Trebisacce-29/01/2021:Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie: analisi dell’Inferno di Dante

dante

Salvatore La Moglie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

A partire da questo numero, per gentile concessione dell’autore, La Palestra offrirà ai propri lettori i saggi di Salvatore La Moglie sull’analisi dell’Inferno di Dante, in occasione dei sette secoli dalla morte del Sommo Poeta, al quale si vuol rendere omaggio per esaltarne l’eccelsa figura e rinnovarne il ricordo soprattutto presso le nuove generazioni, purtroppo poco propense alla lettura del nostro più grande poeta e scrittore, Padre della lingua e della letteratura italiana, che risulta sempre di scottante attualità e un classico della letteratura universale intramontabile. (1- Continua)

 

Breve introduzione alla straordinaria personalità di un genio immenso ineguagliabile immortale e irripetibile

 

Durante una trasmissione radiofonica di tantissimi anni fa, lo scrittore e psichiatra Mario Tobino disse (cito a mente): Dante è buono come il porco. Potrebbe sembrare un’offesa ma non lo è. Infatti, del porco non si butta nulla e di Dante non si butta nulla, tanto è tutto buono. Aveva perfettamente ragione: il Sommo Poeta è così buono che di quello che ha scritto non si riesce a buttare nulla.

Pasolini ha scritto che Dante e il suo linguaggio sono un caso unico nella letteratura e certamente Dante è un caso unico sia per quello che ha scritto che per la sua stessa particolare vicenda esistenziale, senza la quale crediamo che non sarebbe stato (lo citava il mio professore, ma non ricordo chi l’abbia detto) l’unico poeta che ha saputo toccare, nello stesso tempo, la linea dell’arte, dello stile e del cuore. Insomma, diciamolo una volta per tutte: l’Italia è l’unico paese al mondo che può vantare un autore unico, immenso, impareggiabile, ineguagliabile con cui altri grandi si sono misurati senza però riuscire a superarlo. Wolfgang Goethe – una delle ultime menti enciclopediche che ha camminato su questa Terra – era affascinato da Dante e dalla complessità e immensità della Commedia, tanto che, a un certo punto, decise di venire in Italia (Viaggio in Italia) per imparare l’italiano e poter leggere e comprendere meglio il Sacrato Poema, la Divina Opera del Divino Poeta.

Eppure, se Dante è molto amato all’estero certamente non lo è in Italia, e questo va detto con molta amarezza. Gli alunni italiani, purtroppo, non amano Dante, non amano la Divina Commedia. Le ragioni possono essere tante ma resta il fatto che il nostro più grande scrittore e padre della lingua italiana non è molto conosciuto dagli italiani e soprattutto dai più giovani. Il nostro, in genere, è un paese che non legge molto e la maggiorparte dei giovani preferisce il più sofisticato cellulare e i social network piuttosto che leggere un buon libro e men che meno un canto della Divina Commedia… Non sanno cosa si perdono ma loro, il più delle volte, dicono all’insegnante che a loro, Dante (come gli altri autori della letteratura) non serve a nulla… come a nulla serve la Storia…Ed è incredibile che queste nostre riflessioni siano praticamente le stesse di quelle che si possono leggere in una edizione della Divina Commedia del 1964 (Editoriale Lucchi, Milano, uscita quasi per il settimo secolo della nascita del Poeta), laddove è scritto che: … Oh come dovrebbero, invece, tutti gli Italiani e soprattutto i giovani, avvicinarsi a Dante con simpatia e fiducia, con la curiosità di conoscere ilpiù sublime e avventuroso viaggio che mente umana abbia mai concepitoLa Divina Commedia è il libro di attualità ancor oggi dopo sette secoli… è il libro sacro dell’anima e della cultura italiana e non bisogna soltanto ammirarlo, bisogna amarlo e per amarlo bisogna conoscerlo…

Non sanno, dunque, cosa si perdono i giovani e anche i meno giovani: perdono tutto un mondo, perdono la Bellezza, il Sublime, l’Ineffabile, la Grandezza. E Dante è tutto questo! Occorrerebbe che Dante fosse non solo un mero monumento nazionale ma qualcosa di più vivo, un patrimonio culturale popolare, letto con passione nelle scuole, nelle strade, nelle piazze, nei negozi, nelle botteghe, nei centri commerciali, negli alberghi, nelle botteghe come auspicava, nel 1989, il grande critico Gianfranco Contini, secondo il quale, in tal modo, l’Italia si arricchirebbe moltissimo se, trascurando valori secondari, potesse vantare un Dante popolare.

Non si può comprendere la grandezza e la bellezza della Commedia se non si entra in essa come in un tempio, se non si entra nella mente e nel mondo di Dante, nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti anche quelli che ci possono apparire duri e spietati verso certi dannati, ma Dante si può permettere alcuni momenti apparentemente troppo duri verso le anime dell’Inferno perché ha troppo amato e ama pur sempre quel legno storto (come lo definisce il filosofo Kant) che è l’uomo, legno storto che lui vorrebbe poter raddrizzare e ricondurre sulla dritta via, visto che preferisce percorrere quella fallace, quella che conduce nella selva oscura del peccato, del male, della perdizione e della dannazione eterna. Ne la vita umana sonodiversi cammini, de li quali uno è veracissimo e  unaltro è fallacissimo, avverte Dante nel Convivio e l’uomo tende sempre a incamminarsi su quello fallacissimo che allontana dal ben dell’intelletto, cioè da Dio che è Bene e Amore, ma anche dalla Ragione il cui sonno, sembra dire Dante, anticipando il Goya, genera mostri. E la corruzione e perdizione totale l’uomo la raggiunge, condannandosi alla dannazione eterna, quando non è sorretto dalla Fede e dalla Ragione. Fede e Ragione, nella visione dantesca, devono procedere di conserva, devono viaggiare insieme e sempre in perfetta sintonia altrimenti il rischio è quello di perdersi, di finire nella selva oscura del peccato. E, tutto questo, in una sorta di consapevolezza pre-kantiana: Dante sa già, prima di Kant, che la ragione è un’isola piccolissima nell’oceano dell’irrazionale e vorrebbe che questo pensiero venisse un giorno rovesciato: l’irrazionale è un’isola piccolissima nell’oceano della ragione. Questo perché il suo sogno-utopia è quello di poter liberare l’umanità dallo stato di miseria in cui si trova e condurlo allo stato di felicità, come lui stesso spiega nella celebre epistola a Cangrande della Scala. Ma per poter raggiungere questo nobile fine sapeva benissimo che occorreva una riforma politico-religiosa a 360 gradi che avrebbe dovuto investire tutta l’umanità: occorreva un Veltro, anzi ne occorrevano due: uno per il Potere politico e un altro per quello religioso.

Il Divino Poeta (fedele, anche, alla visione teologico-filosofica della Scolastica di San Tommaso d’Aquino) era profondamente convinto che sia nella vita individuale che in quella politica occorresse la perfetta sintonia di Fede e Ragione e, quindi, dei due Soli, cioè di Papato e Impero, del Potere politico imperiale e del Potere spirituale esercitato dalla Chiesa, la quale deve rinunciare al potere temporale, cioè politico, e operare soltanto in senso religioso e spirituale. I due massimi Poteri universali non devono combattersi l’un l’altro ma devono collaborare, ciascuno autonomo nella propria sfera, per il bene dell’umanità, sia per quanto concerne il benessere, la felicità terrena che per quanto concerne il benessere, la felicità spirituale, ultraterrena. Perché se è vero, come si credeva nel Medioevo, che il mondo terreno è una valle di lacrime e la vera realtà è quella ultraterrena, quella dell’aldilà dove troveremo la felicità eterna, è anche vero – per Dante – che la felicità e il benessere terreno e ultramondano possono essere favoriti dal giusto procedere di conserva delle due alte guide, l’Imperatore e il Papa, il pastor della chiesa. Ora, ai tempi di Dante, questa visione appariva come una vera e propria utopia. Perché? Perchè sia l’Impero che il Papato era due istituzioni in profonda crisi e in declino e l’avvento di Arrigo VII di Lussemburgo, apparso come una meteora, non fu che una pia illusione, un sogno impossibile che non si sarebbe mai potuto realizzare. Ormai da lungo tempo la Storia stava imponendo sulla scena le monarchie nazionali  e altre entità minori come i Comuni e poi le Signorie e i Principati in lotta contro le due grandi istituzioni medievali e anche tra di loro per la propria affermazione e/o per la propria espansione a danno degli altri. Eppure per il passatista, l’antistoricista e antimoderno Dante l’unica salvezza di fronte a tanta orribile corruzione e perdizione dell’umanità poteva essere soltanto la collaborazione perfetta tra Impero e Papato. Per Dante, pasoliniano ante litteram, il mondo nuovo che si stava prepotentemente affermando conduceva alla divisione anziché alla coesione, alla deriva totale fino alla catastrofe e alla fine del mondo. Un mondo alla rovescia che lui vorrebbe salvare, rifare, rifondare, rimettere in ordine. La classe borghese e mercantile che si sta imponendo un po’ ovunque facendo prevalere il suo economicismo ovvero i valori e gli ideali della roba (dirà, secoli dopo, Verga), del profitto, del successo, della scalata sociale, del denaro facile che genera tracotanza, prepotenza, arroganza e violenza (la gente nova e i sùbiti guadagni, orgoglio e dismisura han generata, scrive con forte disappunto nel canto XVI  dell’Inferno), questa nuova inedita classe sociale, destinata a imporsi sulla scena del mondo definitivamente nel 1800, non piace al Sommo Poeta che finisce per passare come antistorico e addirittura reazionario e conservatore, proprio come è successo a Pasolini che non amava la civiltà del consumismo che omologa e conformizza più del fascismo, provocando una orribile mutazione antropologica.  Anche il pasoliniano Dante si avvedeva, con orrore, che la civiltà, il mondo del suo tempo (che i posteri, dice nel canto XVII del Paradiso, chiameranno antico) precipitava verso un orribile baratro, verso un’orribile mutazione antropologica che distrugge irrimediabilmente i veri valori e ideali in cui l’uomo deve credere e dai quali deve farsi guidare durante la propria esistenza. E quali sono per Dante questi valori e ideali? Sono certamente l’Amore, il Bene, la Verità, la Giustizia, la Virtù, la Bellezza, l’Etica, la Rettitudine, la Pace e insomma tutti quei valori che sono il contrario di quella cosa terribile e orribile che il Divino Poeta chiama Malizia, parola che racchiude tutte le altre negative di cui l’uomo, purtroppo, è intriso e di cui è capace, e cioè: il Male, la Cattiveria, la Prepotenza, l’Invidia, la Gelosia, la Lussuria, l’Intolleranza, l’Orgoglio, l’Arroganza, la Cupidigia, la Forza, l’Inganno, la Fraudolenza, il Tradimento, la Calunnia, il Malaffare, l’Immoralità, la Violenza in ogni sua espressione (anche quella della Storia sugli uomini) e via discorrendo. Nella Divina Commedia c’è tutto questo, cioè tutto l’orrore di cui l’uomo è capace su quello che Antonio Gramsci chiamava il mondo grande e terribile, un orrore per cui la Terra su cui viviamo finisce per divenire l’aiuola che ci fa tanto feroci (canto XXII del Paradiso). Nel gran mar dell’essere (canto I del Paradiso) c’è tutta l’umanità nelle sue varie espressioni e sfaccettature, quella che compie imperterrita il Male e sarà punita nell’Inferno e quella che lo subisce e può solo aspirare a una giustizia divina e alla beatitudine del Paradiso. Mai, come nel caso di Dante, la frase di Jean-Paul Sartre, l’inferno sono gli altri, risulta estremamente calzante: il problema sono sempre gli altri e il bene o il male che sono capaci di fare al prossimo e alla società in cui vivono e operano. Per Dante erano stati gli altri a creargli l’inferno sulla terra, erano stati i legni storti, erano stati dei corrotti e degenerati uomini-feccia, di basso livello morale, culturale e politico che agivano per il proprio particulare (come diceva Francesco Guicciardini) e non per il bene della comunità. Ed è contro questo tipo di uomo e contro questa umanità che Dante lancia il suo urlo e scrive la Commedia, sognando che un giorno possa esserci un nuovo uomo e una nuova umanità. Da notare e da sottolineare è il fatto che nella Commedia in generale e nell’Inferno in particolare, gli emblematici, paradigmatici peccatori passati in rassegna non sono quelli della strada, la gente comune ma quelli dei ceti medio-alti, quelli delle classi dirigenti, i potenti della politica, dell’economia e del mondo religioso, cioè gli uomini di chiesa, i papi e gli alti prelati presentati come dei veri e propri criminali che si sono macchiati di delitti, peccati, colpe orribili, imperdonabili contro il prossimo e contro la collettività e che appartengono sia al passato più remoto (anche mitologico) che ai tempi di Dante o giù di lì. E il Sommo li condanna in eterno, per l’oggi e per il domani, in quanto vuol dimostrare che loro che erano al Potere, nei posti di comando e di rilievo nella società, avrebbero dovuto essere di esempio, da modello per tutti gli altri e condurre la loro vita con onore, onestà e, insomma, con moralità irreprensibile e, invece, hanno fatto tutto il contrario: hanno vissuto e operato con basso livello etico e non sono stati un paradigma, un modello, un esempio per gli altri ceti, per tutti gli altri cittadini e, anzi, hanno reso di massa comportamenti illeciti e disonesti fatti passare come normali. E quando il pesce puzza dalla testa, quando cioè le classi dirigenti non costituiscono un esempio per tutta la collettività, è allora che la corruzione e i comportamenti illegali si diffondono e una società diventa marcia fino alle radici e, pertanto, tutto appare putrefazione e degenerazione e ogni speranza di salvezza e di rifondazione e recupero dei veri valori appare impossibile. Insomma, per Dante, i più grandi colpevoli della crisi dei valori morali, spirituali e delle degenerazioni in una società come nel mondo intero sono le classi dirigenti, gli uomini che, a vario livello, hanno le leve del potere e del comando politico ed economico. È come se lui dicesse a tutti gli uomini-feccia dell’Inferno: Voi avreste dovuto essere d’esempio per tutti gli altri e, invece, vi siete comportati come i peggiori, ed è per questo che ora siete qui così adeguatamente puniti. Purtroppo, nulla è cambiato dai tempi di Dante ad oggi, ed è anche per questo che sia lui che la sua opera sono un immortale classico che regge bene alla sfida del Tempo. In questo nostro lavoro il sempre attuale romanzo della Commedia sarà preso in esame nella parte che riguarda la prima cantica, cioè l’Inferno e lo tratteremo senza mantenere un unico modo per analizzare i versi dei 34 canti, ma anche cambiando modalità di commento, proprio per dimostrare che alla Commedia ci si può approcciare in maniera diversificata. E l’obiettivo è quello di rendere accessibile a tutti la lettura e la comprensione dei canti-capitoli e far sì che chi legge questo libro, se non ha a casa una Divina Commedia, deve poi recarsi in libreria per comprarla.

Nella Divina Commedia – ha colto bene Francesco De Sanctis –  è perfettamente raggiunta quella che egli chiama la forma, ovvero la felice unione di contenuto e forma, di elevatezza del contenuto e dei messaggi dell’opera come di quella della forma, cioè del contenitore che li racchiude e li mostra al lettore. Nella Commedia, insomma, come sottolinea il De Sanctis, c’è l’uomo, c’è la coscienza, cioè è forte lo spessore etico, morale e, quindi il rigore morale che non perdona il male e il peccato, specialmente quando sono recidivi e, insieme, c’è la perfezione e la bellezza della forma. Due qualità che rendono la Divina Commedia un’opera unica, immensa, irripetibile, ineguagliabile e inarrivabile. Tutto questo perché quella di Dante non è una poetica dell’arte per l’arte ma una poetica dell’arte per la vita, per cui il compito della letteratura è quello di stabilire o ristabilire la verità e farla trionfare, nonostante sia così difficile nella vita reale. Nella Commedia questa poetica della verità la si tocca in ogni canto e chi pensa di fare una distinzione tra Dante-uomo-personaggio e Dante-autore, cercando di sminuire il primo in favore del secondo, insinuando magari il dubbio che il Dante della vita quotidiana sia di levatura minore rispetto al Dante che scrive, ispirato da Dio, il suo capolavoro, si sbaglia di grosso. Se il Dante-autore può sembrare spinto dal Dante-uomo-personaggio ad essere talvolta estremamente spietato nei confronti di alcuni personaggi che colloca nell’Inferno, magari per estremo risentimento per il male che gli hanno fatto o hanno fatto alla società in cui vivevano, ebbene si tratta solo di apparenza perché, siamo convinti che se è vero, come dice Sartre, che la letteratura può nascere dal risentimento e che Dante, in un certo qual modo, con la Commedia si vendica senza spargimento di sangue, è soprattutto vero che non vi è alcuno sdoppiamento: Dante-uomo-personaggio e Dante-autore sono la stessa persona, coincidono, viaggiano sempre insieme, sono indissolubili: se il Dante autore ha deciso di collocare nell’Inferno papa Bonifacio VIII è perché la pensa così anche il Dante-uomo-personaggio. In verità, il Danteuomo-personaggio che sarebbe diverso dal Dante-autore non è altro che una finzione letteraria: il primo serve al secondo nell’intera finzione dell’opera. Gli unici sdoppiamenti, gli unici doppi, o alter ego che dir si voglia, che riusciamo a intravedere nella Commedia sono il personaggio-allegoria Virgilio (cioè la sua Ragione, la sua Coscienza critica, il suo ideale di potere politico imperiale con il compito di pensare alla felicità terrena degli uomini) e il personaggio-allegoria Beatrice (cioè la sua Fede, la sua Teologia e la sua Chiesa ideale, pura e moralmente e spiritualmente pulita, che dovrebbe pensare alla felicità ultraterrena dell’umanità).

In Dante c’è tutto o quasi. Dante non è solo il padre della lingua italiana ma anche il padre della letteratura italiana e, infatti, in Dante e nella Commedia ci sono, racchiusi, un po’ tutti i generi: la poesia, il poema, il trattato, il saggio, il dramma, la tragedia, il romanzo, il racconto, la fiaba, il mito, il teatro, il cinema, il film a puntate, a episodi e, insomma, il cosiddetto romanzo sceneggiato. Non solo, ma Dante anticipa l’Umanesimo e anzi è il primo degli umanisti sia per quanto riguarda il suo amore per i classici greci e latini, per la sua visione della letteratura e della cultura come le uniche che possano elevare l’uomo fino al sublime e alle vette più alte e, ben collegato a questo, per il fatto di mettere al centro della sua Weltanschauung, della visione globale e del discorso letterario l’uomo con i suoi veri valori e ideali, l’uomo creato da Dio e posto come signore sulla Terra. L’uomo che è un microcosmo che deve riflettere il macrocosmo creato dalla Potenza Divina. Infine, va detto che Dante, suo malgrado, è l’iniziatore di quel filone letterario dell’intellettuale cortigiano che vivendo, appunto, presso la corte di un Principe o di un Signore e, cioè, all’ombra del Potere, non può permettersi il lusso di sputare nel piatto in cui mangia e, anzi, deve adularlo e dedicare i libri che scrive ora a questo Signore e poi a quest’altro. Questo tipo di intellettuale che vive a corte, che è ben pagato per la sua attività culturale lo continuerà, non suo malgrado, Francesco Petrarca, al quale denaro, onori e gloria non facevano certo ribrezzo. Poi diventerà un fenomeno stabile, normale durante tutta la civiltà umanistico-rinascimentale fino a diventare (nel tempo)  una caratteristica di un po’ tutti gli intellettuali che, fino ai nostri giorni, preferiscono – diciamo così – avere un buon rapporto con il Potere e il Potente di turno anziché contestarli e combatterli, tanto da diventare organici, funzionali al Potere, sovrastruttura indispensabile di ogni establishment e loro stessi establishment. Dicevo che Dante è stato l’iniziatore ma (va sottolineato) solo suo malgrado di questo tipo di intellettuale, suo malgrado perché la tragedia dell’esilio lo costrinse a salire e scendere per l’altrui scale e a provare come sa di sale lo pane altrui. Non solo, ma l’esilio, la condizione di ghibellin fuggiasco (Foscolo) l’aveva reso una sorta di apolide, un senzapatria, un cosmopolita suo malgrado anche questa volta, tanto che nel De vulgari eloquentia scrive che: ho per patria il mondo come i pesci hanno il mare.

Insomma, ci troviamo di fronte a un gigante della letteratura, da Super-Premio Nobel, che andrebbe dichiarato, una volta per sempre, Patrimonio Universale dell’Umanità. Per gli italiani è certamente Patrimonio Sacro e Inviolabile perché il nostro poeta-vate per eccellenza, cantore e interprete del presente e del futuro della nostro paese e, quindi, del suo destino, ha dato all’Italia una duplice identità: un’identità culturale, proprio creando la lingua che parliamo (la più bella!) e una delle  letterature più importanti e interessanti del mondo, e un’identità storico-nazionale quando ancora l’Italia come nazione e come Stato non c’era (ci sarà solo più di cinque secoli più tardi). L’Italia e l’idea stessa d’Italia politicamente non c’era ma c’era e ci sarà nella mente di tanti scrittori e artisti italiani. La repubblica italiana delle lettere c’era, non c’era ancora quella politica. Nella Divina Commedia l’Italia c’è e per questo Dante, insieme a Petrarca (virtù contra a furore prenderà l’arme, e fia el combatter corto; chè l’antico valore nell’italici cor non è ancor morto), a Machiavelli e poi ad Alfieri, Foscolo e Manzoni è stato visto come uno dei Padri del nostro Risorgimento e, diciamolo pure senza téma di esagerare, il primo grande Padre della Patria. E, se riflettiamo bene, anche dell’Europa moderna che, nella sua mente eccelsa, nel suo straordinario intelletto, c’era (e nella Commedia è qua e là citata) e l’avvertiva non solo come una grande entità geografica da tenere unita ma anche come una grande identità culturale dell’Occidente da difendere.