Trebisacce-24/03/2021: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie In occasione del 25 marzo, cioè del Dantedì, pubblichiamo qui di seguito la seconda parte del saggio introduttivo di Salvatore La Moglie al suo lavoro sull’analisi dell’Inferno di Dante (la prima parte è uscita nel numero di gennaio)

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Struttura-Inferno

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

In occasione del 25 marzo, cioè del Dantedì, pubblichiamo qui di seguito la seconda parte del saggio introduttivo di Salvatore La Moglie al suo lavoro sull’analisi dell’Inferno di Dante (la prima parte è uscita nel numero di gennaio)

 

L’ultimo degli antichi e il primo dei moderni. La critica spietata e corrosiva della civiltà del denaro e del profitto, che aveva il suo principale centro in una Firenze borghese e capitalista. Che cos’è la Divina Commedia (2- Continua)

Salvatore La Moglie

 Carlo Marx e  Federico Engels (che lo amavano moltissimo) hanno definito Dante l’ultimo degli antichi e il primo dei moderni, più esattamente: al tempo stesso l’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno. Definizione azzeccata, perché, in verità, nella complessa e straordinaria personalità del Poeta, vecchio e nuovo, antico e moderno convivono e senza fare tanto a pugni tra di loro. Dante appare antico quando lo vediamo difendere, sia nella Monarchia che nella Commedia, la convivenza ragionevole e solidale tra Impero e Papato per il bene dell’umanità ma, in effetti, lui era profondamente convinto che solo entità forti e sovranazionali potessero essere capaci di mantenere l’ordine, la pace, la prosperità e il benessere dei popoli. Egli si avvedeva, anche per esperienza diretta, di quante lacerazioni, di quanta violenza e di quante guerre anche fratricide fossero capaci di scatenare le nuove realtà nazionali o gli stessi Comuni. Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri si facevano guerra e anche la Chiesa era coinvolta in questi sanguinosi conflitti per l’egemonia ora di questo e poi di quel Comune. E la partigianeria e la faziosità politica era talmente giunta a disonestà e corruzione che, ad un certo punto, egli decise di scegliere la solitudine e di lasciare la cattiva schiera dei suoi compagni, la compagnia malvagia e scempia… tutta ingrata, tutta matta ed empia e di separarsi orgogliosamente da loro, sì c’ha te fia bello averti fatta parte per te stesso, come si legge nel canto XVII  del Paradiso per bocca del trisavolo Cacciaguida che gli predice l’esilio, a lui, appunto, autodefinitosi exul immeritus, florentinus natione non moribus (esule ingiustamente, fiorentino per nascita non per costumi di vita). Sia detto per inciso, il Poema Sacro potrebbe essere definito, fra l’altro, come una contina contestazione della realtà fiorentina, oltre che di quella in cui si trovava a vivere l’uomo su questo mondo: un mondo già hobbesiano, in cui a dominare era l’uomo-rapace, l’uomo-lupo-dell’altro-uomo (homo homini lupus) l’uomo che fa la guerra agli altri uomini (bellum omnium contra omnes) e che nel suo essere tale, cioè così aggressivo e bellicoso, rischia, alla fin fine, di distruggere persino se stesso insieme alla sua malvagità.

Dunque, per Dante il nuovo che avanzava non era affatto un progresso e un bene per l’umanità e, anzi, era l’inizio della fine di un mondo, una vera e propria catastrofe alla quale si accompagnava la distruzione e la fine dei veri valori attraverso l’affermazione della classe borghese, la gente nova con i suoi facili guadagni e i suoi pseudo-valori che, secolo dopo secolo, si sarebbero affermati e avrebbero avuto la meglio per sempre. Successo, denaro, profitto, ideologia della roba (come la chiamerà Verga nell’Ottocento), cupidigia e accumulo di beni materiali mentre i veri valori morali e spirituali andavano e andranno sempre più svalorizzandosi nelle società e civiltà borghesi che si affermavano nell’Occidente. Sarà, nell’Ottocento, cinque secoli dopo, il Marx dei Manoscritti parigini ovvero dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 a confermare la visione negativa di Dante e ad affermare, di fronte a una società capitalistica sempre più un immenso e mostruoso ammasso di merci, capace soltanto di generare alienazione e povertà umana e morale. Dante vedeva ogni giorno di più avanzare e prevalere, in ogni ambito sociale e nella stessa Chiesa, la valorizzazione del mondo delle cose, del denaro e dei beni materiali e, insomma, dell’economicismo a scapito dei veri valori più profondamente umani, morali e spirituali che dovrebbero essere alla base della nostra esistenza, con la funzione di renderci più giusti, più umani, più moralmente sani e, quindi, volti e tesi al bene universale.

Dante, a modo suo, anticonformista e uomo controcorrente lo è certamente stato e, di fronte a tanto sconvolgimento generale dei valori determinato dal mondo moderno, dalla Modernità (che è anche caos, disordine, entropia) che avanzava e che si sarebbe imposta nei secoli a venire, pensa di dare la sua urgente e dolente risposta alla pericolosa deriva, al Male che devastava Firenze come tutto il mondo con la parola poetica, con la scrittura e pensando, quindi, alla creazione di un’opera, la (Divina) Commedia, cioè a un progetto di salvezza per l’intera umanità. E questo perchè Dante crede nella forza, nella potenza della parola scritta e nella possibilità che un libro possa salvare il mondo, l’umanità, proprio come si propone di essere la Bibbia, che contiene il piano di salvezza di Dio attraverso Cristo. Diversamente dal pure profetico ma molto più pessimista Pasolini, Il Divino Poeta non ha cancellato la parola speranza dal proprio vocabolario e, infatti, anche se sotto forma di Sogno, di Utopia, spera tuttavia e nonostante tutto, e scrive un libro-visione, un libro-profezia per l’oggi e per il domani in cui dice che, se l’uomo vuole salvarsi, deve seguire i suoi consigli o altrimenti non resta che la grande provocazione letteraria di Italo Svevo (La coscienza di Zeno) secondo cui la salvezza del marcio pianeta Terra può realizzarsi soltanto quando l’uomo occhialuto, ovvero lo scienziato, costruirà nel suo laboratorio la più micidiale delle bombe e, salito sul punto centrale della Terra, la farà deflagrare: il mondo ritornerà alle sue origini, sotto forma di nebulosa, e poi sarà tutto da rifare e ricostruire. Come Svevo, anche Dante (sei secoli prima) comprende pienamente che il mondo e le società umane si fanno sempre più complesse e complicate e che la vita attuale è inquinata alle radici. Come Svevo, Dante vede e antevede, già prima dei poeti decadenti è poeta veggente che, grazie al terzo occhio della sensibilità artistica e poetica, vede una realtà (ed è quella vera!) che gli altri non vedono. La coscienza di Dante analizza la società in cui vive e ne coglie le contraddizioni, le incongruenze, le cose che non vanno, le ingiustizie, il prevalere del Male, ecc. e vorrebbe raddrizzare il tutto, vorrebbe che l’umanità uscisse dallo smarrimento nella selva oscura e si salvasse raggiungendo la Verità e la felicità terrena e spirituale, vorrebbe, insomma, porre un rimedio salvifico per l’oggi e per il domani. Come Svevo-Zeno, anche Dante direbbe che dalla nevrosi (il brutto rapporto che si può avere con la realtà esterna) non ci salva tanto la psicoanalisi quanto la penna, ovvero la scrittura, che è sempre terapeutica e liberatoria: fuori della penna non c’è salvezza. Analizzare il mondo, la realtà e scriverli, narrarli anche in maniera corrosiva e impietosa, mostrandoli così come sono, senza infingimenti, salva noi stessi e può salvare tutti gli altri, proprio in quanto si tratta di un invito a prendere coscienza e a fare una presa di coscienza generale sul mondo in cui viviamo e su cosa fare per cambiarlo o almeno migliorarlo. E lui si era ben avveduto che ormai da molto tempo, su questa Terra, l’uomo si era troppo assuefatto al Male, che era diventato normalità e che l’assuefazione al Male era (ed è…) il vero medioevo, la vera barbarie.

Se Dante può erroneamente apparire antimoderno in merito al corso della Storia e dei cambiamenti che la Storia impone, va detto con forza che la sua non era altro che un’analisi profonda e con lo sguardo diretto al futuro su quanto accadeva sotto i suoi occhi, proprio similmente all’analisi di altri antimoderni come, per es., Verga, Pasolini o Svevo che fecero analisi corrosive e spietate della società in cui vissero, senza sbagliare e, anzi, vedendo quello che gli altri non vedevano. Per tanti altri versi, Dante è di una modernità e di una attualità davvero spaventose, tanto che quel capolavoro assoluto che è la Divina Commedia sembra un testo uscito oggi nelle librerie, un testo che lancia all’umanità una sua gigantesca provocazione: leggetemi e vi salverete o altrimenti non farete altro che vivere nel peccato, nell’irresponsabilità e come bruti senza veri valori e principi in base ai quali informare la vostra esistenza, oggi miserabile sotto tutti i punti di vista.

Dunque, Dante è straordinariamente innovativo, moderno e la Commedia si potrebbe definire il primo romanzo della letteratura italiana moderna, ma anche della letteratura universale (secondo Michail Bachtin Dante è l’iniziatore della letteratura del Rinascimento).

Dante è moderno e innovativo, da avanguardia, non solo nell’ideazione della Commedia ma anche nel genere poesia come pochi altri. Basti pensare alla scuola poetica del Dolce Stil Novo, iniziata da Guido Guinizzelli e continuata soprattutto dal cenacolo toscano e cioè, appunto, da quella élite intellettuale costituita da Dante, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia, Gianni Alfani. Lo Stilnovo fu un vero e proprio movimento letterario d’avanguardia, che si distingueva dalle precedenti scuole poetiche appunto per la carica innovativa, per il modo assolutamente nuovo di fare poesia. I più innovativi furono Dante e il suo amico Guido Cavalcanti e ancora oggi la critica letteraria discute su chi sia stato più grande e innovativo dei due nell’ambito dello stilnovismo. Che Dante fosse innovativo con il suo modo di fare poesia ne era fieramente consapevole e, infatti, ecco come spiega al guittoniano Bonaggiunta Orbicciani da Lucca, nel canto XXIV del Purgatorio, la differenza fondamentale (il nodo) tra il modo di fare poesia delle scuole poetiche precedenti allo Stilnovo, sia quella Siciliana con Jacopo da Lentini (inventore del sonetto) che quella facente capo a Guittone d’Arezzo: I’ mi son un che, quando amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando. Dante è stilnovista anche nella Commedia, solo che qui la sua poesia diventa romanzo, una prosa mai disgiunta dal lirismo e, anzi, da tantissimi momenti lirici in cui a dominare sono le vette del sublime e dell’ineffabile. Soprattutto grazie a questo immortale romanzo, Dante è un classico praticamente da sette secoli, e Boccaccio è stato il primo a comprendere la classicità del Sommo Poeta, che aveva e avrebbe avuto molto da dire e da dare ai suoi contemporanei, poi a quelli che sono venuti nei successivi secoli e ancora a quelli che verranno nei secoli a venire. Non è un caso che Egli abbia sempre avuto una grande fortuna in ognuno dei sette secoli che si sono succeduti dopo la sua morte (soprattutto nell’800 e nel ‘900) e che sempre enorme è stata la sua influenza negli scrittori e nei poeti di ieri come di oggi e crediamo pure di domani, e non solo del nostro paese. Valga per tutti l’esempio dell’Antologia di Spoon River di  Edgar Lee Masters, dove si dà voce e si fanno parlare i morti dalle loro tombe. E questa è un’ulteriore dimostrazione dell’universalità di Dante.

La Comedìa (poi divina per felice idea di Giovanni Boccaccio, che fu anche tra i primissimi esegeti e pubblico lettore del capolavoro dantesco, di cui intuì pienamente la modernità), è un poema allegorico-didascalico che si presenta come un trattato, una summa, una sintesi del sapere, dello scibile umano dai tempi più remoti fino a quelli del Poeta. Commedia (canto del festino) e non tragedia (canto del capro) perchè la commedia inizia in maniera drammatica e finisce con il lieto fine; allegorico perché la Commedia è una continua allegoria, tutto o quasi tutto è simbolo di qualcosa o di qualcuno (l’allegoria, per Dante, è una veritade ascosa sotto bella menzogna, una verità nascosta sotto una bella metafora); didascalico (o didattico) in quanto vi è – anch’essa continua – la tensione di Dante al pedagogismo, all’insegnamento soprattutto morale e spirituale. La prima edizione a stampa è del 1472 mentre è nel 1555 che appare l’aggettivo divina nell’edizione veneziana a cura di Ludovico Dolce. Oltre 800 sono i codici, i manoscritti dell’opera, molti dei quali arricchiti da preziose miniature. Purtroppo, non è stato rintracciato nessun testo autografo del capolavoro come pure delle altre opere e, del resto, le stesse notizie su Dante e sulle sue opere non risultano precise, e i dantisti di tutti i tempi hanno dovuto molto faticare, non solo per commentare e decifrare i suoi versi spesso difficilissimi e da supplizio mentale, ma anche per stabilire e mettere a punto ora questo e ora quest’altro, tanta è la complessità della Commedia e della figura di Dante.

La narrazione dantesca è costituita di tre cantiche – Inferno, Purgatorio e Paradiso – e ogni cantica è composta di 33 canti: solo l’Inferno ne ha uno in più che fa da proemio. Come si può notare il numero 3 (con i suoi multipli) è il numero caro al Divino Poeta e non poteva essere diversamente visto che 3 è sinonimo della Trinità, di Dio uno e trino. Ma anche il 7 è importante nella numerologia dantesca: 7 sono i vizi capitali e 7 sono le virtù cardinali. Il tipo di versificazione utilizzata da Dante è l’endecasillabo (da lui definito superbissimum carmen), cioè il verso di undici sillabe, perfettamente a rima incatenata (ABA-BCB); e, così, si possono leggere migliaia di terzine la cui perfezione e bellezza restano ineguagliate. I versi del poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra (canto XXV del Paradiso) assommano, infatti, a ben 14.233!

La lingua che Dante sceglie per la Commedia (scelta felicissima e che costituisce un altro grande aspetto della sua modernità) è il volgare e non il latino, cioè il dialetto del latino che era emerso dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, che si stava sempre più perfezionando, con le sue diversità e particolarità regionali, e che Dante chiama la lingua del sì (dal modo di tradurre l’affermazione latina hoc est illud) e cioè quella che poi si chiamerà l’italiano, la lingua italiana. Si pensi al canto del conte Ugolino (XXXIII dell’Inferno) dove si legge la celebre invettiva: ahi Pisa, vituperio delle genti del bel paese dove il sì sona, cioè dove si parla la lingua del sì, cioè l’italiano. E l’italiano è la lingua della Divina Commedia e per questo Dante è il padre della lingua italiana, lingua che, nel capolavoro dantesco, è già quasi perfetta tanto che anche oggi è perfettamente comprensibile. Un italianofiorentino e toscano quello del poema sacro che, però, si avvale di diversi apporti linguistici delle altre realtà regionali dell’Italia (si pensi alla Scuola Siciliana) e anche di latinismi medievali e della classicità nonché di forestierismi. Dante è immenso anche nella lingua e, fedele alle sue teorie espresse nel De vulgari eloquentia, si avvale di tutta la ricchezza linguistica che il nostro paese offriva ai suoi tempi e crea anche dei neologismi (perché Dante è uno sperimentatore e con le parole ci gioca) come, per es., indiarsi (essere simili a Dio), inurbarsi (entrare in città), infuturarsi (prolungarsi nel futuro), imparadisare (innalzare alle gioie del paradiso), insemprarsi (durare per sempre), immegliarsi (diventare migliore) e potremmo continuare ancora per molto. Si tenga presente, infine, che tante espressioni, tanti modi di dire ancora oggi usati nel parlato quotidiano provengono dalla Divina Commedia: un esempio per tutti: l’espressione ironica star freschi la troviamo nel basso Inferno.

Insomma, Dante è un genio e rivela la sua genialità anche nella lingua, nel linguaggio che, nella Commedia, si adegua sempre al significato, al contenuto, alla materia trattata. Significato e significante viaggiano sempre di conserva e in perfetta sintonia. Diversamente da Petrarca che era monolinguista e monostilista, Dante è modernamente plurilinguista e pluristilista, cioè si avvaleva dell’utilizzo di più livelli o registri stilistici, linguistici ed espressivi. Proprio per poter adeguare il linguaggio alla materia trattata, Dante respinge lo stile elevato, aulico che implica l’uso di un altrettanto elevato linguaggio e, siccome per lui sarebbe stato un grande limite, finisce per optare e avvalersi dello stile comico in quanto riesce come a racchiudere, a inglobare tutti e tre gli stili: tragico, elevato o illustre proprio della tragedia, elegiaco, umile, basso, dimesso proprio dell’elegia e comico o medio o mediano proprio della commedia (e che è prevalente nell’Inferno). Una scelta felicissima in quanto gli consente quella pluralità di linguaggio e di sintassi da adeguare alla materia trattata che non gli può consentire il monolinguismo tanto caro al Petrarca (ma non a Boccaccio che, non a caso, è il primo grande estimatore ed esaltatore di Dante). Petrarca (e lo aveva certamente fatto notare all’amico Boccaccio nelle lunghe chiacchierate sulla grandezza di Dante) non avrebbe mai scritto in qualsiasi sua opera la parola merda e, invece, Dante la scrive più di una volta perché la materia trattata lo richiede. Si pensi ai versi in cui scrive: E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parea s’era laico o cherco (Inferno, canto XVIII), oppure a quelli in cui si legge: Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ‘l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia (Inferno, canto XXVIII). In quest’ultimo canto citato si legge anche un’altra espressione scurrile adatta al contenuto trattato che, un aristocratico intellettuale con la puzza al naso come Petrarca, non avrebbe mai neppure proferito: (…) rotto dal mento infin dove si trulla, cioè fino alla parte del corpo da dove si scorreggia. Trullare nell’italiano dei tempi di Dante (che era il dialetto del latino che andava sempre più raffinandosi e imponendo come lingua d’uso e anche letteraria) significava, appunto, emettere rumori sconci da una certa parte del nostro corpo… Ma Dante è così audace e capace di osare nell’uso del linguaggio e della lingua, fino alla mimesi del parlato popolare e anche il più plebeo, che non ci pensa due volte a dire che uno della sporca decina dei diavoli scorreggia sonoramente nella bolgia infernale (canto XXI): …ed elli avea del cul fatto trombetta.

Ricchezza di linguaggio e ricchezza di vocaboli, anche stranieri: pare che nella Commedia ci siano circa 28.000 vocaboli. Non a caso la Treccani, nel 2005, ha pubblicato l’Enciclopedia Dantesca in 16 volumi, che io  possiedo tra i miei libri, e posso dire che è qualcosa di immenso e di straordinario: si tratta di una vera e propria enciclopedia culturale in cui è racchiuso tutto il sapere accumulato da Dante e ben custodito nella sua eccezionale memoria, lui che nel Paradiso (canto V) fa dire a Beatrice chè non fa scienza, sanza lo ritenere, avere inteso.

Dunque, la preziosa immensa e inesauribile miniera della Commedia come un trattato, una summa, una sintesi dello scibile umano ma non è solo questo. La Divina Commedia è come la Bibbia ma è ancora più bella della Bibbia, primo grande progetto di salvezza per l’umanità. Come la Bibbia, anche dell’opera immortale di Dante si possono fare diverse letture attraverso i famosi quattro livelli interpretativi o di senso o di significato: il senso letterale (si coglie il significato dalla semplice e immediata lettura del testo); il senso allegorico o simbolico (si cercano altri significati dell’opera sotto la lettera, rintracciando ogni metafora, allegoria, mito e quant’altro); il senso morale (riguarda la funzione di insegnamento che sottente qualcosa o qualcuno e, quindi, importante per il nostro comportamento, per il nostro operare); il senso anagogico (ovvero il significato spirituale di qualcosa o qualcuno, il ricondurre le cose terrene a quelle divine, verso cui tendere; il voler trovare e scoprire nella lettera il significato spirituale, mistico istituendo una sorta di paragone). A questi quattro livelli di significato, bisogna aggiungere quello figurale, secondo l’analisi, l’interpretazione, appunto, figurale, effettuata dal grande critico tedesco Erich Auerbach sul polisemico e spaventosamente realistico capolavoro (Studi su Dante). Secondo tale livello di interpretazione, anch’esso applicabile alle Sacre Scritture, la figura è un fatto storico, un personaggio, qualcosa che anticipa e prefigura ciò che poi si realizzerà e avrà il suo compimento: L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo. Per es., l’esodo degli Ebrei dall’Egitto (Vecchio Testamento) è un fatto storico che è figura, cioè prefigura la liberazione dei cristiani dal peccato per opera di Gesù (Nuovo Testamento), che ne è l’adempimento, il compimento. Auerbach (che ha giustamente definito Dante poeta del mondo terreno) ha anche, giustamente e per l’appunto, fatto notare che la Divina Commedia si può leggere come la Bibbia e che, come la Bibbia, può essere letta anche da un bambino, come se leggesse una immensa fiaba. Non dimentichiamo che la Commedia va vista, inquadrata nella prospettiva, nella visione provvidenzialistica della Storia, per cui (come sarà per Manzoni) Dio ha un suo piano, un disegno imperscrutabile per l’umanità finalizzato alla realizzazione del Bene.

La Divina Commedia è tutto questo ma anche altro. La potremmo definire, innanzitutto, un’enorme, gigantesca contestazione della realtà e del mondo, in cui l’autore si è trovato a vivere, attraverso una narrazione assolutamente fantasiosa. Ma Dante finge il viaggio fantasioso nell’Aldilà per parlare dell’Aldiquà e contestarlo impietosamente. Apparentemente, la Commedia appare come una grande evasione dalla realtà, ma non è così.

La Divina Commedia è stata definita, da alcuni, un itinerario della mente verso Dio, tipico della mentalità religiosa medievale (famoso è l’Itinerarium mentis in deum di San Bonaventura da Bagnoregio) ma, in verità, è un vero e proprio assalto al cielo (direbbe Marx) per conquistare un paradiso impossibile sulla terra, per conquistare uno stato di beatitudine e di perfezione che, in un mondo così prosaico e impoetico, in cui l’uomo non è come fine ma come mero vile mezzo (direbbe Kant) non sarà mai possibile realizzare. E per questo la Commedia è un Sogno, un’Utopia: il Sogno e l’Utopia di un altro mondo, diverso, migliore, con una umanità in cui la dicotomia di Fromm su essere o avere, non dovrebbe avere alcun senso perché quel tipo di umanità ha scelto decisamente di essere e non di avere, di creare un mondo in cui a prevalere sia l’amore e non la cattiveria (sotto varie forme) che scaturisce dal fare del denaro e dell’avere delle divinità e, insomma, gli unici valori e ideali per cui vivere e morire.

La Divina Commedia, dunque, è una Profezia, una Visione, un Sogno, un’Utopia, un grandioso piano o progetto di salvezza simile, se non superiore, a quello della Bibbia, con cui Dante intende, appunto, rifare, rifondare, ricostruire un mondo che, se pur creato da Dio, vede irrimediabilmente alla rovescia, precipitare nel baratro del Peccato e della Corruzione perché gli uomini stanno perdendo un po’ tutti il ben dell’intelletto (cioè la Ragione e soprattutto Dio che è Amore), fanno sempre più prevalere l’avere sull’essere, inseguendo il dio denaro, le effimere attrazioni terrestri; la Chiesa è corrotta e pensa più ai beni terreni che a quelli spirituali e, insomma, un nuovo distruttivo neopaganesimo sta dilagando nel mondo e se non si cambia rotta è la fine di tutto. Dante vede dinanzi a sé la catastrofe, la fine del mondo e vuole porvi rimedio. Dante – per il quale la vita è impegno, è missione – vuole salvare non solo il nostro paese guasto ma il mondo intero e intende farlo con un libro! Potenza della Parola! Anche Cristo aveva provato a salvare il mondo attraverso la sola forza della Parola e della sua predicazione fatta di parole. Così, da autore-narratore-personaggio-protagonista, a un certo punto della sua dolorosa e problematica esistenza, immagina di compiere un folle viaggio, sì perché il folle volo di Ulisse lo sperimenta mentalmente anche Dante in quanto, con la sua Commedia, compie un viaggio oltre le Colonne d’Ercole, oltre i limiti consentiti alla mente umana. Un viaggio attraverso i tre Regni dell’Oltretomba che racconta con un realismo così convincente e coinvolgente che, a te che leggi, pare di toccare con mano quello che viene narrato e descritto e di essere persino dentro la storia, una storia infinita di fatti e di esistenze, di uomini e di donne che, più che anime, sembrano in carne ed ossa e le pene, i martiri, le sofferenze non sembrano affatto subìte da anime vaganti nell’aldilà ma da corpi e da carne viva. La pena inflitta in eterno alle anime dannate avviene secondo la legge del contrappasso: da contra pati, cioè contropatire, patire, soffrire, pagare secondo quello che si è commesso. Si tratta della biblica legge del taglione e dell’occhio per occhio, dente per dente e può essere per analogia o per contrasto o contrapposizione. Per questo suo straordinario e particolare modo di procedere nella narrazione, Dante ci appare, dunque, più poeta del mondo terreno che non poeta del mondo ultraterreno e la sua Commedia una commedia umana più che una commedia delle anime. E dentro ci sono gli uomini di ieri e di oggi e forse anche di domani, ci sono tutti i tipi umani, tutte le passioni, tutti i vizi, tutte le debolezze (ma anche le virtù) tanto che si riesce a comprendere bene di che pasta è fatto l’essere umano, quell’entità chiamato uomo che, il più delle volte, fatichi a chiamarlo così e a vederlo come tuo simile, tu che ti sforzi di stare su questo mondo da essere umano e non da bestia, da bruto.

Dunque, Dante si pone a simbolo e a guida dell’umanità peccatrice (umanità di cui avverte e carica su di sé tutto il dolore del mondo, quella che il poeta tedesco Jean Paul ha chiamato Weltschmerz) e dice al lettore-umanità di seguirlo in questo suo fantasioso viaggio ultraterreno (che lui presenta come realmente avvenuto) perché così potrà prendere cognizione diretta di come sia facile smarrirsi, cadere nel peccato e nella perdizione spirituale e morale (la selva oscura), quando non si è guidati dalla Ragione (politicamente dall’Impero) e dalla Fede (spiritualmente dalla Chiesa, dal Papato). Il sonno della ragione genera mostri, sembra dirci Dante anticipando di qualche secolo Francisco Goya; se, però, siamo guidati da queste due grandi forze, possiamo evitare di smarrirci e perdere la nostra anima e giungere alla beatitudine e addirittura alla visione di Dio. Virgilio, Beatrice e San Bernardo di Chiaravalle saranno le sue guide in questo straordinario viaggio intorno all’Oltremondo in sette giorni. In ogni pagina della Commedia e soprattutto nell’Inferno, Dante sembra dire: la Terra potrebbe essere un paradiso ma quel legno storto che è l’uomo fa di tutto per renderlo un inferno; basterebbe seguire la Ragione e la Fede, essere guidati dall’Impero (felicità terrena) e dalla Chiesa (felicità spirituale) e tutti potremmo essere più felici, più umani, ridurre al minimo la presenza dell’uomo-feccia  e invece

Il viaggio ultraterreno di Dante si potrebbe anche definire un grandioso reportage di un grande inviato speciale (inviato da Dio!) che ci fa conoscere realtà e uomini di un altro mondo, un mondo ignoto, extraterrestre, realizzando (con la curiosità del  giornalista di razza) scene da docu-film, interviste memorabili e, insomma, documenti e testimonianze imperdibili e, quindi, da conservare nelle teche e nelle emeroteche come un tesoro prezioso.

La Divina Commedia è tutto quello che finora si è detto e, infine (last but not least) può essere considerata anche un’immensa esplorazione, a 360 gradi, dell’anima umana, della coscienza dell’uomo, un viaggio nel suo cuore e nella sua mente per sondare quanto egli possa essere capace di Bene e di Male su questa Terra.  Un’esplorazione nelle profondità e nei meandri della psiche umana, in cui l’uomo racchiude, come ci ha insegnato Sigmund Freud, anche gli aspetti peggiori e inconfessabili che, in genere, rimuoviamo e releghiamo nell’inconscio. E Dante, nella sua straordinaria immersione negli abissi del cuore e della mente dell’uomo, realizza anche l’intento di scuotere sia l’inconscio e la cattiva coscienza dei dannati che quelli di chi legge il suo capolavoro. Nella Divina Commedia, insomma, l’uomo si può specchiare, si può guardare come in uno specchio, si può guardare in faccia e, alla fine, deve tirare le somme e confessare a quale categoria umana, a quale razza di individuo egli appartiene.

Il folle viaggio del viandante, del pellegrino Dante-umanità si svolge (nella finzione letteraria) in una sola settimana, dalla notte tra giovedì e venerdì santo del 7/8 aprile (giorno della morte di Gesù, ovvero il 25 marzo) a quella tra il 14/15 aprile del 1300, anno del primo Giubileo o Anno Santo (con tanto di indulgenza plenaria e di remissione dei peccati) indetto da Bonifacio VIII, papa troppo politico e troppo avido di beni terreni e pertanto poco amato dal Poeta. La scrittura della Commedia inizia probabilmente nel 1304, dopo l’ingiusta, infamante e umiliante condanna all’esilio e alla confisca dei beni per baratteria, (che è, praticamente, l’equivalente di quelle che oggi chiamiamo corruzione, concussione, peculato), e termina praticamente con la sua morte, avvenuta a Ravenna. Dante non avrebbe mai perdonato ai fiorentini quella condanna che ne fece un uomo amareggiato e risentito a vita e, certamente, la Commedia fu anche se non soprattutto il frutto di questo forte risentimento e anche lo strumento per potersi vendicare e dire la sua su tanti personaggi fiorentini e toscani protagonisti di fatti e imprese malvagie ed empie, molti dei veri e propri criminali che, se ebbero la fortuna di non subire pene sulla terra, meritavano certamente di essere condannati alle pene infernali più severe, più umilianti e più dure da quel Tribunale Morale che è la Letteratura.

Dopo sette secoli crediamo che si possa dare una risposta all’atroce dubbio posto da Antonello Venditti nella sua canzone Compagno di scuola (1975) ladovve lamenta che dalla lettura in classe non aveva ancora capito bene che tipo di uomo e di intellettuale fosse stato Dante: E la Divina Commedia, sempre più commedia al punto che ancora oggi io non so se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito. Ebbene, Dante non fu certo un fallito e non fu neppure un servo di partito:  fu certamente un uomo libero, tanto libero da separarsi, a un certo punto, dai suoi scellerati compagni di fazione e di preferire l’esilio a vita e anche la morte piuttosto che un umiliante e disonorevole patteggiamento per poter ritornare nella sua amata-odiata Firenze. Fu un uomo libero e coerente, di altissima levatura morale e intellettuale e, certamente, non un opportunista e un voltagabbana; e, quando si è coerenti, si è disposti a pagare dei prezzi anche altissimi per le proprie scelte di vita. E lui le ha pagate fino in fondo e, nel romanzo della Commedia, lo dice più di una volta. Ha tanto pagato e sofferto per la sua Verità, per le sue idee, per l’eccessivo amore per gli uomini, per il loro bene, la loro felicità, la loro salvezza terrena, morale e spirituale in opposizione a un mondo cieco, corrotto e incapace di vero amore, tanto che qualcuno lo ha definito il quarto Cristo (Pasolini sarà poi definito il quinto): dopo Socrate, Cristo e San Francesco. (2- Continua)