Amendolara-29/08/2017:Incontro con l’Autore: Antonietta Gnerre (di Salvatore La Moglie)
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Incontro con l’Autore: Antonietta Gnerre
di Salvatore La Moglie
«La parola scritta povera e nuda dinanzi al mistero, si affaccia lentamente dalla barca del mondo, come presenza che sboccia dal fiore della mente (…) è la poesia: strumento che scava un’anima, lo spirito che viaggia senza ritorno (…), lo spirito che osserva la realtà e le sue difficoltà: guerre, massacri, ingiustizie, degrado, ecc. Una buona conoscenza della parola dunque è indispensabile per tenere gli occhi aperti sul mondo. Parola come testimonianza capace di farci capire più chiaramente alcuni passi importanti del cammino delle nostre vite»: questa ci sembra la migliore e la più completa dichiarazione di poetica fatta dalla poetessa Antonietta Gnerre, poetessa dotata di rara sensibilità e di profonda tensione etica e spirituale.
Antonietta Gnerre è nata ad Avellino nel 1970 e vive a Prata di Principato Ultra. Ha studiato Scienze Religiose presso l’Istituto “S.G. Moscati” di Avellino e ha conseguito il Magistero in Scienze Religiose All’Istituto S. Matteo di Salerno con una tesi sui Diritti dei Fanciulli. Ha, poi, conseguito l’abilitazione all’insegnamento di Scienze Religiose presso la Diocesi di Avellino. Ha pubblicato alcune raccolte di poesie: Il Silenzio della luna (Menna editore, 1994), Anime di foglie (Delta 3, 1996) e Fiori di vetro (Fara, 2008); ha scritto anche un pregevole saggio su Mario Luzi: Meditazione poetica e teologica in Mario Luzi, edito da Delta 3 sempre nel 2008. E’ presente in più di un’antologia di poesie (ultima Il silenzio della poesia, Fara, 2008). Tra i suoi ultimi lavori c’è la raccolta I ricordi dovuti, Edizioni Progetto Cultura. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti a concorsi di carattere nazionale. E’ direttore artistico e presidente del Premio di Poesia Pratapoesia e fa parte del Comitato Scientifico del Festival della poesia dei paesi del Mediterraneo.
La poesia di Antonietta Gnerre ha l’ambizione di volersi presentare ai lettori come poesia di forte tensione etica e spirituale e, allo stesso tempo, anche di testimonianza sulla realtà e sul mondo in cui viviamo. Con i fiori di vetro delle sue accorate ma anche tese parole, con le armi della poesia, come direbbe Pasolini, la nostra poetessa sembra voler scavare non solo nella propria anima inquieta ma anche nell’anima del mondo. Anima del mondo lacerata e sanguinante a causa della stupidità e della malvagità degli uomini. Ed è alla propria anima e a quella del mondo che si rivolge silenziosa, pacata, fragile, vitrea ma anche decisa e ferma la parola poetica di Antonietta Gnerre che non si stanca mai di interrogare se stessa e la realtà di questo mondo: di interrogare e di rivolgere accorate preghiere con le quali tende le proprie mani verso il Cielo, verso l’Assoluto col quale intesse un dialogo, un colloquio che solo riesce a farle dimenticare il Male e il dolore del mondo e a darle qualche illusione e un po’ di speranza. «La Tua voce», scrive in una poesia, rivolgendosi a Dio, «oltre il pugno vuoto di questo mondo…», talvolta – sembra dire la poetessa – appare silenziosa e lontana e sembra che abbia abbandonato gli uomini al proprio destino creando un « vuoto religioso». Ma l’«estrema polvere del male», conclude l’autrice «non divorerà le mie preghiere/ nel ventre di queste ore senza la tua luce». E’ la disperata fede in Dio che rende forte l’animo della poetessa tanto da poter definire «sangue della mia malinconia» quello che le scorre nell’anima e le attraversa il cuore. Perché, per la nostra poetessa, pregare costituisce una gioia ma anche – come scrive lei stessa – un «estremo dolore».
Si può parlare, per la poesia di Antonietta Gnerre, della tecnica degli haiku, ma si potrebbe più semplicemente parlare della tecnica, cara a certi poeti ermetici o comunque decadenti (si pensi, per esempio, a Giuseppe Ungaretti), della tecnica, dicevo, del frammento lirico, con il quale riesce spesso a raccontare tutto un mondo e tutta una vita. Nei suoi frammenti lirici – nei quali non riusciamo a non avvertire la lezione e il debito verso i grandi maestri della poesia del Novecento – due ci sembrano le parole che ricorrono maggiormente: ricordo(-memoria) e sogno. Quest’ultima parola è ripetuta in maniera, oserei dire, ossessiva. Certo, non mancano altri sostantivi tematici importanti che ci aiutano nell’esplorazione e nell’interpretazione della poetica della nostra poetessa. Questi sostantivi sono: vita, tempo, speranza, parola, amore, preghiera, cielo, fede, silenzio, segreto, viaggio, poesia, solitudine, dolore, storia, pensiero, anima, destino… Ma, ripeto, sono le parole ricordo e soprattutto sogno che appaiono, a un lettore non distratto, quelle che ricorrono come un’ossessione nell’opera di Antonietta Gnerre che sembra viverle con nostalgico e struggente rimpianto: il rimpianto per qualcosa di perduto definitivamente, che poteva essere e non è stato. La nostra poetessa, sulla linea dei poeti simbolisti ed ermetici, attribuisce alla parola poetica la grande capacità di essere evocativa, di saper leggere la realtà e di saper intravedere un oltre che solo il poeta veggente sa scrutare, decifrare e svelare. Ed ecco che con le parole ricordo e sogno riesce a dire tante cose, a dare voce a ciò che non è stato fatto o detto e a ciò che poteva essere e non è stato e, insomma ai rimpianti, alle amarezze e al dolore della vita, in una parola alla malattia del vivere. Volendo fare un’antologia su queste due parole chiave della poesia della Gnerre, ecco cosa si può leggere:
«Il tramonto come inchiostro
sopra i tetti appende ricordi
aguzzi di lame»…
«Mi resta di te l’oceano del ricordo…»…
«In Irpinia le ginestre
scolorano i piedi
dei contadini tra la cenere
d’agrifoglio affidata
al cibo dei ricordi»…
«Inizio/di un ricordo/nell’isola /arancione/
di quadri/a strati/ sottolineo/
in memorie/ il pane salato»…
«Vorrei esalare l’ultimo desiderio…/
Accarezzare la pila/ dei ricordi…»…
«Tra i ricordi difficili
creo un nome lo attendo
sulle case abitate
dalle cicale»…
«Nella fabbrica dei ricordi
le fronde concimate galleggiano
nella conca»…
«Arriva dalla sabbia
la parola che soccorre
il nudo foglio Vive
con l’inchiostro marino
immortali danze di ricordi»…
«Reclusa nell’involucro
solaio della memoria
l’odore di calcina
m’interroga sulla sorgente di carta»…
«Cupole di grano/ sorvegliano i ricordi »…
«Ogni cuore cercherà il senso della
vita con la penna dei ricordi»…
«La pioggia di vetro/ cade lenta sulla
mentuccia di mia nonna/
graffia nudi mantelli di ricordi imbalsamati»…
«Rimango a volte / nei ricordi irrequieti di questa terra/
a sognare nuove onde di stagione»…
«Il fieno dei ricordi a Tavernanova
ripulisce le lacrime dell’inverno
sul lino arlecchino dei sogni»…
«Nel ciclone della sera
lacrime cadono in grembo
dai rami di saturno
come formiche in cerchio
sulla tela di questo sogno»…
«Sulle spighe dei sogni
componiamo fiori di cardo
In minuscoli cubi allineati
di verde che misura dolore»…
«Qui i sogni sono rosari di grano»…
«Leggero il mio sogno/ a zufolare sulla melagrana…»
«E’ salda la mia dimora/ in questo sogno»…
«In basso i sogni scuotono
l’orlo delle onde conservando
le orme delle barche viaggio
nell’elemosina dei desideri»…
«Particelle vive di sogni scavano fotografie di storie…»…
«E’ mossa dai lampi di marmo
la lumaca screziata dei sogni»…
«Dorme il sogno sui pomi/ polverosi di mistero»…
«Nel vento/ i miei sogni/ attirano/ gli aquiloni»…
«Lucidi / pomeriggi /quadrati /stancano /i sogni»…
«Tra i vapori /volano inafferrabili/ i tuoi sogni»…
«M’inchiodano i sogni indifesi/
tra le ciglia bruciate /come farfalla di rame»…
«Bolle galleggianti/ fallite dal silenzio di uno stanco/
ramo di racèmo sognano ore/
incannucciate di malinconia»…
«Il largo mantello del sole staccalo
dal cielo come pelle di minuscoli sogni»…
«Cupole di sogni sbarcano
nelle giornate sigillate
dalle falde di cemento»…
E, infine, ci piace chiudere con la citazione intera di un componimento in cui, oltre al sogno, viene esaltata la parola poetica e la capacità del poeta stesso di farsi veggente stando «come cani sotto i ponti della storia»:
«Sotto i fiori minuti
delle ringhiere i lembi
dal cielo vorticosi
custodiscono fili di sogni
dall’alba una carezza
sconnessa scivola
tra le palpebre
divaga sul mistero
robotico e poi sulla
pelle degli alberi
senz’ombra per la scialba luce
come cani sotto i ponti della storia
filtrano i poeti lo stupore veggente
con l’ascensore delle parole
sognano nel tempo
dei bruchi
sorpresi dal colore
dell’erba nella clessidra
aspettando la flora del motivo».
Insomma, quella di Antonietta Gnerre è una poesia che non lascia indifferenti. I suoi versi rimangono nella nostra mente e, certamente, colpiscono certi audaci enjambement e le ardite e riuscite espressioni simboliche e metaforiche. Ne abbiamo già viste tante ma potremmo citarne altre come queste: lo «stampo delle attese», «cieli arancioni di lacrime», «il legno della vita», «sto lucidando le mie pene», «solitudine screziata», «il carrettino delle ore», «viaggio nell’elemosina dei desideri», «notti livide di preghiere», «luna galleggiante», «il mio cuore seduto sulla ruota delle acque», «dolori pulciosi», «cupole di pensieri liquidi», «sulle spine della storia», «sulla pelle del silenzio», «i pali del tempo», «i singhiozzi dei monti», «gusci di segreti», «aquiloni di preghiere»… E potremmo continuare ancora. Ma ci fermiamo qui, e ci piace concludere con le parole della poetessa che, foscolianamente, ricordando a se stessa la condizione umana di finitudine, tiene a precisare che, però, la parola scritta, la poesia non muore, rendendo immortale il poeta stesso: « Sopravvive a sé stesso il poeta/ sfila dal telaio delle pietre di Itaca/ l’inverno delle parole Brumali/ pensieri imballati con la reggétta/ lo sconfortano nell’andare lento/ e risoluto negli involucri confini/ del viaggio Il suo cammino è come/ un seme clandestino sulle ore della pelle/ Vigila l’eternità sulle ossa distillate quando galoppano le parole/ nella selva dei cipressi». Vincendo – direbbe Foscolo – di mille secoli il silenzio.