Trebisacce-26/02/2022: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del XV canto dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo. Questa volta i protagonisti sono i sodomiti o meglio l.eBrunetto Latini
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del XV canto dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo. Questa volta i protagonisti sono i sodomiti o meglio l.eBrunetto Latini
Il canto-capitolo XV ovvero il canto di Brunetto Latini, cerchio settimo, terzo girone. I sodomiti (violenti contro Dio, nella natura, figlia di Dio). Camminano continuamente sotto una pioggia di fuoco. Brunetto Latini, maestro di cultura e di vita di Dante, che lo esalta facendoci dimenticare il peccato di sodomia.
Dunque, i due Poeti (siamo giunti al canto–capitolo XV) camminano e si allontanano dalla selva, dal bosco, tanto da non vederlo quasi più, per quanto Dante si fosse voltato per guardare (già eravam dalla selva rimossi tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era, perch’io in dietro rivolto mi fossi). Ma non è tanto la distanza quanto l’oscurità che domina nell’Inferno a impedire a Dante di vedere il bosco.
Dante e Virgilio incontrano una schiera di dannati che corrono, in gruppi, lungo l’argine del fiume e ognuno di essi, con curiosità, li fissa come si fa di sera perché c’è buio e la luna manda pochissima luce; per guardarli fissamente socchiudono gli occhi, cercando di acuire la vista, come fa il vecchio sarto quando deve infilare il filo nella cruna dell’ago (e sì ver noi aguzzavan le ciglia come ‘l vecchio sartor fa nella cruna).
Dante è riconosciuto da uno dei dannati che lo tira per un lembo della sua veste, del suo abito e lancia un’esclamazione alquanto urlata per lo stupore di vederlo vivo lì tra i sodomiti (fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”). Dante, quando vede il braccio di quell’anima stesa verso di lui, cerca di guardare intensamente il volto bruciato e sfigurato dal fuoco infernale e, pur essendo così rosolato, non impedisce alle sue facoltà mentali di riconoscerlo. Infatti, chinando la mia alla sua faccia (secondo il Sapegno e altri commentatori) o, per altri, chinando la mano a la sua faccia: e sembra più plausibile che sia così, in quanto si leggerebbe il gesto affettuoso e di pietas dell’allievo nei confronti dell’antico maestro di retorica, chè tale era stato per lui l’autore del Tesoretto. E, infatti, Dante, che finge sempre di cascare dalle nuvole, gli domanda retoricamente: Siete voi qui, ser Brunetto? Come dire: come mai? proprio voi? non me lo sarei aspettato… Eppure, pare che non avesse fama di sodomita e che è Dante, che tanto lo ammirava, a far sapere della (presunta?) debolezza (chiamiamola così) di questo grande intellettuale, di questa grande personalità della cultura del tempo.
I due si sono riconosciuti subito e il vecchio maestro, si presenta con nome e cognome e lo prega (chiamandolo affettuosamente figliuol mio) di parlare un po’ con lui, di staccarsi dalla schiera e di ritornare indietro, perché l’andare e venire dei sodomiti imponeva di non stare fermi: O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna indietro e lascia andar la traccia. Dante risponde con cortesia e riverenza: Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m’asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco: per quanto gli è possibile, lo prega di rimanere, e se vuole che si fermi a parlare lo farà, se questo farà piacere anche a Virgilio. E certamente gli fa piacere e s’immagina un cenno di assenso da parte del duca, visto che l’illustre e autorevole interlocutore si mette subito a parlare.
Ma chi è Brunetto Latini? Se Guido Guinizzelli era stato il maestro di poetica stilnovista, (il padre mio e de li altri miei miglior che mai rime d’amore usar dolci e leggiadre, Purgatorio, canto XXVI), Brunetto di Buonaccorso Latini (Firenze 1220-1294) era stato il grande maestro di retorica, cioè dell’arte del saper parlare e saper scrivere bene, con tutti i dovuti artifici letterari e gli accorgimenti tecnici. Dante lo stima tanto da rendergli omaggio e dirgli, con riconoscenza da allievo che si è saputo nutrire delle sue ottime lezioni: m’insegnavate come l’uom si etterna, come conquista l’immortalità attraverso le opere letterarie. Di parte guelfa, preferì l’esilio in Francia quando la sua parte politica venne sconfitta a Montaperti (1260) per poi ritornare quando nel 1266 la battaglia di Benevento mutò il destino politico di Firenze. Qui, al Comune, svolse anche l’incarico di notaio e di scriba e ricoprì anche altre cariche pubbliche e politiche. Grande filosofo e sommo maestro in rettorica (così il Villani), nell’esilio francese aveva scritto la sua opera più importante, Li livres dou Tresor o Tresor o Tesoro, una specie di enciclopedia del sapere medievale in lingua d’oil, e in volgare il Tesoretto e il Favolello.
Il grande intellettuale verso il quale Dante si sente debitore dice al suo allievo, che anche nell’Inferno sente come figlio, proprio come un buon maestro e docente deve sentire i suoi discenti: O figliuol qual di questa greggia s’arresta punto, giace poi cent’anni sanz’arrostarsi quando ‘l foco il feggia. Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni: (Caro) figliolo, chiunque di questa schiera si ferma un poco è costretto (come punizione) a giacere per terra cent’anni senza potersi schermire, senza potersi proteggere con le mani, quando la pioggia di fuoco lo colpisce; perciò, vai pure oltre, cammina e io ti verrò vicino, di fianco; poi mi ricongiungerò con la mia schiera (comitiva) che piange e si tormenta per le sue pene e punizioni eterne.
È tanto il rispetto e la riverenza di Dante nei confronti del suo grande maestro di letteratura e di pensiero, un vero e proprio maître à penser, che Dante non osa scendere dall’argine e avvicinarsi a lui e, quindi, stargli alla pari, allo stesso livello e, così, procede col capo chino in segno, appunto, di rispetto: I’ non osava scender della strada per andar par di lui; ma ‘l capo chino tenea com’uom che reverente vada. Brunetto, intanto, dà inizio al colloquio e chiede a Dante se a condurlo lì nell’Inferno prima di morire sia stato per un caso del destino o per superiore volontà e chi sia la persona che lo guida (che mostra ‘l cammino). Dante risponde che quand’era nel mondo dei vivi (là su di sopra, in la vita serena: la vita sulla Terra è pur sempre vista come il male minore se confrontata a quella infernale…) prima che giungesse alla mezza età (diremmo noi oggi), cioè poco prima di compiere i 35 anni (nel mezzo del cammin…), si smarrì in una selva (oscura, del peccato, dello smarrimento morale e spirituale); soltanto ieri mattina ho voltato le spalle alla selva per salire il colle, il dilettoso monte (della virtù, si veda il I canto) e, a un certo punto, mi è apparso Virgilio (questi), proprio quando io stavo per ritornare indietro (perché le tre fiere lo avevano spaventato a morte) ma poi, egli, mi ha ricondotto sulla retta via (reducemi a ca per questo calle).
Brunetto è sempre orgoglioso del suo allievo, compiaciuto anche del fatto che i suoi insegnamenti non sono stati vani, e predice a Dante un futuro, certo di dispiaceri ma, soprattutto, di gloria e di fama letteraria tanto che sarà destinato a quell’immortalità che lui gli ha insegnato come conquistare: Se tu segui la tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, se ben m’accorsi nella vita bella; e s’io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t’avrei all’opera conforto. Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno, ti si farà, per tuo ben far, nemico: ed è ragion, chè tra li lazzi sorbi si disconvien fruttar lo dolce fico. Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent’è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi. La tua fortuna tanto onor ti serba, che l’una parte e l’altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l’erba. Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s’alcuna surge ancora in lor letame in cui riviva la sementa santa di que’ Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta.
Solo in bocca a un grande intellettuale e a un grande maestro di retorica come Brunetto, Dante poteva mettere parole così cariche di metafore, così simboliche e allusive, così significative come sono quelle sul destino di grandezza e di gloria immortale per l’allievo, del quale aveva già (nella bella vita, quella terrena) compreso tutte le potenzialità e previsto un cammino lastricato di successi letterari. E solo a un altro che, come lui, aveva patito l’infamia dell’ingiusto esilio e che conosceva bene difetti, vizi e manchevolezze dei fiorentini Dante poteva mettere in bocca parole di fuoco, così fortemente polemiche e di contestazione contro i suoi concittadini, gente infida e pericolosa, una gramigna da sradicare. E questo fatto dell’inaffidabilità e pericolosità dei fiorentini come pure di altri abitanti della Toscana (Pisa vituperio delle genti…, tanto per fare un esempio) è cosa che ritorna spesso nella Commedia. Dante ama la sua terra, ama la Toscana, ama Firenze ma questo non gli impedisce di vederne limiti, difetti, vizi e, insomma, tutto il negativo e il marcio che li caratterizza. E, così, nella Commedia, troviamo più di un’invettiva che il Poeta lancia contro Firenze e i suoi corregionali di ogni città. Tanto che potremmo definire il Poema Sacro come una contina contestazione della realtà fiorentina, oltre che di quella in cui si trovava a vivere l’uomo sulla Terra.
Nelle parole proferite da Brunetto troviamo anche un’altra cosa che ritorna più di una volta nel capolavoro dantesco, e cioè la consapevolezza della propria grandezza oltre che della sua superiorità morale e culturale, che potrebbe indurre il lettore a pensare a un Dante un po’ troppo pieno di sé, superbo e addirittura reazionario nei confronti degli altri. Ma non è così e l’apparenza può ingannare. Il fatto è che Dante, nella sua grandezza, ha acquisito una visione tutta aerea della vita e vorrebbe che anche gli altri uomini l’avessero: è come se lui dicesse: se voi faceste come me, potreste scendere dalla piccioletta barca (Paradiso, canto II) e anche voi potreste alzare le vele della navicella del vostro ingegno (Purgatorio, canto I). Insomma, Dante è ben consapevole della propria genialità e noi non possiamo che riconoscergliela e chinare umilmente il capo come ha fatto lui con il maestro di pensiero, di letteratura e retorica Brunetto Latini. Il quale, traducendo più dettagliatamente, ha detto a Dante: Se tu segui la stella sotto cui sei nato, cioè la costellazione dei Gemelli (che, secondo l’astrologia del tempo, predisponeva bene allo studio e soprattutto a quello della letteratura), non ti sarà difficile giungere alla gloria, all’immortalità, se ben mi sono avveduto nella vita terrena (quando seguivi le mie lezioni, i miei insegnamenti); e se io non fossi morto così presto (rispetto a Dante), vedendo il Cielo così a te favorevole, avrei dato sostegno al tuo operato di poeta ma anche di cittadino e di uomo impegnato nella vita politica a ben fare. Ma quell’ingrato e malvagio popolo (i Fiorentini, sempre irriconoscenti verso i suoi migliori cittadini, come lui e Dante) che (secondo la leggenda) discende da Fiesole (i Romani avrebbero fondato Firenze dopo aver distrutto Fiesole) e conserva tuttora del rustico, del rozzo, del selvatico (del monte) e del duro e poco aperto alle maniere civili e liberali (del macigno), ti si rivelerà nemico proprio per la tua rettitudine e onestà (ti si farà, per tuo ben far, nemico): ed è giusto che sia così, perché sarebbe disdicevole, ingiusto che tra gli aspri, acri sorbi (che sono i Fiorentini) crescesse un frutto dolce (di tanta bontà come te). Un’antica fama, un’antica tradizione vuole che i Fiorentini siano ciechi (orbi, ovvero poco avveduti, visto che si erano lasciati ingannare da Totila, che la distrusse); è un popolo avaro, invidioso e superbo (ricorrono sempre i grandi mali dell’umanità che, qui, sono dei Fiorentini): tu fa’ in modo da tenerti sempre lontano dai loro costumi morali, dal loro modo di procedere, cerca di restare sempre puro e incontaminato. La tua buona stella, il tuo destino riserba per te tanto onore (l’essilio che m’è dato, onor mi tegno, scrive Dante nelle Rime) e sia i Neri (che dopo il 1301 gli imposero il disonorevole esilio) che i Bianchi (dei quali Dante non condivideva più le prese di posizione politica e i metodi, tanto che si distaccherà da loro) avranno desiderio di nuocerti, di farti del male, di divorarti, ma l’erba (buona, cioè Dante) sarà lontana dai denti del capro (becco) che vorrebbero mangiarla (cioè riuscirai a stare lontano e al sicuro da tali fameliche belve umane). (Proseguendo col tono di estremo disprezzo) Brunetto dice ancora che le bestie fiesolane, cioè i Fiorentini, facciano strame, foraggio di se stessi e lascino stare la discendenza, se ancora ne nasce qualcuno in quel letamaio in cui hanno trasformato la città, discendenza in cui riviva la sacra origine, il seme sacro di quei Romani che rimasero lì e fondarono una città così piena di corruzione, malvagità, di colpe (fu fatto il nido di malizia tanto).
Il grande pedagogo ha svolto anche nell’Inferno la sua lezione di vita e Dante è stato molto attento e anche adesso farà tesoro di quanto detto da Brunetto, la cui ammirazione e stima conferma anche nei versi che seguono come replica all’elevato eloquio del maestro di retorica: Se fosse tutto pieno il mio dimando voi non sareste ancora dell’umana natura posto in bando; chè ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna: e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo convien che nella mia lingua si scerna. Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s’a lei arrivo. Tanto vogl’io che vi sia manifesto, pur che mia coscienza non mi garra, che alla Fortuna, come vuol, son presto. Non è nuova alli orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e ‘l villan la sua marra: Se la mia preghiera, il mio desiderio fosse pienamente esaudito, appagato, voi non sareste allontanato dal mondo dei vivi, non sareste ancora morto, perché è sempre impressa nella mia mente e ancora mi angoscia, mi rattrista, mi spezza il cuore, la vostra cara e buona figura paterna di voi, quando in vita, di tanto in tanto, mi insegnavate come l’uomo può conquistare l’immortalità attraverso lo studio, le sue opere e il suo ben operare. E come per me questo sia caro, gradito finchè sarò vivo, è giusto che risulti chiaro dalle mie parole. Ciò che mi dite sulla mia vita, sul mio futuro io lo annoto nel libro della mia memoria e lo conservo per farmelo spiegare e chiarire insieme ad altre predizioni (vedi Ciacco, Farinata) da una donna, cioè Beatrice, che saprà meglio spiegare se riuscirò a giungere fino a lei (in Paradiso dove, però, sarà Cacciaguida a confermare la triste profezia). Voglio soltanto che vi sia chiaro, che sappiate che, purchè, sperando che la mia coscienza non mi rimproveri, che sono pronto ad affrontare la Fortuna, qualunque cosa voglia riservarmi. Certe profezie, predizioni (di sventura, di esilio, ecc.) non sono nuove alle mie orecchie: perciò, la Fortuna faccia pure girare la sua ruota come vuole, e il contadino la sua zappa (a volte conficcata nel terreno a caso).
Insomma, Dante ha condannato Brunetto Latini per la sua omosessualità ma più che una condanna ci sembra un’assoluzione, tanto lo esalta e riverisce per la sua grandezza culturale e morale. Tanta è la giusta esaltazione del maestro, che ha saputo lasciare un segno così profondo nella sua bella mente, che il lettore dimentica che quella è un’anima dannata e che siamo nell’Inferno.
Intanto, Virgilio, che ha seguito il cordiale e affettuoso colloquio, si volta indietro con la testa verso destra e, guardando Dante con espressione di approvazione, gli dice una frase variamente interpretata dai commentatori: Bene ascolta chi la nota: chi l’ascolta, si imprima bene nella mente questa sentenza, questo pensiero (di Dante), oppure: l’ha ben ascoltato questo pensiero (di Dante) chi ben lo imprime nella memoria.
Dante dice poi al lettore che lui, nonostante tutto, non smette di parlare con ser Brunetto, e camminando, gli chiede chi sono i suoi compagni di pena, quelli più famosi e di grande valore per quel che hanno fatto sulla Terra (più noti e più sommi). Questa la risposta: Saper d’alcuno è bono; delli altri fia corto a tanto sòno. In somma sappi che tutti fur cherchi e litterati grandi e di gran fama, d’un peccato medesmo al mondo lerci. Priscian se va con quella turba grama, e Francesco d’Accorso; anche vedervi, s’avessi avuto di tal tigna brama, colui potéi che dal servo de’ servi fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi. Di più direi; ma ‘l venire e ‘l sermone più lungo esser non può, però ch’i veggio là surger novo fummo del sabbione. Gente vien con la quale esser non deggio: sieti raccomandato il mio Tesoro nel qual io vivo ancora, e più non ti cheggio: Saper di alcuni di loro è cosa opportuna, giusta, di tanti altri è meglio tacere, non parlarne (perché non ne vale la pena, sarebbe sprecare solo parole e fiato e non ci sarebbe neanche il tempo). Ebbene, in breve, devi sapere che quasi tutti sono stati ecclesiastici, uomini di Chiesa e grandi e famosi letterati, uomini di cultura, che, in vita, si sono macchiati di un comune e sozzo peccato (quello della sodomia). Uno di questi è Prisciano di Cesarea (della Mauritania, famoso grammatico vissuto nella prima metà del VI secolo d.C.), che se va con quella misera e infelice schiera di dannati, e l’altro (che vedi) è Francesco d’Accorso (grande giurista che insegnò diritto a Bologna e anche ad Oxford su richiesta del re d’Inghilterra Edoardo I dal 1273, ma poi tornò a Bologna nel 1281 per morirvi nel 1293). Sia detto per inciso, pare che il primo non avesse fama di essere un omosessuale e si pensa che Dante abbia fatto confusione con il vescovo eretico Priscilliano (IV secolo).
Brunetto dice ancora a Dante che se avesse avuto desiderio di vedere e di sapere, avrebbe potuto vedere ancora un altro (bell’esemplare…) che si è macchiato di una sozzeria, di una malattia così schifosa (di tal tigna) e cioè avrebbe potuto vedere (ma ormai la schiera è già lontana…) il fiorentino Andrea de’ Mozzi, colui… che dal servo de’ servi di Dio, cioè da Bonifacio VIII, fu trasferito dal vescovado di Firenze a quello di Vicenza, dove morì nel 1296, lo stesso anno del trasferimento (dove lasciò li mal protesi nervi: i nervi del proprio membro protesi per soddisfare un insano, innaturale piacere).
Direi ancora di più, prosegue Brunetto, ma sia il camminare che il parlare non possono essere più lunghi, non si possono prolungare, per il fatto che vedo sollevarsi dal sabbione nuovo fumo (dovuto alle fiamme che i peccatori cercano si spegnere con i piedi) oppure, secondo un’altra interpretazione, una nuvola di polvere provocata dal procedere veloce dei dannati e cioè dal calpestio che fanno sul terreno bruciato (come se fossero corpi e non ombre…) o potrebbe essere anche (secondo il Sapegno) il vapore che emana dai corpi bruciati. Ma, intanto, arriva gente, cioè peccatori, di una diversa schiera di sodomiti, quelli, evidentemente, con maggior pena e contrappasso, con cui Brunetto non deve essere, non deve mischiarsi (con la quale esser non deggio). Il tempo è scaduto: Brunetto rivolge a Dante una preghiera: ti raccomando il mio Tesoro, la mia grande opera attraverso la quale vivo ancora e continuerò anche dopo a vivere. Un grande uomo di cultura come Brunetto non poteva far altro che pregare Dante, il suo amato allievo, di tener vivo il ricordo della sua opera più grande e di dire ancora una volta che è soltanto attraverso le opere letterarie, attraverso la cultura che possiamo raggiungere l’agognato obiettivo dell’immortalità. Non poteva esservi un omaggio migliore per il proprio stimato e ammirato maestro. Il quale, finito di parlare, si volta e si mette a correre per ricongiungersi a quelli della sua schiera, e sembrava correre come fanno quelli che corrono al palio di Verona per vincere un drappo verde. Ser Brunetto corre perché altrimenti rischia di incorrere nella pena per cui per cent’anni non potrà schermirsi dalla pioggia di fuoco. Anche nella chiusura del canto dante non può fare a meno di rendere omaggio al suo maestro di cultura e di vita: nel correre sembrava uno di quelli che vince e non uno che perde (e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde).
Dunque, anche il canto-capitolo XV (aldilà dell’omaggio quasi filiale di Dante verso l’indimenticabile maestro) sembra la lettura della cronaca odierna su preti, vescovi e cardinali omosessuali e/o pedofili: nella Chiesa certi vizi o, se si vuole, certe debolezze, ci sono sempre state e se il Sommo Poeta può apparire ad occhi postmoderni un reazionario omofobo, resta però il fatto che, ieri come oggi, anche gli uomini di Chiesa non riescono a non cadere nel peccato (loro che assolvono gli altri…) e a non avere certe debolezze, come pure quella (ieri come oggi…) dell’adorazione del Dio denaro che papa Francesco condanna e cerca di contrastare come può. Ancora una volta, la Divina Commedia rivela la sua straordinaria attualità e non è un caso che essa sia stata forse l’opera più amata da un intellettuale, omosessuale, come Pier Paolo Pasolini che, certamente, non ha mai pensato a Dante come a un omofobo dal quale prendere le distanze. Il difetto di Dante era quello di amare l’uomo e l’umanità a tal punto da sognarla perfetta, senza difetti, senza vizi, senza debolezze: un’umanità superiore che avrebbe potuto realizzare quell’età dello Spirito Santo profetizzata dall’abate calabrese Gioacchino da Fiore, che il Divino Poeta tanto apprezzava. Forse perché, come lui, era un Sognatore e un Utopista che avrebbe voluto rifare il mondo affinchè a trionfare fossero il Bene, l’Amore, la Giustizia, la Verità, la Pace.