ne consegue soprattutto per quanto riguarda il tema-fenomeno, che sembra eterno, della corruzione a suon di laute tangenti, corruzione che, come al solito, vien fatta pagare ai cittadini. E così, dopo quasi quarant’anni da via Fani, il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il 24 febbraio del 2017 ha detto che sulla tragica fine di Moro «è ancora necessario diradare zone d’ombra». E questo conferma che non è vero che sull’affaire ormai tutto è chiaro e che non c’è nulla da scoprire e da rivelare.