Trebisacce-13/06/2020: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

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scorta massacrata

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

 

In occasione del 42° anniversario della strage di Via Fani e del barbaro

assassinio di Aldo Moro il 9 maggio del 1978, data che è stata scelta come

Giornata della Memoria per le vittime de terrorismo, la Redazione de La

Palestra, su gentile concessione dell’autore e della casa editrice, propone ai

suoi lettori la seconda parte dell’Introduzione di Salvatore La Moglie al

suo libro Hanno ucciso Moro! Racconto del martedì nero della Repubblica.

Salvatore La Moglie

 Dunque, la verità indicibile e inconfessabile è che noi eravamo un paese a sovranità limitata (per certi aspetti lo siamo tuttora) che, pertanto, non poteva permettersi il lusso di poter decidere autonomamente il proprio destino politico. Verità indicibile e inconfessabile che, in effetti, vale per l’intera stagione dello stragismo che è iniziata con la strage di Piazza Fontana a Milano nel 1969 e che ha visto implicati pezzi dello Stato (i servizi filofascisti e deviati del doppio Stato e della doppia lealtà alla Costituzione e, pare, soprattutto all’Allenza Atlantica), poteri forti visceralmente anticomunisti e filoatlantici (si pensi, per es., alla già citata Loggia P2 di Licio Gelli) insieme alle manchevolezze della magistratura e alle connivenze politiche. Ed è un po’ tutto questo che sta emergendo dalla nuova inchiesta sulla strage di Bologna del 2 agosto del 1980 di cui parlano i giornali (solo pochissimi in prima pagina…) del mese di febbraio del 2020: P2 di Gelli, servizi deviati e manovalanza nera. Crediamo che si potrebbero ripetere per l’affaire Moro le parole che un grande giornali- sta come Giorgio Bocca scrisse per il caso Ustica su la Repubblica del primo maggio del 2004: «La tragedia di Ustica è stata la tragedia di un Paese a sovranità limitata, in cui c’è un governo legale, scoperto, controllabile con le leggi comuni e ce n’è uno di fatto le cui azioni sono ingiudicabili e in- confessabili, che risale agli impegni segreti presi nei giorni dell’armistizio». Cioè l’8 settembre del 1943… Moro si rendeva perfettamente conto della delicata situazione italiana nel contesto internazionale ma cercò di far capire ai paesi alleati che era giusto che l’Italia portasse avanti un certo discorso politico, nella fattispecie la politica di accordo col PCI e, quindi, della solidarietà e unità nazionale (o, se si vuole, del compromesso storico, come dicevano i comunisti, o della terza fase, come diceva Moro) al fine di risolvere le due grandi emergenze, quella economica e quella    della violenza e del terrorismo. Ma la politica di Moro non fu compresa, come non fu compreso il suo anticomunismo intelligente scambiato dai più conservatori e reazionari addirittura come una sorta di filocomunismo!… La DC di Moro (che in quegli anni viveva una profonda crisi) e Moro stesso apparivano sempre meno come il partito americano che garantisce l’Alleato USA ora e sempre in merito al problema del comunismo e della superfedeltà atlantica, e anche se il PCI di Berlinguer (l’anomalia italiana…) mostrava sempre più di essere affidabile e legittimabile come partito democratico e forza di governo, per gli alleati americani ed europei (soprattutto inglesi, tedeschi e francesi) non bastava e, pertanto, bisognava fermare Moro. E qualcuno lo fermò, per sempre. Il caso italiano era risolto una volta per tutte con il PCI, neppure un anno dopo, di nuovo all’opposizione. Yalta aveva vinto ancora una volta e Moro non sarebbe mai diventato Presidente della Repubblica e autorevole regista dell’alleanza tra DC e PCI negli anni a venire fino, magari, ad arrivare ad avallare addirittura una certamente non gradita alternanza tra i due maggiori partiti italiani, dopo tanti anni di monarchia e occupazione democristiana del Potere. Con Moro morto, Yalta era stata, dunque, riconfermata e l’URSS otteneva in cambio di via Fani la rinuncia americana alla temibile bomba N (ai neutroni) e il silenzio-assenso sul colpo di stato filosovietico in Afghanistan sul finire del mese di aprile, in pieno caso Moro. Intanto, anche in Francia, con le elezioni politiche chiuse il 19 marzo di quell’anno orribile, il pericolo comunista era stato scon- giurato grazie alla vittoria delle forze della conservazione e, forse, anche grazie al caso Moro. Dunque, Yalta in via Fani, come scrisse già allora il sorprendente e inquietante Mino Pecorelli sul suo OP (Osservatore Politico) con i brigatisti mere pedine di un gioco sporco e ben più grande di loro e Moro assassinato per anticomunismo, quello più ottuso e reazio- nario. Sia detto per inciso, il pericolo rosso (pericolo socialista e poi pericolo comunista) è una costante italiana da Cavour in poi e la classe do- minante lo ha tirato fuori opportunamente ogniqualvolta come uno spauracchio da sbattere in faccia agli italiani più conservatori e reazionari che, a questo pericolo, preferiscono persino il fascismo o qualcosa di simile. Tuttora qualcuno lo tira ridicolmente fuori, anche se la parola comunismo è stata cancellata da anni dal vocabolario della politica italiana. Del resto, va ricordato che proprio allora, in Europa e in Italia, si facevano sentire forti le sirene del neoliberismo, tuttora imperante, e chi meglio del terrorismo rosso poteva mettere in difficoltà il temuto PCI di Berlinguer, i sindacati, il movimento dei lavoratori e ridurre alla passività e al silenzio l’antagonismo dei giovani della Nuova Sinistra ridimensionando, allo stesso tempo, l’idea-mito dell’antifascismo? Il lettore troverà l’analisi su Moro vittima della categoria dell’anticomunismo già nelle prime pagine del libro e scoprirà ulteriormente come egli (che di questo era ben consapevole) venne sostanzialmente abbandonato (di delitto di abbandono parlò nel 1979 l’autorevole Carlo Bo) da una classe politica che, purtroppo, non fu all’altezza della situazione e subì, praticamente, i diktat dei più conservatori e dei più reazionari all’interno e di quelli esteri che, ad Ovest come ad Est, inneggiavano ed esaltavano la linea della fermezza e dell’intransigenza in nome della ragion di Stato e della salvezza dell’Italia che si sarebbe salvata, appunto, solo lasciando uccidere barbaramente l’on. Moro. Il quale, nelle sue lettere dal carcere – alle quali si negò volutamente ogni valore, perché non moralmente a lui ascrivibili – si richiamava, innanzitutto, con forza, al principio costituzionale per cui lo Stato ha il dovere di proteggere la vita dei suoi cittadini, ma anche allo stato di necessità (per cui non si commette reato se si agisce, appunto, per necessità e, quindi, per salvare una vita); invitava a una ragionevole trattativa, come tanti altri Stati avevano fino allora fatto senza che avvenisse il finimondo e, insomma, ammoniva una classe dirigente diventata come improvvisamente ottusa e ipocritamente statolatrica ad essere flessibile e, quindi, a trattare anche per far venire allo scoperto i misteriosi e inafferrabili brigatisti e, inoltre, perché, se la pietà prevale, un paese non è finito: un paese finisce o può finire solo se la sua vita politica e sociale è fondata sulla disumanità, la spietatezza, la violenza e la barbarie, ma se è fondata sulla pietas, sull’umanità e sui valori universali del cristianesimo non può perire. Grande lezione umana, politica e morale, quella del Moro prigioniero, la cui parola pacata, razionale, lucida, chiara e decisa si espresse sempre più in un urlo disperato e impotente fino al rassegnato tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta. E occorre ribadire con forza che Moro non fu nè un vile o un pazzo da interdire e neppure affetto dalla sindrome di Stoccolma, come si ripeteva allora da più parti, cioè in piena e incomprensibile sintonia-empatia collaborativa con i terroristi fino a farne proprie le richieste e farsene portavoce. La verità è che partiti, stampa di regime e cosiddetta indipendente, pur di evitare la trattativa, iniziarono fin dal 16 marzo l’operazione-montatura di screditare Moro attestandosi, fino alla fine, sulla comoda ma inconcludente linea della fermezza che condannava il prigioniero a morte certa. La verità è che il Moro del carcere è un uomo politico lucido e probabilmente il Moro più autentico, più vero e più umano che si sia conosciuto fino allora e che, di fronte alla terribile morte incombente, ha deciso di dire la sua verità e di lasciare un testamento politico, morale e umano agli italiani e lo fa con le lettere e soprattutto con il cosiddetto Memoriale, che fu censurato non sappiamo da chi e offerto agli italiani con più di un puntino sospensivo. Certamente il corpo di Moro rannicchiato nel bagagliaio della Renault 4 rosso-amaranto e abbandonato in via Caetani, a due passi dalle sedi della DC e del PCI, ci appare l’immagine dello Stivale ed è, insomma, una metafora: in quella Renault c’è l’Italia prigioniera e vittima di un pesante ricatto politico di altissimo livello, la cui verità chissà ancora per quanto saremo costretti a cercare e ricercare. Per dirla con il grande Francesco De Sanctis, il De Sanctis che analizza l’Ortis di Foscolo, c’è lì dentro (nella vicenda Moro) tutta una tragedia nazionale in una tragedia individuale. Le domande, i dubbi e i sospetti sull’affaire sono tuttora tanti, primo fra tutti (ed è praticamente la domanda delle domande): chi ha veramente voluto i 55 giorni, cioè fare un finto processo a Moro e alla DC e tenere in scacco e sotto ricatto un’intera nazione? E ancora: perché Moro non è stato ucciso in via Fani, insieme ai cinque uomini della scorta? Evidentemente, chi progettò la strage e poi i 55 giorni di prigionia aveva come obiettivo principale non solo di umiliare e distruggere politicamente e poi fisicamente il più che probabile nuovo Presidente della Repubblica ma, allo stesso tempo, quello di tenere prigioniera e sotto pesantissimo ricatto non solo un’intera classe politica ma soprattutto un intero paese. E, poi, non si dimentichi che in quei mesi del 1978 sulle prime pagine (poi sempre più in quelle più interne…) c’era lo scottante scandalo Lockheed e il processo per le bustarelle ai politici della Democrazia Cristiana (per es., Luigi Gui, difeso strenuamente da Moro, insieme a tutta la DC, il 9 marzo del 1977 in Parlamento) e del Partito socialdemocratico (per es., Mario Tanassi) per l’acquisto degli aerei militari americani Hercules C-130 della ditta Lockheed, con al centro il misterioso Antelope Clobber (Antilope Cobbler o il Ciabattino dell’Antilope) che proprio la mattina del 16 marzo si leggeva sui giornali essere indicato, da fonte statunitense, nella persona di Aldo Moro. Chiediamoci: Che cosa sarebbe stato il processo Lockheed, che è in corso, se non ci fosse stato il caso Moro? E proprio così si leggeva in un articolo sulla Repubblica di quel tragico 9 maggio 1978 mentre il prigioniero veniva assassinato nelle prime ore dell’alba (quasi contemporaneamente a Peppino Impastato!), forse anche per lavare, ridimensionare e far dimenticare quel gigantesco e vergognoso scandalo politico. Tra i tanti perché e i tanti dubbi dell’affaire Moro c’è, tra i principali, questo: chi volle impedire a Moro di diventare il naturale successore di Leone (anch’egli implicato nello scandalo Lockheed) alla Presidenza della Repubblica? Perché, indubbiamente, da quello scranno, Moro sarebbe stato l’autorevolissimo garante dei futuri governi basati sull’accordo DC-PCI e, questo, secondo una certa logica, andava assolutamente impedito. Insomma, Moro doveva morire: la sua coraggiosa svolta diretta alla piena legittimazione del PCI, che viaggiava insieme a quella della difesa della sovranità e della dignità nazionali nei confronti degli alleati americani ed europei, non poteva essere tollerata e, quindi, alla fine, ci fu chi decise di porre fine a un coraggioso esperimento politico che rappresentava, appunto, una svolta e una novità che non potevano non far paura ai gruppi di potere più retrivi e più ottusamente anticomunisti del nostro paese in piena convergenza con i paesi e i potentati amici e meno amici. Ribadiamo che, dopo più di 40 anni, ancora sono tanti i punti oscuri e gli interrogativi su una vicenda che ha segnato un confine tra prima e dopo e, insomma, uno spartiacque nella storia dell’Italia repubblicana e manca tuttora, da parte della classe politica (che da subito ha rimosso il caso Moro e ha cercato di dimenticare l’ingombrante affaire) la volontà e il coraggio morale e politico di dire agli italiani la verità, anche quella più indicibile e incoffessabile. Verità che andrebbe detta anche su tutti gli altri delitti, misteri e segreti della Repubblica. Infatti, dopo più di cinquant’anni non sappiamo ancora la verità sulla strage di Piazza Fontana a Milano come non la sappiamo su quella di Piazza della Loggia a Brescia, sul delitto Mattarella (un affaire Moro di livello forse non solo regionale) e su tante altre infami stragi e infami delitti. Siamo ancora alla dolorosa e amara conclusione pasoliniana: io so, ma non ho le prove… o, almeno, non tutte. Insomma, occorre ancora sottolineare come da parte della classe politica e della stampa non si sia mai avvertita l’esigenza di un’operazione verità, ovvero di aprire un grande dibattito chiarificatore, diretto a giungere a una verità, fosse anche solo extragiudiziale, accettabile su un delitto atroce che ha cambiato l’Italia ma che ha coinvolto anche tante altre vite e messo il paese a dura prova, praticamente alla prova di una inedita forma di colpo di Stato in grande stile, con prove tecniche di Stato autoritario e con protagonista la violenza, il terrore e la paura con i quali, certamente, si governa più facilmente e più facilmente si riesce a piegare le coscienze e a ridurre gli uomini al silenzio e alla passività, portandoli fino ad accettare e, anzi, a richiedere leggi speciali anticostituzionali e antidemocratiche che, in una situazione normale, non avrebbero mai accettato nè richiesto. Ha scritto bene Andrea Colombo sul Manifesto del 17 marzo del 2018: «Le parole lucide del presidente dc incarcerato furono allora e sono oggi del tutto ignorate. Il quarantesimo anniversario della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro è stato celebrato ieri con la dovuta solennità, rispettando la liturgia del caso. (…) Le alte cariche dello stato, dopo le note del Silenzio, hanno detto pochissimo. (…) Nessuno si è scostato da un copione ripetuto infinite volte nei giorni del sequestro e nei decenni successivi. (…) All’alta personalità dell’ostaggio, alla sua esemplare biografia fino al giorno del sequestro venivano dedicate parole commosse. Il Moro chiuso nella “prigione del popolo” di via Montalcini, con le sue lettere disperate e inutili, le sue argomentazioni lucide e inascoltate, andava invece cancellato. Lo fecero passare per pazzo e gli amici più intimi sottoscrissero. Ora è semplicemente scomparso. Dimenticato nel tripudio dei ricordi. Rimosso. (…)». Adesso, però, dopo tanti anni, conoscere la piena verità sulla vicenda Moro – che resta, per usare due espressioni conradiane, il cuore di tenebra e la linea d’ombra nella storia dell’Italia post-fascista – è un diritto degli italiani e per la classe politica un dovere dirla per rendere finalmente omaggio alle vittime. Questo sì le farebbe riposare per sempre senza doversi rivoltare nelle tombe e non gli annuali burocratici e anche ipocriti omaggi con fiori e corone davanti alle lapidi.

(2- fine)