Trebisacce-30/06/2021: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Salvatore La Moglie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del quinto canto-capitolo dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato da Setteponti di Arezzo

 

Il quinto canto-capitolo, ovvero il canto di Francesca da Rimini. Dal Limbo al secondo cerchio dei lussuriosi, ovvero nel mondo dell’Incontinenza. Minosse, orribile guardiano infernale, giudica e manda secondo ch’avvinghia. Pathos, pietas, empatia, umanità e modernità nel canto di Francesca da Rimini, femminista ante litteram, vittima di un feroce femminicidio o, se si vuole, di un delitto passionale.

 

Dante e Virgilio sono entrati nel mondo dell’Incontinenza, nel secondo cerchio, il cerchio dove sono puniti i lussuriosi che hanno fatto prevalere il piacere sessuale, fisico anzichè la ragione (i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento) e dove a fare da orribile guardiano-giudice infernale è Minosse, mitico re di Creta, con fama di essere severo nell’amministrazione della giustizia, che viene da Dante trasformato in un demonio terrificante mostruoso e animalesco (una specie di leone)  che, dopo aver ascoltato e brevemente esaminato le colpe del dannato (l’anima malnata), lo destina nel cerchio e nel girone o bolgia che secondo lui merita, e lo fa in base a quante volte fa girare la propria coda intorno al corpo della sventurata anima peccatrice (dicono e odono, e poi son giù volte, cioè scaraventate, precipitate): Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men luogo cigna, e tanto più dolor, che punge a guaio. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe nell’entrata; giudica e manda secondo ch’avvinghia. Dico che quando l’anima malnata li vien dinanzi tutta si confessa; e quel conoscitor delle peccata vede qual luogo d’inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa. Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: vanno a vicenda ciascuno al giudizio; dicono e odono, e poi son giù volte.

Fanno notare efficacemente Aldo Vallone e Luigi Scorrano nella loro esegesi della Commedia (Ferraro, 2003) che ciò che di orribile è in Minosse non è il ringhio, elemento spaventoso ma aggiuntivo, ma la sua paurosa consistenza di robot giudicante. Insomma, Minosse è rappresentato da Dante in maniera alquanto grottesca ma, nel suo modo di essere tra il grottesco e il mostruoso, il guardianogiudice del secondo cerchio ci prova pure lui a intimorire Dante, al quale così si rivolge minacciosamente: “O tu che vieni al doloroso ospizio”, disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l’atto di cotanto offizio (e qui l’ironia di Dante è davvero sottile: in effetti, si tratta della somministrazione di una giustizia alquanto sommaria e sbrigativa, da tribunale sovietico al servizio delle purghe staliniane nei processi contro i suoi oppositori, verrebbe da dire…). Minosse prosegue urlando per spaventare Dante e convincerlo a desistere dalla folle impresa del viaggio nei tre Regni dell’Oltretomba e lo fa insinuando il dubbio: guarda com’entri e di cui tu ti fide; non t’inganni l’ampiezza dell’entrare: tu che sei venuto in questo luogo di dolore, che è l’inferno, rifletti bene a come stai entrando, di colui di cui ti fidi (cioè di Virgilio) e non lasciarti ingannare dalla facilità con cui finora hai fatto questo percorso. Ma Virgilio, che ha capito benissimo dove il demoniaco custode infernale vuole andare a parare, lo azzittisce prontamente dicendogli che è inutile gridare (perchè pur gride?) e spaventare Dante cercando di farlo recedere dal suo viaggio perché questo viaggio è voluto dal fato (fatale), da Dio, e dice le stesse cose che ha detto a Caronte: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare.

Superato facilmente l’ostacolo Minosse e messo subito alle spalle, l’empatico Dante deve constatare che è da quel momento in poi che iniziano le vere note dolenti, perché incomincia a sentire urla di dolore  e di pianto che provocano in lui pathos, pietas, turbamento interiore, angoscia e smarrimento (ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote). Il tormento dei peccatori diventa (come tante altre volte) tormento psico-fisico per il Poeta, che avverte su di sé il dolore del mondo, il dolore di tutti gli uomini, perché Dante è sì Dante  ma è anche tutti quanti gli uomini, tutta quanta l’umanità. Il Divino Poeta sembra anticipare di quasi tre secoli il pensiero di John Donne, poeta metafisico contemporaneo di Shakespeare che, in un suo celebre scritto ammonisce l’uomo a non sentirsi un’isola completo in sé e a sentirsi, invece, un tutt’uno con l’intera umanità, tanto che quando muore un uomo è come se morisse lui stesso e la campana è come se suonasse per lui: Nessun uomo è un’isola completo in sé, ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se l’onda del mare portasse via una zolla l’Europa ne sarebbe diminuita, così come se portassero via un promontorio o una magione amica o la tua stessa casa. La morte di ogni uomo mi diminuisce perché io partecipo dell’umanità, e allora non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te.

Dante prosegue nella sua riflessione dicendo di essere arrivato in luogo d’ogne luce muto (l’Inferno è privo di luce, è sempre spaventosamente buio) e, sinesteticamente, fa notare che in quel momento, in quel luogo, c’è un forte e rumoroso vento (che mugghia come mar fa per tempesta, se da contrari venti è combattuto), anzi una bufera inarrestabile, eterna (la bufera infernal che mai non resta) che trascina e travolge le anime con la sua rovinosa potenza, li fa spostare di qua e di là e le percuote e tormenta (mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta): sembra la scena paurosa di una tempesta in pieno mare, con i naviganti che sono violentemente sbattuti da una parte all’altra della nave e vorrebbero trovare scampo e salvezza. Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina: quando quelle anime si ritrovano davanti alla ruina, cioè sul luogo rovinoso ovvero franoso e roccioso dove si è generata l’eterna bufera infernale e, quindi, il luogo della loro eterna punizione, ebbene è allora che si sentono grida di dolore, lamenti e pianto collettivo, comune, che si cerca di sfogare bestemmiando Dio che li ha puniti e li fa soffrire così tanto. La legge del contrappasso (per analogia) viene applicata così per questi peccatori: come in vita si lasciarono travolgere dalla passione, adesso, nell’inferno, sono puniti con una bufera infernal che mai non resta, che li sbatte e li trascina da una parte all’altra e non dà loro tregua e pace.

Dante comprende che a un così fatto tormento sono dannati i lussuriosi, i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento: sono stati incontinenti (il peccato di incontinenza carnale) hanno preferito il piacere sessuale sfrenato, la più estrema passione amorosa e, insomma, i sensi e gli istinti a una vita secondo ragione. Sigmund Freud parlerebbe probabilmente di eccesso di libido e di eccesso del principio di piacere e anche di esplosione dell’inconscio (per cui vengono realizzati desideri sessuali proibiti, quelli più inconfessabili) ma, per il severo Dante, era di importanza capitale vivere una vita fondata sulla ragione, su sani valori e principi e non secondo i bassi piaceri e le basse passioni e, insomma, come i bruti. Non solo nella Commedia (fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza, fa dire a Ulisse, mentre nel canto V del Paradiso afferma perentorio: uomini siate, e non pecore matte), ma anche nelle altre opere il Poeta scrive che (si veda il Convivio) per gli uomini, vivere è ragione usare. Infine, nella Vita Nuova, riferendosi all’amore per la sua donna amata, cioè Beatrice, scrive: …E ricordandomi di lei secondo l’ordine del tempo passato, lo mio core cominciò dolorosamente a pentere de lo desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione. Riflessione dantesca che, nel Novecento, sarà fatta propria da un grande scrittore come Vasco Pratolini, che intitolerà un suo famoso romanzo La costanza della ragione, prendendo spunto proprio dal pensiero di Dante.

Con due stupende similitudini, il Poeta introduce quindi il lettore alle anime dei lussuriosi travolte, tormentate e sbattute di qua e di là, da ogni parte dalla bufera che mai si ferma: E come li stornei ne portan l’ali nel freddo tempo a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali: di qua, di là, di giù, di su li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa ma di minor pena: i dannati sono paragonati agli stornelli che, nella stagione fredda, sono portati, numerosi, dalle loro ali, in ogni parte, in tutte le direzioni; e questi peccatori non hanno nessuna speranza che possa confortarli, neppure di una pausa, di una cessazione della pena o di una minore a quella a cui sono stati condannati. Nella seconda similitudine i versi lamentosi e sgradevoli delle gru che si lanciano in volo formando una lunga fila, vengono paragonati ai lamenti, alle voci di dolore che emettono i dannati trasportati, trascinati e sospinti dalla bufera: E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vidi venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga.

Dante è curioso di sapere chi sono quei dannati (quelle genti) puniti e tormentati in tal modo nell’atmosfera buia (aura nera) dell’inferno. Virgilio gli risponde che la prima di quelle anime che si trovano di fronte a loro è quella di Semiramide, regina degli Assiri, che governò popoli di diverse lingue (imperadrice di molte favelle) e che a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fe’ licito in sua legge per torre il biasmo in cui era condotta: una donna così disonesta, corrotta, sfrenata e spudorata che, per poter dare sfogo ai suoi irrefrenabili istinti, fece carte false: fece, cioè, una legge in cui rendeva legali, e quindi non puniti, anche i rapporti sessuali tra consanguinei, e cioè legalizzava l’incesto, visto che lei aveva una scellerata passione per suo figlio. In tal modo, liberava la sua persona da ogni pubblico biasimo… Come dire: fatelo pure voi!

Dopo Semirade ci sono Didone (che, dimenticando presto il proprio marito defunto, amò Enea), Cleopatra (donna di grande fascino e bellezza, amante di Cesare e Antonio), Elena di Trioia, femme fatale, e subito anche Achille, Paride, Tristano e più di mille ombre ancora che Virgilio mostra e indica a un Dante sempre più sorpreso di vedere quanta gente era stata travolta e annientata, anche violentemente, dai sensi e dalla passione amorosa (ch’amor di nostra vita dipartille). E mentre il dottore cita le donne antiche e’ cavalieri, l’empatico Dante è preso da pietà (pietà mi giunse) ed è così commosso e interiormente turbato e inquieto da sentirsi smarrito (e fui quasi smarrito) al pensiero della sofferenza di quelle anime peccatrici: Dante, come tante altre volte, soffre nel veder soffrire i suoi simili, carica su di sé il dolore e la sofferenza degli altri.

Intanto, il Poeta si avvede che due anime si avvicinano verso di loro velocemente e con leggerezza, nonostante il vento travolgente: Dante esprime a Virgilio il desiderio di parlare con loro, ma in verità vuol far conoscere al mondo il racconto della loro passione che, più che un tradimento, appare come una sublime storia d’amore spenta violentemente nel sangue da chi non sa amare e non sa cos’è l’amore: Poeta, volentieri parlerei a quei due che ‘nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri. Virgilio gli dice: sarà possibile parlare con loro quando saranno più vicini e, loro, in nome del loro amore (per quello amore che i mena), saranno disposti a parlare con te. Così, Dante si rivolge alle due anime affannate (in quanto tormentate dalla bufera infernale) e le invita a colloquiare con loro, se non ci sono impedimenti divini (venite a noi parlar, s’altri nol niega!). Segue una di quelle similitudini che ti restano scolpite a vita nella mente e nel cuore: Quali colombe, dal disio chiamate, con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’aere maligno, si forte fu l’affettuoso grido.

L’affettuoso richiamo (grido) del Poeta è tale da non far aver alcun indugio ai due peccatori nell’andare verso i due viandanti e parlare con loro. Fa notare il Sapegno che i due peccatori vanno uniti e si concedono docili al vento, perché in essi sopravvive, e li domina… in maggior misura, la passione alla quale cedettero da vivi: amore che li precipitò in una colpa comune, li guida ancora e li tiene avvinti in un comune tormento e, pertanto, il contrappasso, per loro, sarebbe applicato in maniera più severa, sarebbe, insomma, un aggravamento della pena e, questo, secondo anche altri antichi commentatori di Dante (Landino e Vellutello) che hanno fatto risaltare il fatto che i due amanti erano cognati. In verità, più che un aggravamento della pena a noi pare un alleviamento: soffrono sì, ma insieme, tenendosi per mano. Pensate se, invece, Dante li avesse separati: l’uno avrebbe sofferto ancor di più al pensiero di non sapere in quale parte l’altra si trovasse e viceversa. Invece, Dante li fa stare insieme proprio come  a voler giustificare e ribadire la forza del loro amore anche nel dolore dell’inferno; un amore così grande e così forte che appare più forte della morte e che continua anche dopo, nell’Aldilà.

Francesca da Rimini (un’adolescente poco più di 16 anni) detta così per via del suo matrimonio con Gianciotto (lo sciancato, lo zoppo: ciotto, nell’italiano antico, significa, appunto, zoppo) dei Malatesta, Signore di Rimini, era figlia di Guido da Polenta, Signore di Ravenna. In breve, le due potenti famiglie di Romagna hanno deciso di combinare un matrimonio politico e di interesse ma, pare che (secondo una certa versione del romanzo di Paolo e Francesca) quest’ultima sia stata ingannata e, invece, di essere destinata sposa al bello e affascinante Paolo, si trova sull’altare (e non potè rinunciare!) proprio lui, Gianciotto, lo sciancato, il deforme e, insomma, per nulla bello e affascinante. Costretta suo malgrado a quell’infelice matrimonio, Francesca, tuttavia, non riuscirà a non farsi travolgere dalla passione incestuosa per il bel cognato Paolo, che avrebbe dovuto essere il vero compagno della sua vita. Francesca è infelice con Gianciotto e, pertanto, non vuole rinunciare alla felicità che può avere anche per poche ore o momenti con l’uomo che ama veramente, nonostante sia consapevole di tradire il marito. Anche Paolo, dal canto suo, non riesce a rinunciare a questa felicità nonostante sia consapevole di tradire il fratello. Tradimento sì, però, se fosse vero che Francesca era stata ingannata in merito al suo matrimonio trovandosi nel talamo il poco piacevole Gianciotto, bisognerebbe dire che, in verità, si tratta di un tradimento a metà e anzi di nessun tradimento in quanto per ragion di Stato, per ragion politica si è trovata costretta a subire. Ma l’amore, quello vero, non può subire costrizioni e impedimenti e, dunque, trova, in qualsiasi modo, la via per realizzarsi. Del resto, secondo la (moderna!) poetica dell’amor cortese, il vero amore non era quello matrimoniale, frutto di un contratto, di un legame imposto ai due sposi per motivi di interesse politico o economico, ma era quello extramatrimoniale, quello adulterino, quello tra due amanti che si amano disinteressatamente e non giaccono nello stesso letto perché costretti dalle rispettive famiglie. Sia detto per inciso, Dante stesso era stato destinato a un matrimonio combinato con Gemma Donati ma, a tener desta la sua attenzione, erano state altre donne e, sopra tutte, Beatrice, donna certamente idealizzata e spiritualizzata, ma forse anche fisicamente desiderata.

Nella Commedia la versione seguita sulla coppia Paolo-Francesca è quella del tradimento bello e buono, tuttavia Dante, con sensibilità moderna, dà a lungo la parola a Francesca e ne fa una sorta di femminista ante litteram che difende a spada tratta il proprio amore per Paolo, spento brutalmente e violentemente da Gianciotto, tanto che ‘l modo ancor m’offende, in quanto l’uomo – avvertito da qualcuno  –  si avvia al castello e, senza chiedere spiegazioni, senza proferire parola, brandisce la spada e uccide i due amanti senza alcuna pietà, senza concedere loro anche un minimo accenno di pentimento.

Dunque, Francesca vuole parlare con Dante, che definisce animal grazioso e benigno (cortese e benevolo) che va camminando per l’aere perso (oscuro) dell’inferno; aggiunge una sorta di benedizione per il poeta dicendogli che noi che tignemmo il mondo di sanguigno (provocammo spargimento di sangue per la nostra passione), se avessimo dalla nostra parte Dio (se fosse amico il re dell’universo) lo pregheremmo per la tua pace e serenità, visto che hai così tanta pietà e compassione per il nostro peccato, per la nostra perversione (il nostro mal perverso).  Di tutto quello che volete sentire e parlare (di quel che udire e che parlar vi piace) sarete accontentati: ascolteremo e parleremo con voi (noi udiremo e parleremo a vui), mentre che ‘l vento, come fa, si tace: Dio concede una pausa alla bufera infernal che mai non resta e il dialogo tra Dante e Francesca potrà avvenire senza l’interferenza fastidiosa del vento. Francesca dice: parleremo ma, in realtà, è solo lei a parlare: Paolo, se ne sta lì ad ascoltare in silenzio, a soffrire e a piangere su ciò che è stato o che poteva essere “se”…

Dopo aver informato Dante sulle sue origini e cioè Ravenna sulla costa romagnola (siede la terra dove nata fui su la marina dove ‘l Po discende per aver pace co’ seguaci sui, cioè con i suoi affluenti), Francesca incomincia il suo doloroso, commovente e struggente racconto della sua storia d’amore con Paolo e lo fa secondo i canoni della poetica dell’amor cortese ma anche stilnovista, poetica che ha al suo centro e, anzi, come alfa e omega, l’Amore e la Gentilezza: Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui della bella persona che mi fu tolta, e ‘l modo ancor m’offende. Amor ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense”.

Queste parole da loro ci fur porte, conclude Dante ma, si è già detto, a parlare è sempre e solo Francesca: Dante, probabilmente, vuol dire che a parlare è Francesca che si fa portavoce del pensiero di Paolo il quale, se parlasse, direbbe, evidentemente, le stesse cose. Spiega, dunque, Francesca che l’Amore, che mette subito radici in un cuore nobile, attrasse, fece innamorare immediatamente Paolo della mia bellezza fisica, del mio corpo che mi è stato tolto in una maniera così brutale e spietata che tuttora mi offende, colpisce, danneggia, in quanto non mi ha dato neppure il tempo per poter dare delle spiegazioni e per esprimere un pentimento che non mi avrebbe dannata per l’eternità. L’Amore, che a chi ama concede sempre di essere a sua volta riamato, mi attrasse, mi fece innamorare così tanto di Paolo (costui) e, come puoi vedere, questo amore dura ancora e Paolo è qui insieme a me. L’Amore ci ha condotto ad un’unica, medesima morte (trafitti da Gianciotto nello stesso giorno e solo un momento dopo): però Caina (la zona del nono cerchio dove si trovano i traditori dei parenti) attende colui (Gianciotto, morto nel 1304) che ci ha uccisi così vilmente, che ci ha tolto la vita a tradimento (chi a vita ci spense): sottinteso: impedendoci di continuare ad essere felici sulla terra. Non a caso, più avanti, Francesca parlerà della felicità.

Dopo questa prima parte della narrazione del romanzo di Paolo e Francesca, l’empatico, turbato e inquieto Dante, nell’ascoltare quelle anime così tormentate e sofferenti (quell’anime offense), si mette a pensare a quel dolore, si immedesima nei due spiriti dolenti  e abbassa il viso così tanto che Virgilio gli chiede a cosa stia, appunto, pensando. Gli risponde: Oh lasso, quanti dolci pensier quanto disio menò costoro al doloroso passo! Ohimè, dice Dante, chissà quanti e quali dolcissimi pensieri e quanta passione, desiderio e fatale attrazione ha portato i due innamorati al doloroso passo, all’esito del peccato, della morte violenta e poi della punizione divina.  Quindi, il Poeta si rivolge alle due anime (mi rivolsi a loro) ma in effetti a Francesca, alla quale, dopo aver espresso la propria pietà e il proprio dolore per le sue sofferenze (i tuoi martiri a lacrimar mi fanno tristo e pio) domanda (da quel grande curioso che è e grande esploratore dell’animo umano): spiegami, nel momento dell’innamoramento, fatto di sospiri e di pensieri (ma dimmi, al tempo dei dolci sospiri), come è avvenuto, in base a quali indizi avete capito che vi desideravate e che Amore era favorevole a permettere che i vostri dubbi, i vostri incerti desideri si palesassero tanto da rendervene certi e, insomma, com’è avvenuto il momento della reciproca attrazione (fatale…): a che e come concedette Amore che conosceste i dubbiosi disiri? Francesca gli risponde citando Virgilio (il tuo dottore), cioè uno dei grandi maestri di pensiero di Dante: Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore: Virgilio conosce il dolore di Didone dopo la partenza di Enea (tanto da uccidersi) con cui era stata felice e Virgilio conosce il dolore di essere un’anima dolente nel Limbo, lui che in vita ha conosciuto onori e gloria. Insomma, quando si cade in una condizione di infelicità (anche morale), ricordare i momenti di felicità è davvero molto doloroso… Comunque, prosegue Francesca, visto che tu ci tieni tanto, mostri così tanto desiderio di conoscere la causa, l’origine del nostro amore (ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto), ebbene ti racconterò tutto, parlando e piangendo allo stesso tempo (dirò come colui che piange e dice: il conte Ugolino dirà, molto più avanti: parlar e lacrimar vedrai inseme): Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse: soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante.

Ecco come Amore può favorire e scatenare i sentimenti, l’attrazione, il desiderio, la passione, eccitare i sensi e portare alla realizzazione di quelli che prima erano soltanto pensieri e desideri… La lettura di un libro è stata galeotta, è stata pericolosa, è stata la causa della loro tragedia!… Un giorno leggevano, per puro piacere, un romanzo del ciclo di Artù, in cui si raccontava di come Lancillotto del Lago (celebre cavaliere della Tavola Rotonda, tanto tenuto in conto da re Artù) fosse stato preso dalla passione per la regina Ginevra, moglie del re. Erano soli e non sospettavano quel che poi avvenne (che qualcuno potesse spiarli per poi correre da Gianciotto, che, probabilmente, faceva spiare i due amanti, e metterlo sul chi vive e, quindi, compiere la sua spietata vendetta). Più volte la lettura di quel romanzo fece incontrare i loro occhi che li rendevano sempre più consapevoli della loro (fatale…) attrazione, del grande desiderio che i due corpi provavano l’uno per l’altro, e li fece impallidire… È il pallore della passione che sembra quasi farci svenire dal piacere e, nel caso di Paolo e Francesca, c’è in più la consapevolezza che non si tratta di una passione scaturita da una relazione normale ma di un amore rubato, un amore impossibile e, questa consapevolezza, rende ancor più struggente quel desiderio e quella passione che genera pallore sul volto dei due amanti. E il passo, il brano che fece crollare ogni resistenza e condusse i due ad abbracciarsi e a baciarsi voluttuosamente fu quando lessero che la desiderata bocca di Ginevra veniva baciata da Lancillotto, che tanto l’amava: Paolo, che da lei non sarà mai separato, le bacia la tanto desiderata bocca e lo fa tutto tremante: un po’ per il grande momento che realizza il desiderio della parte fisica e un po’ perché quello è un bacio rubato, un bacio col quale sa che sta tradendo il fratello, come anche Francesca, che si immagina pure tremante ma più decisa nel realizzare il momento in cui i corpi sono in contatto. La bocca mi baciò tutto tremante: è il più bel verso d’amore che sia stato scritto, ha lasciato detto Umberto Saba e, probabilmente, è così. È uno di quei versi che restano nella memoria proprio in quanto capaci di raccontare tutta la passione e anche il tormento che un bacio può racchiudere e nascondere.

La romanzesca storia d’amore di Paolo e Francesca  volge al termine è la narratrice spiega a Dante che, per loro due, è stato galeotto il romanzo con dentro la passione di Lancillotto e di Ginevra: Galeahaut è il siniscalco, il maggiordomo di Palazzo, che, nel romanzo cortese, spinge una Ginevra ben più decisa e intraprendente di Lancillotto a fare il primo passo e, insomma, fa da intermediario, da tramezzano, diciamo così. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel libro è stato fatale: è stato lui, la sua lettura a scatenare e a far realizzare la loro passione, il loro reciproco desiderio (la letteratura, un libro possono essere pericolosi…). Dopo quella lettura non ce ne fu un’altra (quel giorno più non vi leggemmo avante): infatti, Gianciotto, avvisato da un servo traditore, corse come una furia verso il castello (dove i due impallidivano per la loro forte attrazione fisica e il loro intenso sentimento d’amore che sapevano essere impossibile da realizzare) e li trafigge brutalmente, senza pietà e senza dare loro il tempo di dare una spiegazione quale che fosse o un cenno di pentimento.

Il romanzo di Paolo e Francesca si è concluso tragicamente, con un duplice delitto, un’efferata vendetta: Amore e Morte, e, forse quello più vero, non può che finire così. Ogni storia vera finisce con la morte, ha scritto Ernest Hemingway, e quella di Paolo e Francesca era stata una storia vera o, almeno così, ce la fa vivere l’eterno Dante. Il quale, empatico com’è, non può che immedesimarsi ancora una volta nel dolore di un proprio simile, turbarsi profondamente, avere l’animo lacerato e smarrito per la pietà e la commozione, per il pathos, per la compassione, appunto, sia per la narratrice che per colui che racconta il suo dolore con le sole lacrime e concludere che: Mentre l’uno spirito questo disse, l’altro piangea, sì che di pietade io venni men così com’io morisse; e caddi come corpo morto cade.

Dante sviene, perde i sensi, non ce la fa più a reggersi all’impiedi, non ce la fa più a reggere a tutta quella sofferenza, tanto è stato colpito, appunto, da quella dolorosa storia d’amore e dal modo vile, barbaro, incivile con cui sono state assassinate due persone che si amavano: certamente, chi le ha soppresse non sapeva amare, non era in alcun modo capace di amore ma soltanto di un amore malato, di un amore che non era amore ma unicamente miserabile distruttiva gelosia e pochezza morale di chi crede di poter risolvere gli eventi, i fatti con la violenza e il sangue. In verità, la storia di Francesca è anche la storia di un femminicidio (oltre che un cosiddetto delitto passionale commesso per gelosia) che somiglia alquanto a tanti altri di cui sentiamo e leggiamo nelle cronache giornalistiche del nostro malato mondo che resta, purtroppo, ancora il mondo malato, guasto dei tempi bui di Dante. In verità, nel caso di Francesca, Dante assume una sorta di atteggiamento assolutorio e giustificativo e, pertanto, più che la smodata lussuria, a trionfare sembra proprio l’amore e la forza dell’amore, quello con la a maiuscola, che continua anche dopo la morte e che quindi è più forte della morte.

Alla fine del canto, noi commossi lettori, dimentichiamo che Francesca è punita tra i peccator carnali che la ragion sommettono al talento e, anzi, ci resta per sempre l’immagine di purezza di una giovanissima che morì e che tuttora piange e soffre per un amore vero ma impossibile e quella dello stesso Dante che per troppo turbamento interiore e per troppa empatia sviene e si accascia per terra come corpo morto cade.