Trebisacce-26/02/2020: Sintesi de “Il sistema periodico” di Primo Levi.

Salvatore La Moglie

Sintesi de “Il sistema periodico” di Primo Levi.

 

 

Rubrica letteraria cura di Salvatore La Moglie

Qui si seguito proponiamo una ragionata sintesi dei 21 racconti de Il sistema periodico di Primo Levi ai quali corrispondono altrettanti elementi del sistema periodico degli elementi elaborato da Dimitrij Mendeleev nel 1869. Ancora una volta per non dimenticare ciò che è stato, ovvero l’orrore dell’Olocausto

di Salvatore La Moglie

 

ARGON (Ar), ovvero il racconto della storia degli antichi parenti di origine ebraica di Levi che somigliano molto all’argon, gas nobile, inerte, inoperoso, straniero, estraneo e nascosto un po’ come, appunto, gli avi di Primo Levi e gli ebrei della comunità stabilitasi in Piemonte nel 1500, attivi per guadagnarsi da vivere ma inerti senza dubbio nel loro intimo, portati alla meditazione disinteressata, al discorso arguto, alla discussione elegante, sofistica e gratuita. Essi hanno in comune un qualcosa di statico, un atteggiamento di dignitosa astensione, di volontaria (o accettata) relegazione al margine del gran fiume della vita. Erano isolati dagli altri non ebrei ma, allo stesso tempo, da buon ebrei, si autoisolavano. Nel racconto sono riportate anche molte parole ebraiche che costituiscono una sorta di lessico familiare che serve ad arricchire l’album di famiglia di Primo Levi…

 

IDROGENO (H), ovvero il racconto del primo esperimento chimico nel rudimentale laboratorio della Crocetta fatto da Primo Levi e il suo amico Enrico (ovvero Mario Piacenza) entrambi sedicenni. Volevano lavorare il vetro e fare l’elettrolisi dell’acqua con lo scopo di  vedere coi loro occhi, di provocare una reazione con le loro mani. Per Primo Levi la chimica e l’esperimento in laboratorio era come cercare la chiave interpretativa della realtà, una chiave per le grandi verità che era sicuro che non avrebbe trovato nella scuola, dove somministravano tonnellate di nozioni che digeriva con diligenza, ma che non gli riscaldavano il cuore. La chimica era un metodo, uno strumento particolare di comprensione del mondo, un particolare grimaldello che gli consentiva di trovare la legge, l’ordine in lui, attorno a lui e nel mondo. L’esperimento terminò con un’esplosione ma, intanto, restava una certa fierezza, per la conferma di un’ipotesi, e per aver scatenato una forza della natura. Infatti, si trattava proprio di idrogeno: lo stesso che brucia nel sole e nelle stelle, e dalla cui condensazione si formano in eterno silenzio gli universi…

 

 

ZINCO (Zn), ovvero il racconto della prima attività di Levi nel laboratorio di Preparazioni. Il suo compito consiste nella preparazione del solfato di zinco. Metallo grigio e noioso (come il tecnico Caselli “assistente” del Professor P., insegnante di Chimica Generale e Inorganica),  è tenero e delicato ma resiste ostinatamente all’attacco quando è molto puro. Sono io – spiega Primo Levi – l’impurezza che fa reagire lo zinco, per lo zinco occorrono le impurezze e il fascismo non le vuole. Infatti, ha imposto al paese le Leggi Razziali contro gli ebrei, razza impura (1938). Lo zinco e la chimica sono antifasciste. Levi è fiero di essere impuro e fa l’elogio dell’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Affinchè la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno se si vuole che sia fertile. Dunque, occorre il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale. Infine, nel racconto Levi parla della sua giovanile attrazione per la collega Rita e della sua estrema timidezza nel tentare un approccio che considerava vitale…

 

 

FERRO (Fe), ovvero il racconto di Sandro Delmastro, ragazzo tenace come il ferro anche  se taciturno e un po’ solitario, e, insieme, il racconto della resistenza tenace al nazifascismo e alla “notte dell’Europa” (1939), un’Europa che si avvia verso la catastrofe e la carneficina della Seconda Guerra Mondiale scatenata dalla megalomania della Germania di Hitler.  La chimica e la fisica sono antifasciste e rappresentano un antidoto al fascismo perché, contrariamente al fascismo, consente di scegliere e di deliberare, cioè un’impresa matura e responsabile, e perché sono chiare e distinte e ad ogni passo verificabili e non fatte di menzogne come la radio e i giornali del regime di Mussolini e Hitler. C’è la storia di Sandro Delmastro, tenace antifascista e partigiano ucciso da un giovanissimo repubblichino di Salò nel 1944. Insegnò a Primo Levi a non aver paura della montagna, ad avere più spirito pratico e ad assaggiare la carne dell’orso diventata poi metafora di vita: cioè ad essere coraggiosi, forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino…

 

POTASSIO (K), ovvero il racconto di un esperimento in laboratorio con effetti imprevedibili: un frammento minuscolo di potassio sarà il colpevole che provocherà una fiammata. In verità, insieme all’episodio sul potassio c’è il racconto di cosa era l’Italia e il mondo nel 1941, in pieno conflitto mondiale, quando sembrava evidente che la Germania nazista avrebbe vinto la guerra così come nessuno poteva dubitare sul destino degli ebrei in un’Europa hitlerizzata. Eppure le democrazie europee, Francia e Inghilterra, avevano finto di non sapere nulla sulla realtà dei lager e le atrocità naziste… 

 

NICHEL (Ni), ovvero il racconto del lavoro di Levi da chimico militante nel laboratorio di una miniera (l’amiantifera di Balangero) alla ricerca del raro e prezioso nichel dopo la laurea in Chimica con 110 e lode (1941). In quei mesi: il mondo precipitava alla catastrofe, ed intorno a me non capitava nulla. I tedeschi erano dilagati in Polonia, in Norvegia, in Olanda, in Francia, in Jugoslavia, e penetravano nelle pianure russe come una lama nel burro; gli Stati Uniti non si muovevano in aiuto degli inglesi, che erano rimasti soli. Io non trovavo lavoro, e mi estenuavo nella ricerca di una qualsiasi occupazione retribuita; nella camera accanto mio padre, prostrato da un tumore, viveva i suoi ultimi mesi.

Levi dice di avere la: consapevolezza funesta di mio padre morente a Torino, degli americani disfatti a Bataan, dei tedeschi vincitori in Crimea, ed insomma della trappola aperta, che stava per scattare: facevano nascere in me un legame nuovo, più sincero della retorica della natura imparata a scuola, con quei rovi e quelle pietre che erano la mia isola e la mia libertà, una libertà che forse presto avrei perduta.

La suachimica militante” gli fa dire che: Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono “le due esperienze della vita adulta” di cui parlava Pavese, il successo e l’insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all’intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo.

Dopo l’entusiasmante esperimento chimico Levi scrive: Pensavo di aver aperto una porta con una chiave, e di possedere la chiave di molte porte, forse di tutte. Pensavo di aver pensato una cosa che nessun altro aveva ancora pensato, e mi sentivo invincibile e tabù, anche di fronte ai nemici vicini, ed ogni mese più vicini. Pensavo, infine, di essermi presa una rivincita non ignobile contro chi mi aveva dichiarato biologicamente inferiore.

Levi conclude la narrazione rivelando al lettore l’esistenza di due racconti minerali che allora avevo scritti. Hanno avuto una sorte travagliata, quasi quanto la mia: hanno subito bombardamenti e fughe, io li avevo dati perduti, e li ho ritrovati di recente riordinando carte dimenticate da decenni. Non li ho voluti abbandonare: il lettore li troverà qui di seguito, inseriti, come il sogno di evasione di un prigioniero, fra queste storie di chimica militante. Si tratta di Piombo e Mercurio.

Avevo in un cassetto una pergamena miniata, con su scritto in eleganti caratteri che a Primo Levi, di razza ebraica, veniva conferita la laurea in Chimica con 110 e lode: era dunque un documento doppio, mezzo gloria e mezzo scherno, mezzo assoluzione e mezzo condanna. Stava in quel cassetto dal luglio 1941, ed era finito novembre; il mondo precipitava alla catastrofe, ed intorno a me non capitava nulla. I tedeschi erano dilagati in Polonia, in Norvegia, in Olanda, in Francia, in Jugoslavia, e penetravano nelle pianure russe come una lama nel burro; gli Stati Uniti non si muovevano in aiuto degli inglesi, che erano rimasti soli. Io non trovavo lavoro, e mi estenuavo nella ricerca di una qualsiasi occupazione retribuita; nella camera accanto mio padre, prostrato da un tumore, viveva i suoi ultimi mesi…

 

PIOMBO (Pb), ovvero il racconto (di fantasia) su Rodmund del favoloso paese chiamato Thiuda, i cui avi erano tutti dello stesso mestiere, che consiste nel conoscere una certa pietra pesante, trovarla in paesi lontani, affocarla in un certo modo che noi conosciamo e cavarne il piombo nero.

Così, dopo sei generazioni di sosta, io ho ripreso a viaggiare, alla ricerca di pietre da fondere, o da far fondere da altre genti, insegnandogli l’arte contro oro; ecco, noi Rodmund siamo negromanti: mutiamo il piombo in oro.

 

Sono partito da solo, verso sud, quando ero ancora giovane. Ho viaggiato per quattro anni, di contrada in contrada, evitando le pianure, risalendo le valli, battendo col martello, trovando poco o nulla: d’estate lavoravo nei campi, d’inverno intrecciavo canestri o spendevo l’oro che mi ero portato con me.

Questa è una cosa a cui spesso avevo pensato, che noi cercatori crediamo di trovare il metallo con gli occhi, l’esperienza e l’ingegno, ma in realtà quello che ci conduce è qualcosa di più profondo, una forza come quella che guida i salmoni a risalire i nostri fiumi, o le rondini a ritornare al nido.

Alla fine, il favoloso cercatore-viaggiatore Rodmund, dopo aver tanto viaggiato e cercato in terre da favola e da leggenda e dopo aver appreso che nelle dicerie qualcosa di vero ci può essere, magari una verità nascosta sotto veli di parole, come un indovinello, fonda un villaggio presso il ruscello delle api selvatiche che vorrebbe chiamare Bak der Binnen, che significa appunto “Rio delle Api”: ma la gente di qui ha accettato il nome solo in parte, e fra di loro, nel loro linguaggio che ormai è il mio, lo chiamano “Bacu Abis”…

 

MERCURIO (Hg), ovvero il racconto (fantastico) della storia del caporale Abrahams e di sua moglie Maggie che vivono sull’isola vulcanica chiamata “Desolazione” (l’isola più solitaria che sia al mondo) distante 1200 miglia a sud-ovest di Sant’Elena, dove era stata esiliata una persona importante e pericolosa, ed avevano paura che i suoi sostenitori la aiutassero a fuggire ed a rifugiarsi quaggiù (Napoleone).

Il mercurio è una materia fredda e viva, e  l’olandese Hendrik, suo rivale in amore, sembrava diventato mercurio. È veramente una sostanza bizzarra: è freddo e fuggitivo, sempre inquieto, ma quando è ben fermo ci si specchia meglio che in uno specchio.

Sull’isola ci sono anche due insidiosi olandesi, Hendrik, appunto, e  il giovane Willem, e due naufraghi italiani, Gaetano di Amalfi e Andrea di Noli. Abrahams capisce bene che per porre fine alle insidie, cioè alle avances soprattutto dell’olandese Hendrik nei confronti di Maggie (che pare spesso cedere), occorre che ci siano altre quattro donne per ciascuno di loro. Alla fine Hendrik si ritroverà insieme a Maggie, con la quale sperimenta il “rito” alchimistico della  bestia con due schiene per il quale era necessario il mercurio, perché è spirito fisso volatile, ossia principio femminino, e combinato con lo zolfo, che è terra ardente mascolina, permette di ottenere l’Uovo Filosofico, che è appunto la Bestia con due Dossi, perché in essa sono uniti e commisti il maschio e la femmina; gli altri con altre donne e Abrahams pure con una nuova sposa, Rebecca Johnson, ragazza dagli occhi grigi che non mi dispiaceva, anche se era molto più giovane di me, dalla quale avrebbe avuto quei figli per la continuazione del nome che Maggie non gli avrebbe mai potuto dare…

 

FOSFORO (P), ovvero il racconto della seconda esperienza di lavoro di Primo Levi dopo la laurea nel laboratorio di una fabbrica vicino a Milano, di cui era proprietario e direttore il dott. Martini, di origine svizzera. Vi si producevano estratti ormonali e Levi fu assunto con buon stipendio per la ricerca di un rimedio contro il diabete che fosse efficace per via orale. Siamo nel giugno del 1942 e ci sono sempre le leggi razziali che sono dei grandi limiti per gli ebrei ma il dirigente svizzero pare non dare molta importanza a tali orribili e vergognose leggi, e anche sul piano linguistico egli sembra non aderire alla politica imposta dal regime fascista sull’italianità delle parole, tanto che parla di incontro con Levi all’Hotel Suisse di Torino e non all’albergo.

C’è anche la storia dell’incontro con una vecchia collega, Giulia Vineis, della quale Levi si innamora non ricambiato: infatti, lei si sposerà con l’uomo con cui era fidanzata…

 

ORO (Au), ovvero il racconto della cattura e della prigionia di Primo Levi come partigiano antifascista. Egli sembra dire, tra le righe, che la libertà è come l’oro, è qualcosa di prezioso, anzi non ha prezzo. Siamo tra l’autunno del 1942 e la fine del 1943 a Milano, dove si sa che i torinesi trapiantati non vi allignano, o vi allignano male…

Eravamo a Milano sette amici di Torino, ragazzi e ragazze, approdati per motivi diversi nella grossa città che la guerra rendeva inospitale; i nostri genitori, chi ancora li aveva, erano sfollati in campagna per sottrarsi ai bombardamenti, e noi facevamo vita ampiamente comune. Euge era architetto, voleva rifare Milano, e diceva che il miglior urbanista era stato Federico Barbarossa. Silvio era dottore in legge, ma scriveva un trattato di filosofia su minuscoli foglietti di carta velina ed era impiegato in un’impresa di trasporti e spedizioni. Ettore era ingegnere alla Olivetti. Lina faceva l’amore con Euge e si occupava vagamente di gallerie d’arte. Vanda era chimica come me, ma non trovava lavoro, ed era permanentemente irritata di questo fatto perché era femminista. Ada era mia cugina e lavorava alle Edizioni Corbaccio: Silvio la chiamava bidottore perché aveva due lauree, ed Euge la chiamava cugimo che voleva dire cugina di Primo, del che Ada si risentiva un poco. Io, dopo il matrimonio di Giulia, ero rimasto solo coi miei conigli, mi sentivo vedovo ed orfano, e fantasticavo di scrivere la saga di un atomo di carbonio, per far capire ai popoli la poesia solenne, nota solo ai chimici, della fotosintesi clorofilliana: ed in fatto l’ho poi scritta, ma molti anni più tardi, ed è la storia con cui questo libro si conclude.

 

Se non sbaglio, tutti scrivevamo poesie, salvo Ettore, che diceva che per un ingegnere non era dignitoso. Scrivere poesie tristi e crepuscolari, e neppure tanto belle, mentre il mondo era in fiamme, non ci sembrava né strano né vergognoso: ci proclamavamo nemici del fascismo, ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici.

 

Sopportavamo con allegria maligna il razionamento e il freddo nelle case senza carbone, ed accettavamo con incoscienza i bombardamenti notturni degli inglesi; non erano per noi, erano un brutale segno di forza dei nostri lontanissimi alleati: facessero pure. Pensavamo quello che tutti gli italiani umiliati allora pensavano: che i tedeschi e i giapponesi erano invincibili, ma gli americani anche (…).

 

Ciascuno di noi faceva il suo lavoro giorno per giorno, fiaccamente, senza crederci, come avviene a chi sa di non operare per il proprio domani. Andavamo a teatro ed ai concerti, che qualche volta si interrompevano a mezzo perché suonavano le sirene dell’allarme aereo, e questo ci sembrava un incidente ridicolo e gratificante; gli Alleati erano padroni del cielo, forse alla fine avrebbero vinto e il fascismo sarebbe finito: ma era affare loro, loro erano ricchi e potenti, avevano le portaerei e i “Liberators”. Noi no, ci avevano dichiarato “altri” e altri saremmo stati; parteggiavamo, ma ci tenevamo fuori dai giochi stupidi e crudeli degli ariani. Di quello che in quegli stessi mesi avveniva in tutta l’Europa occupata dai tedeschi, nella casa di Anna Frank ad Amsterdam, nella fossa di Babi Yar presso Kiev, nel ghetto di Varsavia, a Salonicco, a Parigi, a Lidice: di questa pestilenza che stava per sommergerci non era giunta a noi alcuna notizia precisa, solo cenni vaghi e sinistri portati dai militari che ritornavano dalla Grecia o dalle retrovie del fronte russo, e che noi tendevamo a censurare. La nostra ignoranza ci concedeva di vivere, come quando sei in montagna, e la tua corda è logora e sta per spezzarsi, ma tu non lo sai e vai sicuro.

 

Ma venne in novembre lo sbarco alleato in Nord Africa, venne in dicembre la resistenza e poi la vittoria russa a Stalingrado, e capimmo che la guerra si era fatta vicina e la storia aveva ripreso il suo cammino. Nel giro di poche settimane ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni, e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata. Ci dissero che la nostra insofferenza beffarda non bastava; doveva volgersi in collera, e la collera essere incanalata in una rivolta organica e tempestiva: ma non ci insegnarono come si fabbrica una bomba, né come si spara un fucile.

 

Ci parlavano di sconosciuti: Gramsci, Salvemini, Gobetti, i Rosselli; chi erano? Esisteva dunque una seconda storia, una storia parallela a quella che il liceo ci aveva somministrata dall’alto? In quei pochi mesi convulsi cercammo invano di ricostruire, di ripopolare il vuoto storico dell’ultimo ventennio, ma quei nuovi personaggi rimanevano “eroi”, come Garibaldi e Nazario Sauro, non avevano spessore né sostanza umana. Il tempo per consolidare la nostra preparazione non ci fu concesso: vennero in marzo gli scioperi di Torino, ad indicare che la crisi era prossima; vennero col 25 luglio il collasso del fascismo dall’interno, le piazze gremite di folla affratellata, la gioia estemporanea e precaria di un paese a cui la libertà era stata donata da un intrigo di palazzo; e venne l’8 settembre, il serpente verdegrigio delle divisioni naziste per le vie di Milano e di Torino, il brutale risveglio: la commedia era finita, l’Italia era un paese occupato, come la Polonia, come la Jugoslavia, come la Norvegia.

 

In questo modo, dopo la lunga ubriacatura di parole, certi della giustezza della nostra scelta, estremamente insicuri dei nostri mezzi, con in cuore assai più disperazione che speranza, e sullo sfondo di un paese disfatto e diviso, siamo scesi in campo per misurarci. Ci separammo per seguire il nostro destino, ognuno in una valle diversa.

 

Avevamo freddo e fame, eravamo i partigiani più disarmati del Piemonte (…).

 

 

 

 

Nella mia cella c’era anche un topo. Mi teneva compagnia, ma di notte mi rosicchiava il pane. Mi sentivo più topo di lui: pensavo alle strade nei boschi, alla neve fuori, alle montagne indifferenti, alle cento cose splendide che se fossi tornato libero avrei potuto fare, e la gola mi si chiudeva come per un nodo.

 

In quei giorni, in cui attendevo abbastanza coraggiosamente la morte, albergavo una lancinante voglia di tutto, di tutte le esperienze umane pensabili, e imprecavo alla mia vita precedente, che mi pareva di avere sfruttato poco e male, e mi sentivo il tempo scappare di fra le dita, sfuggire dal corpo minuto per minuto, come un’emorragia non più arrestabile…

 

 

 

CERIO (Ce),  ovvero il racconto della condizione di Primo Levi nel campo di concentramento di Auschwitz, dove è stato deportato. La fame lo spinge a cercare qualcosa da mangiare e anche a rubare alcuni materiali dal laboratorio chimico. Un giorno trova alcuni cilindretti grigi che si avvede essere fatti di cerio, un minerale con cui si realizzano gli accendini. Così,  in pieno accordo col suo amico Alberto, riesce a procurarsi il pane per due mesi vendendo le pietrine di cerio all’interno  del lager, dove c’era un commercio clandestino di cose varie. Infine, viene ricordata la tragica fine di Alberto, morto durante la lunga marcia voluta dai tedeschi per sfuggire all’esercito sovietico. Il cerio aveva significato pane e sopravvivenza ma anche libertà, perché lui, diversamente dal sommerso Alberto era stato salvato dal destino di una morte orribile…

(…) A distanza di trent’anni, mi riesce difficile ricostruire quale sorta di esemplare umano corrispondesse, nel novembre 1944, al mio nome, o meglio al mio numero 174517. Dovevo aver superato la crisi più dura, quella dell’inserimento nell’ordine del Lager, e dovevo aver sviluppato una strana callosità, se allora riuscivo non solo a sopravvivere, ma anche a pensare, a registrare il mondo intorno a me, e perfino a svolgere un lavoro abbastanza delicato, in un ambiente infettato dalla presenza quotidiana della morte, ed insieme reso frenetico dall’avvicinarsi dei russi liberatori, giunti ormai ad ottanta chilometri da noi. La disperazione e la speranza si alternavano con un ritmo che avrebbe stroncato in un’ora qualsiasi individuo normale.

 

Noi non eravamo normali perché avevamo fame. La nostra fame di allora non aveva nulla in comune con la ben nota (e non del tutto sgradevole) sensazione di chi ha saltato un pasto ed è sicuro che non gli mancherà il pasto successivo: era un bisogno, una mancanza, uno yearning, che ci accompagnava ormai da un anno, aveva messo in noi radici profonde e permanenti, abitava in tutte le nostre cellule e condizionava il nostro comportamento. Mangiare, procurarci da mangiare, era lo stimolo numero uno, dietro a cui, a molta distanza, seguivano tutti gli altri problemi di sopravvivenza, ed ancora più lontani i ricordi della casa e la stessa paura della morte.

 

Ero chimico in uno stabilimento chimico, in un laboratorio chimico, e rubavo per mangiare. Se non si comincia da bambini, imparare a rubare non è facile (…). Rubavo tutto, salvo il pane dei miei compagni. (…)

 

 

 

 

A noi non era consentito l’accesso ai rifugi antiaerei: ci raccoglievamo nelle vaste aree non ancora fabbricate, nei dintorni del cantiere. Mentre le bombe cominciavano a cadere, sdraiato sul fango congelato e sull’erba grama tastavo i cilindretti nella tasca, e meditavo sulla stranezza del mio destino, dei nostri destini di foglie sul ramo, e dei destini umani in generale. Secondo Alberto, una pietrina da accendino era quotata una razione di pane, cioè un giorno di vita; io avevo rubato almeno quaranta cilindretti, da ognuno dei quali si potevano ricavare tre pietrine finite. In totale, centoventi pietrine, due mesi di vita per me e due per Alberto, e in due mesi i russi sarebbero arrivati e ci avrebbero liberati; e ci avrebbe infine liberati il cerio (…).

 

A sera io portai in campo i cilindretti, ed Alberto un pezzo di lamiera con un foro rotondo: era il calibro prescritto a cui avremmo dovuto assottigliare i cilindri per trasformarli in pietrine e quindi in pane.

 

Quanto seguì è da giudicarsi con cautela. Alberto disse che i cilindri si dovevano ridurre raschiandoli con un coltello, di nascosto, perché nessun concorrente ci rubasse il segreto. Quando? Di notte. Dove? Nella baracca di legno, sotto le coperte e sopra il saccone pieno di trucioli, e cioè rischiando di provocare un incendio, e più realisticamente rischiando l’impiccagione: poiché a questa pena erano condannati, fra l’altro, tutti coloro che accendevano un fiammifero in baracca.

Si esita sempre nel giudicare le azioni temerarie, proprie od altrui, dopo che queste sono andate a buon fine: forse non erano dunque abbastanza temerarie? O forse è vero che esiste un Dio che protegge i bambini, gli stolti e gli ebbri? O forse ancora, queste hanno più peso e più calore delle altre innumerevoli andate a fine cattivo, e perciò si raccontano più volentieri? Ma noi non ci ponemmo allora queste domande: il Lager ci aveva donato una folle famigliarità col pericolo e con la morte, e rischiare il capestro per mangiare di più ci sembrava una scelta logica, anzi ovvia…

 

 

CROMO (Cr),  ovvero il racconto di come furono recuperate delle vernici impolmonite, cioè solidificate, mescolandole con l’insolito cloruro d’ammonio, introdotto dallo stesso Levi e mai da nessuno contestato. Attraverso il racconto di un pranzo tra verniciai e le discussioni su certi perché e percome della vita di cui, a volte non si riesce a dare risposta precisa tanto sono diventati normalità (la vita è piena di usanze la cui radice non è più rintracciabile) ritorna, ancora una volta, il passato vissuto tra la guerra e il lager. Un passato che non passa, triste e orribile del quale Levi ha cercato la liberazione psicologica ma anche lo sforzo di comprensione attraverso i racconti e i romanzi, attraverso la scrittura come testimonianza, memoria e resistenza alla banalità del Male che si era incarnata nel nazifascismo. E c’è anche il ricordo dell’incontro con la donna che poi sarebbe diventata sua moglie.

Protagonista sono il cromo, le soluzioni per le vernici  e una formulazione introdotta da Levi per cui si faceva uso del cloruro d’ammonio

(…) Ma io ero ritornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, ed una donna che mi stava nel cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a poco a poco ne nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare uomo, uno come tutti, né martire né infame né santo, uno di quelli che si fanno una famiglia, e guardano al futuro anziché al passato.

 

Poiché di poesie e racconti non si vive, cercavo affannosamente lavoro, e lo trovai nella grande fabbrica in riva al lago, ancora guasta per la guerra, assediata in quei mesi dal fango e dal ghiaccio. Nessuno si occupava molto di me: colleghi, direttore ed operai avevano altro da pensare, al figlio che non tornava dalla Russia, alla stufa senza legna, alle scarpe senza suole, ai magazzini senza scorte, alle finestre senza vetri, al gelo che spaccava i tubi, all’inflazione, alla carestia, ed alle virulente faide locali. Mi era stata benignamente concessa una scrivania zoppa in laboratorio, in un cantuccio pieno di fracasso e di correnti d’aria e di gente che andava e veniva con in mano stracci e bidoni, e non mi era stato assegnato alcun compito definito; io, vacante come chimico ed in stato di piena alienazione (ma allora non si chiamava così), scrivevo disordinatamente pagine su pagine dei ricordi che mi avvelenavano, ed i colleghi mi guardavano di sottecchi come uno squilibrato innocuo. Il libro mi cresceva tra le mani quasi spontaneamente, senza piano né sistema, intricato e gremito come un termitaio. (…)

Lo stesso mio scrivere diventò un’avventura diversa, non più l’itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l’ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro. Paradossalmente, il mio bagaglio di memorie atroci diventava una ricchezza, un seme; mi pareva, scrivendo, di crescere come una pianta.

Ero pronto a sfidare tutto e tutti, allo stesso modo come avevo sfidato e sconfitto Auschwitz e la solitudine: disposto, in specie, a dare battaglia allegra alla goffa piramide di fegati arancioni che mi attendeva in riva al lago.

 

È lo spirito che doma la materia, non è vero? Non era questo che mi avevano pestato in testa nel liceo fascista e gentiliano?…

 

ZOLFO (S), ovvero il racconto dell’episodio dell’operaio chimico Lanza che, nel suo turno di notte, si dà da fare alla caldaia dove viene lavorato lo zolfo. Si tratta di una vera e propria lotta per far scendere la pressione che era pericolosamente salita troppo e rischiava di far saltare tutto. Però, alla fine, Lanza,  ce la fa e, dopo tanta collera contro la caldaia, riesce a far scendere la pressione e ad evitare un’esplosione…

 

TITANIO (Ti), ovvero il racconto in ricordo di Felice Fantino, il quale, un giorno, stranamente vestito, con in testa un copricapo fatto coi giornali e la pipa in bocca, si era messo a verniciare un armadio con il colore bianco-lucido. La piccola Maria è attratta da questo colore e cerca di toccarlo ma  Felice la ferma subito, le dice che non si può avvicinare e che a rendere il mobile così bianco è il titanio. Maria, però,  non vuol dargli retta e, così, Felice prende un gessetto e disegna, attorno alla ragazza, un cerchio per terra ammonendola a non uscire da lì. Maria rimane, così, ferma a guardarlo dentro il cerchio che doveva essere palesemente magico. Quando, però, Felice sta per andar via, la ragazzina lo chiama e gli chiede se adesso può uscire da quel cerchio: l’uomo prese uno straccio e cancellò il cerchio ben bene, per disfare l’incantesimo. Quando il cerchio fu sparito Maria si alzò e se ne andò saltellando, e si sentiva molto contenta e soddisfatta…

 

ARSENICO (As), ovvero il racconto di un pacco di zucchero con dentro arsenico. Levi racconta che, mentre era al lavoro in un rudimentale laboratorio di analisi (il socio Emilio è assente), un giorno si presenta un anziano ciabattino che gli consegna un pacco di mezzo chilo di zucchero da analizzare. Levi lo analizza e scopre che nello zucchero è presente una buona quantità di anidride arseniosa, cioè di arsenico  e, il giorno dopo, lo riferisce al ciabattino. L’anziano gli racconta che, da un po’ di tempo, un giovane ciabattino (quello che, un giorno, gli ha messo il pacco in mezzo alle scarpe) ha aperto una bottega vicino alla sua e che ha iniziato a diffondere false e negative notizie sul suo conto. Per questo il ciabattino ha fatto analizzare il pacco dello zucchero: per paura di essere avvelenato dal rivale. Pertanto, conosciuto l’esito dell’analisi, decide che è il caso di andare ad affrontare il giovane e di parlare con lui…

 

AZOTO (N),  ovvero il racconto sul: cliente sognato, quello che voleva da noi una consulenza. La consulenza è il lavoro ideale, quello da cui tu trai prestigio e quattrini senza sporcarti le mani, né romperti il filo della schiena, né rischiare di finire abbrustolito o intossicato: devi solo toglierti il camice, mettere la cravatta, ascoltare in attento silenzio il quesito, e ti senti come l’oracolo di Delfo. Devi poi pesare bene la risposta e formularla in linguaggio paludato e sfumato, affinché anche il cliente ti ritenga un oracolo, degno della sua fiducia e delle tariffe stabilite dall’Ordine dei Chimici. Il cliente sognato era sulla quarantina, piccolo, compatto ed obeso; portava i baffetti alla Clark Gable. Era profumato ed impomatato e aveva un aspetto volgare… Mi spiegò che era il proprietario di una fabbrica di cosmetici, ed aveva noie con un certo tipo di rossetto.

Sarebbe stato molto bello arrivare sul posto in auto, ma già, se tu fossi un chimico con l’auto, invece che un reduce meschino, scrittore a tempo perso, e per giunta appena sposato, non staresti qui ad essudare acido piruvico ed a correre dietro ad ambigui fabbricanti di rossetto. Mi misi il più bello dei miei (due) vestiti, e pensai che era meglio lasciare la bicicletta in qualche cortile lì vicino e fare le viste di essere arrivato in taxi, ma quando fui entrato nella fabbrica mi accorsi che non era il caso di avere scrupoli di prestigio. La fabbrica era un capannone sporco e disordinato, pieno di correnti d’aria, in cui gironzolavano una dozzina di ragazze proterve, indolenti, sudice e vistosamente truccate.

Dunque, Levi, in quello stabilimento, preleva alcuni campioni, li analizza e, alla fine, consegna al proprietario una minuziosa relazione. Costui, soddisfatto del lavoro, gli propone di fornirgli, in determinati  periodi, alcuni chili di allossana (una sostanza molto particolare contenente azoto) e Levi accetta. Dopo aver fatto delle ricerche in biblioteca sulla composizione dell’allossana, comprende che il metodo meno oneroso per ricavarla è ossidare l’acido urico, che è presente in grande quantità negli escrementi degli uccelli e dei rettili: Che l’allossana, destinata ad abbellire le labbra delle dame, scaturisse dagli escrementi delle galline o dei pitoni, era un pensiero che non mi turbava neanche un poco. Il mestiere di chimico (fortificato, nel mio caso, dall’esperienza di Auschwitz) insegna a superare, anzi ad ignorare, certi ribrezzi, che non hanno nulla di necessario né di congenito: la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima. L’azoto è azoto, passa mirabilmente dall’aria alle piante, da queste agli animali, e dagli animali a noi; quando nel nostro corpo la sua funzione è esaurita, lo eliminiamo, ma sempre azoto resta, asettico, innocente… Dirò di più: lungi dallo scandalizzarmi, l’idea di ricavare un cosmetico da un escremento, ossia aurum de stercore, mi divertiva e mi riscaldava il cuore come un ritorno alle origini, quando gli alchimisti ricavavano il fosforo dall’urina. Era un’avventura inedita e allegra, e inoltre nobile, perché nobilitava, restaurava e ristabiliva. Così fa la natura: trae la grazia della felce dalla putredine del sottobosco, e il pascolo dal letame; e “laetamen” non vuol forse dire “allietamento”? così mi avevano insegnato in liceo, così era stato per Virgilio, e così ritornava ad essere per me.

Pertanto, insieme alla moglie, incomincia a cercare sterco di gallina per le cascine della periferia di Torino e, con molte difficoltà, riesce a procurarselo. Mentre esamina lo sterco, gli viene in mente che in città è stata allestita una mostra di serpenti. Chiede agli organizzatori se è possibile avere un po’ degli escrementi ma senza risultati. Deluso, torna a casa e deve anche il tentativo di ricavare l’allossana dallo sterco di gallina non dà i risultati sperati: (…) Lo sterco rimase sterco, e l’allossana dal nome sonante un nome sonante. Non era quella la via per uscire dalla palude: per quale via ne sarei dunque uscito, io autore sfiduciato di un libro che a me sembrava bello, ma che nessuno leggeva? Meglio ritornare fra gli schemi scoloriti ma sicuri della chimica inorganica…

 

STAGNO (Sn), ovvero il racconto di Levi che, dopo essersi licenziato dalla fabbrica in riva al lago, si mette insieme all’amico Emilio che, come lui, è stato partigiano, per lavorare autonomamente. In mezzo a tante difficoltà economiche, i due comprano stagno (metallo amico) e lo rivendono dopo averlo trasformato in cloruro stannoso. Lavorano in una specie di laboratorio (assomigliava ad una bottega di robivecchi ed alla stiva di una baleniera) che è stato ricavato nell’appartamento dei genitori di Emilio, il cui padre ha vissuto per anni in Egitto e fa certi strani esperimenti con il sangue del Macello Municipale. Ma gli affari non vanno bene e, a un certo punto, Levi, alquanto sfiduciato,  decide di abbandonare quell’attività per trovare un impiego. Mentre stanno risistemando l’appartamento (nel quale Levi trova anche una grida del 1785 contro gli ebrei) decidono di far smontare la cappa d’aspirazione da due carpentieri, ma la cappa precipita dal quarto piano del condominio, con gran rumore e spavento, riducendosi in mille schegge…

 

URANIO (U), ovvero il racconto del ritorno di Levi al lavoro in una fabbrica di vernici dove si occupa del Sac, il Servizio assistenza clienti. Un giorno incontra Bonino, caporeparto di un’altra fabbrica, per un affare ma, per concluderlo è costretto ad ascoltare un noioso e fantasioso racconto dei tempi di guerra. Bonino gli rivela di aver ottenuto dell’uranio da alcuni soldati tedeschi in fuga verso la Svizzera in cambio di informazioni. Levi, però, dubita e, dopo averne avuto un blocchetto da Bonino lo analizza e il suo dubbio viene confermato: si tratta di cadmio. E, dunque, Bonino aveva lavorato di fantasia, si era inventato tutto. Beato lui che aveva potuto raggiungere l’invidiabile status della libertà sconfinata dell’invenzione, di chi ha sfondato la barriera ed è ormai padrone di costruirsi il passato che più gli aggrada, di cucirsi intorno i panni dell’eroe, e di volare come Superman attraverso i secoli, i meridiani e i paralleli…

 

ARGENTO (Ag), ovvero il racconto dell’invito, con lettera, che  Levi riceve per la cena del venticinquesimo anno di laurea (le nostre nozze d’argento con la Chimica) e della sua decisione di parteciparvi. Scopre che a farlo è l’onesto maldestro e volonteroso Cerrato, a cui la vita aveva dato così poco e che così poco aveva dato alla vita, al quale propone di raccontargli una delle sue storie (“storie della chimica solitaria, […] a misura d’uomo”) da inserire nel suo libro. Cerrato gli racconta che quando lavorava in Germania era responsabile del reparto in cui si producevano le carte per le radiografie e le fotografie (per le quali occorreva l’emulsione del bromuro di argento). Data la delicatezza dei materiali usati, era necessaria l’adozione di precise misure di pulizia, come, per es., indossare delle tute speciali. Ad un certo punto, più di un acquirente del prodotto si era lamentato e Cerrato, fatte le dovute ricerche, aveva scoperto che i problemi delle lastre erano dovuti all’acqua con cui erano state lavate le tute: essa era stata inquinata dalle acque di scarico di una nuova conceria.

Alla fine, i due vecchi amici, si promettono di rafforzare la loro amicizia e di tenersi sempre in contatto…

(…) Cerrato, a cui la vita aveva dato così poco e che così poco aveva dato alla vita, l’avevo incontrato saltuariamente e fugacemente dopo la guerra, ed era un inerte, non un naufrago: è naufrago chi parte ed affonda, chi si propone una meta, non la raggiunge e ne soffre; Cerrato non si era proposto nulla, non si era esposto a nulla, era rimasto ben chiuso in casa..

 

 

Eppure Cerrato mi incuriosiva. Qualche volta avevamo studiato insieme: era serio e non aveva indulgenze per se stesso, studiava senza genialità e senza gioia (…). Col fascismo non si era compromesso, e aveva reagito bene al reattivo delle leggi razziali. Era stato un ragazzo opaco ma sicuro, di cui ci si poteva fidare (…). Anche Cerrato… aveva sperimentato l’insufficienza della nostra preparazione, e il dovervi surrogare con la fortuna, l’intuizione, gli stratagemmi, ed un fiume di pazienza. Gli dissi che andavo in cerca di eventi, miei e d’altri, che volevo schierare in mostra in un libro, per vedere se mi riusciva di convogliare ai profani il sapore forte ed amaro del nostro mestiere, che è poi un caso particolare, una versione più strenua, del mestiere di vivere. Gli dissi che non mi pareva giusto che il mondo sapesse tutto di come vive il medico, la prostituta, il marinaio, l’assassino, la contessa, l’antico romano, il congiurato e il polinesiano, e nulla di come viviamo noi trasmutatori di materia; ma che in questo libro avrei deliberatamente trascurato la grande chimica, la chimica trionfante degli impianti colossali e dei fatturati vertiginosi, perché questa è opera collettiva e quindi anonima. A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d’uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all’indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia.

 

Gli chiesi se a questo libro gli sarebbe piaciuto contribuire: se sì, mi raccontasse una storia…

 

VANADIO (V), ovvero il racconto dell’incontro di Levi con il dott. Lothar Müller, che ad Auschwitz era stato caporeparto del laboratorio Chimico alla fabbrica di Buna. L’occasione è costituita da una lettera di protesta scritta da Levi al fornitore tedesco di resina per vernici a nome della fabbrica per cui lavora. La risposta del dottor Müller alla risentita lettera di Levi è che bisognava aggiungere una certa percentuale di naftenato di vanadio. Attraverso questo episodio, Levi ritorna con la mente all’orrore del lager ed è sicuro che quel dottor Müller è proprio lo stesso nazista buono che, in quell’inferno dantesco, aveva mostrato riguardo e rispetto per il prigioniero ebreo. Pertanto, Levi gli invia una copia di Se questo è un uomo anche per vedere quale sarebbe stata la reazione di quell’individuo dopo tanto tempo. La risposta arriva dopo due mesi e Müller, in tutta onestà, dice di ricordarsi di Levi e che spera di poterlo incontrare al più presto.

La corrispondenza prosegue anche dopo, sia a livello privato che lavorativo, ma Levi è combattuto: da una parte non riesce a condannarlo per essere stato un uomo al servizio della spietata ideologia nazista e dall’altra non riesce ad assolverlo dalle sue colpe e responsabilità e vorrebbe non incontrarlo in quanto pensa che Müller lo voglia vedere e parlare con lui soltanto per stare in pace con la sua coscienza piena di rimorsi. Avviene, però, che una sera, inaspettatamente,  Müller gli telefona e gli propone un incontro a Finale Ligure. Preso alla sprovvista, Levi acconsente ma, otto giorni dopo, la signora Müller gli annuncia la morte improvvisa del marito…

(…) Mi disposi all’attesa della risposta, mentre a livello aziendale continuava, come l’oscillazione di un enorme lentissimo pendolo, lo scambio di lettere chimico-burocratiche a proposito del vanadio italiano che non andava così bene come quello tedesco. (…)

 

La risposta “privata” continuava a farsi attendere, il che era irritante e snervante quasi quanto la contesa aziendale. Che cosa sapevo del mio uomo? Niente: con ogni probabilità aveva cancellato tutto, deliberatamente o no; la mia lettera e il mio libro [Se questo è un uomo] erano per lui un’intrusione ineducata e fastidiosa, un invito maldestro a rimestare un sedimento ormai bene assestato. Non avrebbe risposto mai. Peccato: non era un tedesco perfetto, ma esistono tedeschi perfetti? o ebrei perfetti? Sono un’astrazione: il passaggio dal generale al particolare riserva sempre delle sorprese stimolanti (…).

Ormai erano passati quasi due mesi: la risposta non sarebbe più arrivata. Peccato. Arrivò datata 2 marzo 1967, su elegante carta intestata in caratteri vagamente gotici. Era una lettera di apertura, breve e riservata. Sì, il Müller di Buna era proprio lui. Aveva letto il mio libro, riconosciuto con emozione persone e luoghi; era lieto di sapermi sopravvissuto; mi chiedeva notizie degli altri due “uomini del laboratorio”, e fin qui non c’era nulla di strano, poiché erano nominati nel libro: ma chiedeva anche di Goldbaum, che io non avevo nominato. (…)

Di me, l’essenziale lo conosceva dal libro, e dalla corrispondenza aziendale sul vanadio. Avevo io molte domande da porgli: troppe, e troppo pesanti per lui e per me. Perché Auschwitz? Perché Pannwitz? Perché i bambini in gas?

 

Müller mi scrisse [che] percepiva nel mio libro un superamento del Giudaismo, un compimento del precetto cristiano di amare i propri nemici ed una testimonianza di fede nell’Uomo, e concludeva insistendo sulla necessità di un incontro, in Germania o in Italia, dove era pronto a raggiungermi quando e dove io lo gradissi: preferibilmente in Riviera. (…)

Che fare? Il personaggio Müller… era uscito dalla crisalide, era nitido, a fuoco. Né infame né eroe: filtrata via la retorica e le bugie in buona o in mala fede, rimaneva un esemplare umano tipicamente grigio, uno dei non pochi monocoli nel regno dei ciechi. Cercava un colloquio: aveva una coscienza, e si arrabattava per mantenerla quieta. (…)

 

Quanto al giudizio specifico sul suo comportamento, che Müller implicitamente domandava, citavo discretamente due casi a me noti di suoi colleghi tedeschi che nei nostri confronti avevano fatto qualcosa di ben più coraggioso di quanto lui rivendicava. Ammettevo che non tutti nascono eroi, e che un mondo in cui tutti fossero come lui, cioè onesti ed inermi, sarebbe tollerabile, ma questo è un mondo irreale. Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi. Dell’incontro in Riviera non feci parola.

 

Quella sera stessa Müller mi chiamò al telefono dalla Germania. Mi annunciava che per Pentecoste, entro sei settimane, sarebbe venuto a Finale Ligure: potevamo incontrarci? Preso alla sprovvista, risposi di sì; lo pregai di precisare a suo tempo i particolari del suo arrivo. Otto giorni dopo ricevetti dalla Signora Müller l’annuncio della morte inaspettata del Dottor Lothar Müller, nel suo sessantesimo anno di età…

 

CARBONIO (Ca), ovvero il racconto della storia di un atomo di carbonio. Levi lo dice direttamente al lettore: vuole terminare il suo libro così. Un libro che non è un trattato di chimica e neppure  un’autobiografia, se non nei limiti parziali e simbolici in cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia in qualche modo è pure. In verità, avrebbe voluto essere, una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie, quale ognuno desidera raccontare quando sente prossimo a conchiudersi l’arco della propria carriera, e l’arte cessa di essere lunga.

In effetti, qualche chimico, giunto a un certo punto della sua vita, davanti alla tabella del Sistema Periodico, non dovrebbe ravvisarvi sparsi i tristi brandelli, o i trofei, del proprio passato professionale? Non ha che da sfogliare un qualsiasi trattato, e le memorie sorgono a grappoli: c’è fra noi chi ha legato il suo destino, indelebilmente, al bromo o al propilene o al gruppo – Nco o all’acido glutammico; ed ogni studente in chimica, davanti ad un qualsiasi trattato, dovrebbe essere consapevole che in una di quelle pagine, forse in una sola riga o formula o parola, sta scritto il suo avvenire, in caratteri indecifrabili, ma che diverranno chiari “poi”: dopo il successo o l’errore o la colpa, la vittoria o la disfatta.

Insomma, ogni elemento dice qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa), come le valli o le spiagge visitate in giovinezza. E questo vale soprattutto per il carbonio, perché dice tutto a tutti, e cioè non è specifico, allo stesso modo che Adamo non è specifico come antenato…

Proprio verso il carbonio – dice Levi al lettore – ho un vecchio debito, contratto in giorni per me risolutivi. Al carbonio, elemento della vita, era rivolto il mio primo sogno letterario, insistentemente sognato in un’ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva molto: ecco, volevo raccontare la storia di un atomo di carbonio.

Dopo essere stato nella roccia calcarea per milioni di anni sotto forma di CaCO3, l’atomo di carbonio è portato alla superficie da un minatore e poi, passato per una fornace, diventa CO2. Il suo viaggio continua come in un eterno presente, per poi diventare glucosio grazie al processo della fotosintesi clorofilliana. Quindi passa nell’uomo, nelle piante e negli animali. Infine, viene ingerito, assimilato e trasportato dal sangue fino a raggiungere una cellula nervosa, la stessa che è protagonista della scrittura di Levi e che decide di terminare il libro con questo racconto e di mettere il punto all’ultima parola…

(…)  Si può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia vera. Potrei raccontare innumerevoli storie diverse, e sarebbero tutte vere. Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio. Potrei raccontare storie a non finire, di atomi di carbonio che si fanno colore o profumo nei fiori; di altri che, da alghe minute a piccoli crostacei, a pesci via via più grossi, ritornano anidride carbonica nelle acque del mare, in un perpetuo spaventoso girotondo di vita e di morte, in cui ogni divoratore è immediatamente divorato; di altri che raggiungono invece una decorosa semi-eternità nelle pagine ingiallite di qualche documento d’archivio, o nella tela di un pittore famoso; di quelli a cui toccò il privilegio di fare parte di un granello di polline, e lasciarono la loro impronta fossile nelle rocce per la nostra curiosità; di altri ancora che discesero a far parte dei misteriosi messaggeri di forma del seme umano, e parteciparono al sottile processo di scissione duplicazione e fusione da cui ognuno di noi è nato. Ne racconterò invece soltanto ancora una, la più segreta, e la racconterò con l’umiltà e il ritegno di chi sa fin dall’inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza.

 

È di nuovo fra noi, in un bicchiere di latte. È inserito in una lunga catena, molto complessa. Viene ingoiato: e poiché ogni struttura vivente racchiude una selvaggia diffidenza verso ogni apporto di altro materiale di origine vivente, la catena viene meticolosamente frantumata, ed i frantumi, uno per uno, accettati o respinti. Uno, quello che ci sta a cuore, varca la soglia intestinale ed entra nel torrente sanguigno: migra, bussa alla porta di una cellula nervosa, entra e soppianta un altro carbonio che ne faceva parte. Questa cellula appartiene ad un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l’atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. È quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su ed in giù, fra due livelli d’energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo.