Amendolara-29/04/2019:  Un racconto di Salvatore La Moglie: Il laureato

            Un racconto di Salvatore La Moglie: Il laureato

 

Salvatore La Moglie

Qui di seguito proponiamo la lettura del racconto Il laureato, più volte premiato, in cui il tema è la menzogna per incapacità di dire a se stessi e agli altri la verità. Ad essere tradite sono le aspettative di due genitori che hanno fatto affidamento su un figlio unico alquanto inetto che, non essendo capace di dire la verità, finisce per fingere di essersi laureato e per dare un dolore ancora più grande a un padre e a una madre che hanno fatto immensi sacrifici per mantenerlo agli studi. Alla fine il padre, però, trova una soluzione per cercare di evitare la vergogna nel piccolo paese-villaggio e per punire, allo stesso tempo, il figlio per la sua miserabile menzogna. La redazione de La Palestra vi augura buona lettura.

 

 

 

    Il grande giorno finalmente arrivò. Dopo un’attesa durata quasi sette anni, la notizia che si era laureato in Giurisprudenza l’aveva fatta sapere ai genitori con la comprensibile emozione per l’evento e, anche, con il bel sospiro di sollievo che una tale circostanza quasi impone. Già prima che lasciasse la grande città dove aveva studiato e ritornasse al paese da futuro prossimo avvocato, alla sua famiglia – che era molto conosciuta e stimata – giungevano gli auguri più sinceri dei vicini di casa e i telegrammi di congratulazione e felicitazione dagli amici e conoscenti.

     I genitori – da poco in pensione – erano, naturalmente, i più felici: il loro unico figliolo sarebbe presto diventato un bravo avvocato e avrebbe dato lustro alla famiglia, oltre che al paese. La loro soddisfazione era enorme, anche perché enormi erano stati i sacrifici fatti, mese dopo mese, anno dopo anno, per mandare i soldi necessari al loro amatissimo Ferruccio. E, quindi, potete immaginare le lacrime di gioia e di soddisfazione che i due anziani genitori avevano lasciato generosamente uscire dai loro occhi. Adesso non si aspettava che l’arrivo, in paese, del laureato in Legge, del futuro avvocato Ferruccio Magri.

 

    Dunque, quel giorno arrivò. Ferruccio, anzi il dott. Ferruccio Magri, era già nel suo paesello da  un paio di giorni.

    «Ebbene, caro cugino, sono proprio contento: una laurea con centodieci e lode non è da tutti!», gli disse un giorno con un misto di approvazione e di invidia sottintesa il suo omonimo, che era appena riuscito a prendere uno straccio di diploma. Quindi, dopo una breve pausa: «E ora cosa intendi fare? Resti qui o ti vuoi stabilire nella grande metropoli, nella città della Fiat? C’hai pensato a sposarti… a metter su casa?…Cosa pensi di fare?».

    «Ehi! Ehi! Quante domande!… Ma se ancora mi debbo laureare!…», rispose frettolosamente Ferruccio, avvampandosi in volto.

    «Per la miseria!», esclamò il suo omonimo, che subito aggiunse: «Ti sei fatto rosso rosso, cugino mio! E che ti ho chiesto mai!…».

    «Ma… sai,», rispose Ferruccio ancora scosso da quelle domande a raffica, «come si dice, una cosa alla volta… No?».

    «Ma certo! Certo, caro cugino… con calma si fa tutto. Ora la laurea, dopo la moglie… Si sa come vanno le cose…».

    «Ecco, bravo! Hai detto proprio bene!», replicò Ferruccio che, adesso, cominciava a ritornare col volto tranquillo e sorridente di prima.

    Naturalmente, da parte degli amici e dai vicini di casa non aveva potuto fare a meno (e ancora per un bel po’ ne avrebbe dovuto sopportare ancora…) di sentirsi dire: «Tanti auguri, siamo tutti contenti, ora ti manca solo una bella moglie!…».

    Ferruccio ringraziava e sorrideva…

 

    Passarono tre mesi dal suo arrivo. Il signor Lorenzo, cioè il padre, in quel lasso di tempo, aveva preferito non domandargli nulla su quello che aveva in testa di fare, su come, cioè, voleva organizzare il proprio futuro, se, per esempio, mettersi con un grosso avvocato della zona che gli spianasse la strada (qualcuno si trovava certamente…); se ancora c’era bisogno di ulteriori studi (e quindi sacrifici…) per portare a termine il tutto e, pertanto, ritornare a Torino e restarci fino a traguardo finale raggiunto…

    Dunque, quell’uomo dai capelli ormai grigi più per i tanti sacrifici e i tanti pensieri che per l’età, aveva taciuto, era stato silenzioso proprio per timore di recare tedio al figlio ma, un giorno, decise di affrontare la questione perché voleva sapere cosa un figlio, giunto a quasi ventisei anni, vuol fare della sua vita. Non che a quell’ età si sia già vecchi ma, comunque, si cerca almeno di ideare un progetto di vita: completare gli studi, fare praticantato presso un avvocato affermato, metter su famiglia e via discorrendo. Stavano seduti sulle poltrone della sala da pranzo l’uno di fronte all’altro.

    «Figlio mio, ti vorrei parlare un po’», gli disse il padre con il tono amorevole e comprensivo di sempre.

    «Dimmi pure, papà», replicò Ferruccio mentre si accorgeva che dentro di lui qualcosa stava per mettersi in moto.

    «Scusami se posso sembrarti un po’ apprensivo, ma sai… sai come sono i genitori… o meglio… i genitori son fatti in un certo modo…», gli disse il padre.

    «Certo, papà, ti capisco. Non preoccuparti. Parla pure», gli disse Ferruccio sempre più interiormente preoccupato e agitato per quello che il padre gli poteva dire o domandare.

     «Vedi, Ferruccio, tu con questa laurea ci hai riempito di gioia, a me e a tua madre… A me non fu possibile prendermi una laurea. Si era usciti dalla guerra e c’era solo il problema della sopravvivenza e della ricostruzione sia del Paese che delle proprie vite attraversate da lutti e distruzioni… Certo, se avessi potuto, sono sicuro che sarei riuscito negli studi, perché a me è sempre piaciuto studiare… ho sempre amato i libri… Ma non è stato possibile… Però, poi, attraverso di te ho visto realizzare il mio sogno…E io, oggi, sono così fiero di te…».

    Mentre il padre diceva queste parole, Ferruccio stava cambiando di colore e il suo cuore cominciava a battere forte, mentre l’agitazione interiore cominciava lentamente ma inesorabilmente a devastarlo.

    «Grazie, papà, tu sei così buono…», riuscì a dirgli col cuore in gola.

    «Figlio mio, ecco… io volevo chiederti… cosa intendi fare adesso?…», riprese il padre con lo stesso tono.

    «Ma papà… sono appena arrivato!…», rispose subito Ferruccio, quasi come se gli volesse impedire di proseguire nel suo discorso.

    «Sì, lo so, figlio mio, ma sai, io e tua madre…».

    «Sì, lo so che tu e mamma…».

    «Ci preoccupiamo di te… del tuo avvenire».

    «Sì, è giusto e vi ringrazio, ma…».

    «Ma cosa?… Se non ci pensiamo io e tua mamma al tuo futuro… alla tua vita… chi vuoi che ci pensi?!…».

    «Grazie…grazie papà, ma non state a preoccuparvi più di tanto… Sono un adulto, non un bambino!… Fra qualche anno vado verso i trenta!…».

    «Ma noi, sai… Siamo preoccupati… Ti vorremmo vedere sistemato sia con il lavoro che con…sì, con una famiglia».

    «Ma papà, per quella, ancora c’è tempo… Oggi non ci si sposa più così giovani come una volta…».

    «Oggi non si fa più nulla come una volta… E’ tutto così cambiato! Oggi la televisione sta rovinando i cervelli…».

    «Ma vedrai, papà, tutto viene da sé… Tutto, poi, succede quando meno te lo aspetti…».

    «Sì, ragazzo mio, forse hai ragione tu… Noi siamo troppo apprensivi… Ma tu ci devi capire.. Vedrai che, quando sarai padre anche tu, capirai».

    «Certo, papà. Hai ragione».

    Ci fu una lunga pausa durante la quale ognuno stava con i suoi pensieri, mentre gli occhi di entrambi vagavano per la sala da pranzo un po’ nervosamente, ciascuno per le proprie e opposte ragioni. Ad un tratto, il padre, con il sorriso sulle labbra, disse: «Sai a cosa stavo pensando, in questo momento?».

    «A cosa?», domandò preoccupato Ferruccio.

    «Stavo pensando che potremmo andare insieme all’università a ritirare il tuo diploma di laurea. Sarebbe anche l’occasione per fare un viaggio insieme, io e te…».

    «Ma papà!…», esclamò quasi senza fiato Ferruccio, che si era fatto alquanto pallido nel sentire quella inaspettata proposta.

    «Ma papà cosa?!», esclamò a sua volta il padre, che subito aggiunse: «Non ti piace la mia idea? Non ti va di andare con me a Torino? Per me sarebbe una gioia grandissima. Pensa, io che mi rivolgo all’impiegato della segreteria e gli dico: “Senta, per cortesia, sono qui per  richiedere il diploma di laurea di mio figlio, che è questo giovanotto qua…”».

    Ferruccio diventava sempre più pallido. Pensava che, prima o poi, la commedia messa in piedi e che reggeva da tre mesi all’insegna di telegrammi di auguri e regali di amici e parenti stava per giungere all’epilogo, anzi era già all’epilogo. E così, attraverso uno sforzo sovrumano, realizzò, durante millesimi di secondi,  che la menzogna non poteva essere portata più in là e che era giunto il momento di dire l’amara, dolorosa verità. Sapeva che avrebbe dato all’anziano padre un dispiacere terribile e anche che, probabilmente, non sarebbe stato perdonato per quella bugia così grossa, tanto grossa che adesso gli pesava addosso, anzi nel profondo della sua anima, come una montagna. Così, facendosi coraggio e raccogliendo tutte le sue residue forze, cominciò a balbettare qualcosa.

   «Papà… io… io dovrei dirti una cosa».

   «Cosa, figlio mio».

   «Papà, io… io non avrei mai voluto darti…».

   «Cosa, ragazzo mio, cosa?…», replicò il povero padre con il tono preoccupato e il volto angosciato di chi non riesce a capire o non vuol capire cosa gli sta succedendo attorno.

    «Papà… io non avrei mai voluto darti un così grande dispiacere…», continuò ancora con un fil di voce Ferruccio.

    «Quale dispiacere, figlio mio, quale?…», domandò ancora il poveretto, che mai avrebbe voluto udire la spiacevole risposta che stava per dargli il figlio.

   «Papà… io… io… io non mi sono laureato… non ho preso la laurea che volevi tu…», riuscì finalmente a dire Ferruccio, mentre il padre era diventato più pallido di lui e si era riversato con metà del corpo sulla parte destra della poltrona, come se fosse svenuto.

  «Papà, stai bene?», quasi urlò Ferruccio, pensando che il padre potesse aver avuto un malore nel sentire quell’atroce verità. «Papà, stai bene?», ripetè ancora una volta alzandosi e avvicinandosi al padre.

  «Allontanati!», esclamò il padre. Era fuori di sé, non riusciva a capire se era sveglio o se sognasse a occhi aperti. Riprendendo le forze, gli disse: «Come hai potuto… come hai potuto farmi questo… come hai potuto pugnalare così tuo padre e tua madre!…».

   «Papà… io… io…», balbettò Ferruccio.

   «Tu, cosa?… Con quale coraggio ci hai scritto che ti eri laureato?… Con quale coraggio sei venuto nel tuo paese a prenderti gli auguri, i telegrammi e i regali?…Come è possibile che un uomo giunga a tanto?…».

    Mentre il padre gli faceva queste domande, Ferruccio se ne stava con lo sguardo per terra, tanto era la vergogna che provava in quel brutto momento. Il povero signor Lorenzo stava sprofondato nella poltrona e soprattutto nei suoi amarissimi pensieri.

   Com’è potuto accadere tutto questo? Dove ho sbagliato? Forse avrò fatto del male a qualcuno e adesso è venuto il momento di pagare… Ma a chi ho fatto del male?… Perché il conto… il conto è salato… L’unico figlio che ho… nel quale avevo riposto ogni mio desiderio…ogni mia ambizione… L’unico figlio che ho…nel quale io mi sono sempre specchiato e rispecchiato… Il figlio per il quale avrei dato gli occhi…anzi la vita… ecco che questo figlio oggi mi distrugge con una pugnalata alla schiena…Oggi questo figlio mi toglie per sempre la vita…Ma non solo la vita… mi toglie, prima di ogni cosa, la dignità… il decoro… l’onore… Come si potrà più uscire fuori di casa?… Come si potrà guardare in faccia la gente?… Il figlio dell’onesto e integerrimo impiegato Lorenzo Magri… non si è mai laureato… si è solo mangiato i soldi che i genitori gli mandavano con tanti sacrifici…un buonannulla… un disonesto… un fallito… altro che avvocato!… Dio mio, che vergogna! Che vergogna!…

    Questi e altri pensieri passavano per la povera sconvolta testa del signor Magri, il cui volto era stravolto dal pallore e dall’improvvisa agitazione che l’amara rivelazione del figlio gli aveva provocato. Dalla felicità era improvvisamente passato al dispiacere e all’angoscia. Sapeva che da quel momento ogni entusiasmo, ogni soddisfazione era negata alla sua vita fatta di sacrifici e di privazioni. E se pensava a quanto dispiacere avrebbe procurato alla madre quello sciagurato del figlio, allora s’incupiva ancor di più e avrebbe preferito morire piuttosto che assistere al dolore di quella brava donna. A un tratto, però, ebbe la forza di domandare al figlio: «Senti…ma, in tutti questi anni, almeno qualche esame l’hai fatto?…».

    «Sì», rispose Ferruccio. «Ne ho fatti sette…».

    «Praticamente, uno all’anno…», replicò il padre con la voce e il tono di chi ormai non ci capisce più nulla e, forse, non vorrebbe neanche più capire.

    «Io, papà, non c’ero portato per il diritto… ma tu… tu volevi che io diventassi un avvocato…».

    «Ma perché non me l’hai detto subito!…».

    «Io… io pensavo che ti avrei dato un grande dispiacere…».

    «E invece, adesso, cosa mi stai dando?…».

    «Papà…io…io non avrei mai voluto…E ora so che ti sto procurando un grande dolore…ma io… io non sono mai stato capace di dirti la verità…Io avrei dovuto fermarmi al diploma e basta… Non ero portato per l’università…».

    «La verità, figlio mio, la verità! Bisogna sempre dire la verità, essere onesti con gli altri ma anche con se stessi, anche se questo può costarci molto caro…Ho impiegato una vita a insegnarti questo, ma, evidentemente,  non ci sono riuscito…E ora raccolgo questi frutti amari…».

    Ci fu una lunga pausa. Alla fine il padre, recuperando tutte le sue forze, con tono deciso e risoluto, gli disse: «Tua madre non dovrà mai sapere di tutto questo…E neppure la gente… gli amici… i parenti… Bisogna trovare una soluzione che… che avrà certo un suo prezzo ma che ci potrà salvare la faccia».

    «Cosa si può fare?», replicò il figlio con il volto pallido e, soprattutto, pieno di vergogna.

    Ci fu un’altra pausa, abbastanza lunga, durante la quale il pover’uomo si mise a pensare, tenendo la mano sinistra tra il mento e la bocca e rivolgendo gli occhi spalancati fissamente verso il pavimento. Ad un certo punto, rialzò risolutamente gli occhi puntandoli sul figlio e, agitando un po’ nervosamente l’indice della mano destra, disse: «Devi andar via da qui. Ecco quello che si deve fare!…».

    «Via?!…».

    «Sì, via. E’ l’unica soluzione. La più dignitosa, anche se la più severa verso me e tua madre, e anche verso di te…L’unica che ci consente una scappatoia senza vergogna… o, se vuoi, con meno vergogna…».

    «E mamma?…».

    «Tua madre non dovrà mai sapere che in questi anni tu…Dobbiamo evitarle questo dolore… Le diremo che ritorni in città per completare i tuoi studi… che vai a fare una specializzazione per la tua carriera… e trovare, alla fine, una buona sistemazione… Tu, intanto, ti troverai un impiego dignitoso e potrai sempre dire, un giorno, che, alla carriera di avvocato, hai preferito un lavoro sicuro e che ti soddisfa anche di più…».

   «E qui… qui io… io non potrò…», balbettò Ferruccio ma il padre lo interruppe dicendogli con tono fermo: «No! Ma non è che non potrai…: non dovrai! Non dovrai venire per almeno un bel po’ di anni. Poi si vedrà…».

   «E non ci vedremo per tanto tempo!?…», disse sempre più pallido Ferruccio.

   «No. Verremo a trovarti noi, almeno due o tre volte in un anno», gli rispose il padre che subito aggiunse: «Augurandoci di stare sempre in buona salute per poter fare questi lunghi viaggi… E, soprattutto, », concluse con tono amaro, «l’augurio più grande è che questa triste esperienza ti insegni qualcosa, figlio mio…».