Trebisacce-20/05/2022: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XVIII dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.

Sandro Botticelli

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Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XVIII dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo. Siamo nell’ottavo cerchio o regno di Malebolge, il regno della Frode e della Malizia allo stato puro e assoluto, diviso in dieci bolge. I protagonisti  della prima bolgia sono i ruffiani e i seduttori, ovvero i fraudolenti verso chi non si fida: procedono in due file e sono fustigati da diavoli con le corna. Venedico Caccianemico, il magnaccia (della propria sorella),  e il seduttore Giasone. Nella seconda bolgia (una sacca di merda) ci sono gli adulatori e i lusingatori, immersi nella merda umana. I lusingatori Alessio Interminelli e Tàide.

 Luogo è in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge. Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerò l’ordigno. Quel cingno che rimane adunque è tondo tra ‘l pozzo e ‘l piè dell’alta ripa dura e ha distinto in dieci valli il fondo. Quale, dove per guardia delle mura più e più fossi si cingon li castelli, la parte dove son rende figura, tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da’ lor sogli alla ripa di fuor son ponticelli, così da imo della roccia scogli movìen che ricidìen li argini e’ i fossi infino al pozzo che i tronca e racco’gli. In questo luogo, della schiena scossi di Gerion, trovammoci; e il poeta tenne a sinistra, e io  dietro mi mossi. Alla man destra vidi nova pièta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta.

Così inizia il XVIII canto-capitolo e così Dante ci spiega che cosa orribile è Malebolge, com’è strutturato e i tanti dannati che già trova nella prima bolgia, ai quali è applicato un contrappasso ancora più pesante rispetto a quanto già visto per le altre anime peccatrici, con nuovi tormenti e nuovi tormentatori. E, dunque, ecco cosa dice il Poeta al lettore nel presentare il terrificante Malebolge: C’è un luogo nell’inferno chiamato Malebolge (male valigie, male sacche, borse, bisacce, fosse) fatto tutto di pietra di colore grigio-ferro, grigio-nerastro come la parete, la roccia circolare (e a picco) che la circonda tutto intorno. Proprio nel centro dello spazio, della pianura, della zona malvagia ha il suo vano, cioè sta, c’è un pozzo molto largo e profondo, di cui, al momento opportuno, a suo tempo descriverò la struttura. La zona, l’area circolare che sta tra la parete rocciosa e il pozzo è rotonda ed è suddivisa in dieci bolge.

Quindi, con una calzante similitudine, Dante spiega che: quale, come si presenta l’aspetto dei castelli per la cui protezione, difesa delle mura vengono costruiti più fossati che li recingono (per evitare di essere assaltati ed espugnati), così, allo stesso modo tale aspetto avevano in Malebolge quei fossati, quelle bolge concentriche (come a dire che i dannati non avevano scampo, perché quei fossati erano il loro eterno carcere dal quale era impossibile pensare di evadere e salvarsi). E come dalle soglie, dalle entrate delle fortezze, dei castelli ci sono, si vedono dei ponticelli (i ponti levatoi) che attraversano tutti i fossati fino alla riva, all’argine esterno dell’ultimo di essi, così (qui in Malebolge) dalla base della parete rocciosa si dipartivano ponti anch’essi di roccia che tagliavano (attraversandoli) argini e fossati, fino al pozzo che li spezza, interrompe e, al tempo stesso, li raccoglie (perché è lì che terminano, è il luogo che segna la fine dei ponti, nel loro convergere lì come verso il punto centrale). In questo luogo – spiega ancora Dante  – dopo esser stati deposti, scaricati dall’irato Gerione, ci siamo trovati io e il maestro, il quale comincia a camminare, come al solito, sulla sinistra (tra la parete rocciosa e la prima bolgia che si trova sulla destra). E, infatti, qui sulla destra, Dante dice di vedere una nuova, inedita pietosa, misera, dolorosa, angosciosa visione, scena con tormenti, punizioni, fustigatori, tormentatori (i diavoli) inediti, mai visti prima, dei quali la prima bolgia era ben piena.

Nella prima bolgia ci sono due schiere di dannati che ingannarono il prossimo in maniera diversa: i ruffiani, ovvero i seduttori di donne per conto altrui e i seduttori di donne per conto proprio, che procedono in fila ma in direzione opposta e sono eternamente frustati dai demòni, dai diavoli cornuti. Pare che la pena di essere frustati era applicata per i lenoni, quelli che popolarmente vengono chiamati magnaccia, in alcuni statuti comunali ai tempi di Dante.

Questi peccatori appaiono nudi nella bolgia (nel fondo erano ignudi i peccatori, proprio a marcare la miseria della loro condizione… umana): dal mezzo in qua, cioè dal centro, dalla linea di congiunzione delle due zone concentriche in cui è formata la bolgia, una schiera di dannati (i ruffiani) venivano nella direzione opposta rispetto allo sguardo dei due Poeti (ci venìen verso ‘l volto) mentre dall’altra parte, dal centro al margine interno, un’altra fila di dannati (i seduttori) vanno nella stessa direzione dei due Poeti e in fretta (perché sferzati dai diavoli: di là con noi, ma con passi maggiori); tutto questo  proprio come successe a Roma nel 1300, l’anno del Giubileo, quando per l’enorme folla e per favorire la circolazione delle persone, si trovò il sistema di far procedere (con transenne) la gente ordinatamente (come nelle processioni) sul ponte di Castel Sant’Angelo (come i Roman per l’essercito molto, l’anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto), e cioè, da una parte del ponte tutti erano rivolti verso il castello ed erano quelli che andavano verso San Pietro, mentre tutti gli altri che guardavano verso il monte Giordano erano quelli che ritornavano (che dall’un lato tutti hanno la fronte verso il castello e vanno a Santo Pietro; dall’altra sponda vanno verso il monte).

Da ogni parte (di qui, di là) sopra la roccia color di ferro cupo (su per lo sasso tetro), Dante dice di vedere demon cornuti, diavoli con le corna, muniti di grosse fruste, verghe (con gran ferze, di cuoio e flessibili) con cui battevano i dannati sulle spalle senza pietà (che li battìen crudelmente di retro). Ahi (poveri loro!…) come facean lor levar le berze alle prime percosse!: come faceva loro alzar le calcagne, cioè come li faceva correre veloci le prime frustate!… Correvano così tanto a gambe levate che nessuno stava lì ad aspettare la seconda o la terza frustata… (già nessuno le seconde aspettava né le terze). La scena è comica e l’ironia impietosa di Dante si abbatte come il nerbo dei diavoli sulle anime di questa brutta specie di peccatori: il Poeta ci fa immaginare, e anzi la vediamo come lui la vide, la scena dei diavoli che rincorrono i dannati che, a loro volta, corrono come… dannati per evitare di essere dolorosamente fustigati e di passare le pene dell’inferno…

Ad un certo punto, Dante dice che, tra quei miserabili, ne ha riconosciuto uno, che cerca di nascondersi come può agli occhi del Poeta per la vergogna di mostrare la propria penosa condizione (e quel frustato celar si credette bassando il viso);  ma Dante lo smaschera impietosamente (ma poco li valse ch’io dissi…) e gli sbatte in faccia che l’ha riconosciuto e che, se anche lì non inganna con la sua arte e se, quindi, le fattezze sono sue come lo sono state sulla terra, allora vuol dire che si tratta proprio di quel gran ruffiano (e magnaccia della propria sorella) di Venedico Caccianemico (O tu che l’occhio a terra gette, se le fazion che porti non son false, Venedico se’ tu Caccianemico): Mentr’io andava, li occhi miei in uno furo scontrati (si incrociarono); e io sì tosto dissi (a Virgilio): “Già di veder costui non son digiuno” (l’ho già visto altre volte); perch’io a figurarlo (per riconoscerlo meglio) i piedi affissi (mi fermai) e ‘l dolce duca meco si ristette (si fermò con me), e assentìo ch’alquanto in dietro gissi (consentì che tornassi alquanto indietro, perché il dannato correva per evitare la frusta). Una volta smascherato, Dante chiede (impietoso, come se non sapesse nulla, lui che l’ha collocato lì…): ma per quale colpa sei qui  costretto a tormenti, a pene così pungenti? (ma che ti mena a sì pungenti salse? E cioè le frustate dei diavoli…).

Venedico Caccianemico era nato forse nel 1228 ed apparteneva ad una potente famiglia guelfa di Bologna; fu podestà di Imola, Milano e Pistoia, ma anche capitano del popolo a Modena; morì nel 1302 o 1303. Narra la leggenda che avesse convinto e spinto (per motivi di tornaconto politico e anche per denaro) la sorella Ghisola (o Ghisolabella) a concedersi sessualmente ad Obizzo II d’Este, marchese di Ferrara, e l’avrebbe convinta dandole a credere che ne avrebbe avuto giovamento anche lei stessa, lei che era una donna sposata con il ferrarese Niccolò da Fontana.

Venedico, prova vergogna per il suo peccato ma, ormai, è stato riconosciuto e, non potendosi sottrarre alla domanda, così replica a Dante: Mal volentier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico. I’ fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del Marchese, come che suoni la sconcia novella. E non pur io qui piango bolognese; anzi n’è questo luogo tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese  a dicer ‘sipa’ ta Sàvena e Reno; e se di ciò vuoi fede o testimonio, rècati a mente il nostro avaro seno: Te lo dico malvolentieri (perché prova grande vergogna), ma mi spinge a parlare il fatto che tu sei ben informato e buon conoscitore della cronaca, dei fatti accaduti, tanto che mi fa ricordare del mondo dei vivi (e di quel che vi accadde). Io sono colui che indusse la propria sorella Ghisolabella a soddisfare le voglie del Marchese Obizzo II d’Este, comunque sia narrata la sconcia, disonorevole vicenda, storia. Ma non sono l’unico bolognese a piangere, a pagare per tale peccato e anzi questa bolgia è strapiena di bolognesi, tanto che tra Savena (fiume a destra di Bologna) e il Reno (fiume a sinistra di Bologna) non esistono altrettante lingue che abbiano appreso come si dica (ovvero istruite a dire…) sia (sipa è bolognese antico per sia del verbo essere al congiuntivo presente). E se di questo vuoi una testimonianza inconfutabile, ricordati della nostra (proverbiale, cioè dei bolognesi) avarizia, della nostra indole portata alla brama di ricchezze, alla cupidigia.

Insomma, lo smascherato Venedico, costretto da Dante a confessare la sua miseria morale e il peccato di aver sfruttato l’avvenenza della propria sorella per denaro e per favori politici da parte di un uomo di Potere, cerca di trascinare nel fango tutti i suoi concittadini dicendo che la bolgia è piena di ruffiani e di gente amante del vile denaro come lui. Ma la sua narrazione, diretta a sminuire il suo peccato e la sua colpa agli occhi di un vivo che potrà raccontare tutto una volta tornato tra i vivi, viene “premiata” da una sonora frustata da parte di un diavolo che gli urla in faccia (così parlando il percosse un demonio della sua scuriada, cioè frusta a strisce di cuoio): Via, ruffian! Qui non son femmine da conio (Cammina, ruffiano! Qui non ci sono donne da ingannare e prostituire per denaro!).

Intanto, mentre a noi resta l’immagine realistica e sarcastica della scena del plebeo e sprezzante demonio che frusta l’ex uomo di Potere, appartenente all’élite, all’establishment dell’epoca e ora null’altro che un miserabile dannato colpevole di un’azione così abominevole, Dante si ritrova con la sua guida (mi raggiunsi con la scorta mia) e dopo pochi passi arrivano dove uno di quei ponti di pietra (costruiti dalla natura) si stacca dalla parete rocciosa (poscia con pochi passi divenimmo là ‘v’uno scoglio della ripa uscio).

Dante dice che su quel ponte salgono camminando agevolmente, facilmente e che procedono verso destra su per il pendio del ponte roccioso, ovvero su per la roccia che fa da ponte (e volti a destra su per la sua scheggia), allontanandosi da quelle eterne cerchie infernali, pareti rocciose circolari dove eterne sono la pena e il dolore (da quelle cerchie etterne ci partimmo). Ma, in verità, i due Poeti restano ancora un po’ fermi sul ponte della prima bolgia, se ne allontanano certamente con l’animo, sempre più sconvolto da quello che vedono di terribile e di terrificante. E, così, quando giungono dove il ponte è vuoto e ad arco nella parte di sotto per consentire ai dannati fustigati di passare (per dar passo alli sferzati), Virgilio dice a Dante: Fermati e fai in modo di vederli bene, che i tuoi occhi siano ben rivolti sul viso di altri malnati di cui non hai ancora visto la faccia, per il fatto che camminavano, procedevano nella nostra stessa direzione  (Attienti, e fa che feggia lo viso in te di  questi altri mal nati, ai quali ancor non vedesti la faccia, però che son con noi insieme andati).

Dall’alto di quel ponte antico come l’Inferno, i due Poeti osservano la fila, la schiera delle altre anime dannate (cioè i seduttori), che veniva verso di loro dall’altra parte della bolgia e che la frusta fa correre senza posa come i ruffiani (la traccia che venìa verso noi dall’altra banda, e che la ferza similmente scaccia). Il buon maestro, senza aspettare la (solita) domanda di Dante, gli dice: Guarda quell’anima grande (di Giasone, simile, in qualche modo, a Capaneo e a Farinata) che viene verso di noi e che sembra non provare dolore per le pene infernali (guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrima spanda): quanto regale, maestoso aspetto, imponenza ancora mantiene, conserva! (cioè, anche qui nell’Inferno: quanto aspetto reale ancor ritene!). Quello è Giasone che, con coraggio e saggezza, riuscì a togliere, a privare i Colchi del Vello d’oro (quelli è Jasòn, che per cuore e per senno, li Colchi del monton privati féne). Egli passò, si fermò per l’isola di Lemno, dopo che le temerarie e spietate donne uccisero tutti i loro consanguinei maschi (poi che l’ardite femmine  spietate tutti li maschi loro morte dienno). Qui ingannò, con gesti e belle e lusinghiere parole di uomo innamorato, Isifile, la fanciulla che, a sua volta, aveva ingannato tutte le altre donne (facendo credere loro di aver ucciso il proprio padre Toante): Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l’altre ingannate. Giasone ne fece una donna sedotta e abbandonata: la lasciò lì, sola e in attesa, di due figli che saranno Toante ed Euneo (lasciolla quivi, gravida, soletta) e una colpa così grave lo condanna a una tale pena, cioè per questo peccato paga, è punito in quel modo (tal colpa a tal martiro lui condanna);  e paga (rendendo giustizia) anche per quello che ha fatto a Medea, cioè averla sedotta e abbandonata (per un’altra donna, Creusa): e anche di Medea si fa vendetta. Con Giasone vanno (cioè, nella stessa direzione procedono: con lui sen va chi da tal parte inganna) tutti quelli che hanno ingannato (i seduttori per proprio conto, vantaggio): della prima bolgia ti basti sapere questo e di coloro che in essa, dentro vi sono puniti, tormentati, azzannati (come se venissero presi e fatti a spezzi, lacerati:): e questo basti della prima valle saper e di color che ‘n sé assanna.

Anche questa volta il giudizio morale e la conseguente condanna sono implacabili e senza possibilità di attenuanti, pur nel rilievo che al personaggio (Giasone) viene conferito; e, del resto, non bisogna dimenticare che più si va nel Basso Inferno e più il tono polemico, il giudizio morale e la condanna sono sempre più senza alternative e Dante apparirà talvolta anche spietato, cioè senza quella pietas, quel pathos e quell’empatia che lo hanno sempre contraddistinto.

Quindi, Dante ci dice che i due Poeti si trovano lì dove l’angusto, stretto passaggio del ponte s’incrocia con il secondo argine (che divide la prima dalla seconda bolgia) e con quello va a formare la base, il sostegno per un altro arco di ponte (cioè quello della seconda bolgia: e fa di quello ad un altr’arco spalle). Proprio da lì sentimmo gente che si nicchia, che si lamenta, che piange sommessamente nell’altra bolgia e che sbuffa rumorosamente (col muso scuffa), emette aria dalla bocca per esprimere il proprio cruccio per la terribile pena loro inflitta e, infatti, come dei disperati, completano il loro sfogo picchiando se stesse con le loro mani (e sé medesma con le palme picchia): popolarmente, diciamo che uno si dà degli schiaffi in faccia, si mena sul volto come reazione ad un grave fatto subito, alla morte di un caro e via discorrendo. Lì fanno così come per dire: Cosa abbiamo combinato! Se non l’avessimo fatto, non saremmo qui a soffrire!… La miserabile scena è avvolta dall’impietosa ironia dantesca che ci lasciano nella memoria quel muso che sbuffa per rabbia impotente (loro che furono adulatori o lusingatori e che usarono il proprio muso con cui agitarono la lingua per dire parole ingannevoli e fraudolenti). Le sponde, le pareti degli argini delle bolge erano incrostate per via della muffa accumulata (grommate d’una muffa) che faceva esalare una puzza creata dalla muffa e dagli sbuffamenti dei dannati (creando un fastidioso impasto) e che offendeva, contemporaneamente, vista e olfatto, cioè era uno spettacolo sconcio per gli occhi e  disgustoso per il naso (come dire un pugno negli occhi e nel naso: per l’alito di giù che vi s’appasta, che con li occhi e col naso facea zuffa).

Il fondo della bolgia è così profondo e scuro che non c’è spazio sufficiente per poterlo vedere se non salendo sulla sommità dell’arco del ponte, nel punto cioè in cui il ponte è più alto e lo sguardo può essere diretto in maniera perpendicolare alla bolgia (lo fondo è cupo sì, che non ci basta luogo a veder sanza montare al dosso dell’arco, ove lo scoglio più sovrasta). Siamo giunti proprio qui (quivi venimmo) e da questo punto ho potuto vedere, giù nella bolgia (e quindi giù nel fosso), anime immerse, sguazzanti in una merda  che sembrava che fosse stata trasportata lì dopo esser stata prelevata dai cessi delle case (gente attuffata in uno sterco che dalli uman privadi parea mosso). E mentre ch’io laggiù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parea s’era laico o cherco: E mentre guardo fissamente nel fondo (per cercare di vedere se ci fosse qualcuno di mia conoscenza), vedo un dannato con la testa così sporca di merda, tanto che non sembrava se era un laico o un uomo di chiesa, un ecclesiastico con la tonsura (era impossibile distinguere).

Insomma, siamo nel Basso Inferno e cioè – per usare due titoli di opere di Joseph Conrad – nel cuore di tenebra e nella linea d’ombra del cuore e della mente dell’uomo, l’uomo che può essere sublimità o feccia. La vita oscilla tra il sublime e l’immondo con qualche propensione per il secondo, ha scritto Eugenio Montale, ma molto di più per l’immondo. E così, in quelle bolge siamo di fronte alla feccia umana, all’uomo-feccia che, sulla Terra, è stato un potente, un altolocato e via dicendo, ma che si è rivelato, nell’agire, dalla moralità zero. E moralità significa etica, comportamento, azioni, gesti, parole, ecc. Per questo, il “giansenista” Dante è durissimo, rigorosissimo, implacabile e impietoso nei confronti di questa umanità-feccia, che non merita altro che le peggiori punizioni e i peggiori contrappassi, fino alla pena schifosa di  essere eternamente immersi e di sguazzare nella merda umana, perché le loro azioni, in vita, furono così abominevoli e disgustose che non possono non essere ripagati se non con la stessa moneta.

L’uomo-feccia che viene fissato da Dante è talmente infastidito di esser notato in quel luogo e in quella schifosa condizione (umana…) che gli urla in faccia (quei mi sgridò): Perché se’ tu sì ‘ngordo di riguardar più me che li altri brutti? Perché sei così desideroso di guardare più me che non gli altri dannati insozzati, sporchi di merda allo stesso modo? La sporcizia, per Dante, è soprattutto morale, non solo fisica e, pertanto, replica così all’infastidito dannato: Perché, se ben ricordo, già t’ho veduto coi capelli asciutti, e se’ Alessio  Interminei da Lucca: però t’adocchio più che li altri tutti. Guardo più te che gli altri, perché se ricordo bene, ti ho già visto quando non avevi i capelli sporchi di merda e ti dico che sei Alessio Interminelli da Lucca (cavaliere guelfo di parte Bianca, contemporaneo di Dante) e per questo ti fisso più di tutti gli altri. Quindi, l’uomo-feccia, battendosi (con gesto plebeo…) la testa (con poco cervello, visto che la chiama zucca…) con le mani (ed elli allor battendosi la zucca) come per dire: ah, se non avessi fatto quello che ho fatto!…,  confessa le sue colpe: Mi trovo qui sotto (con la punizione di essere immerso nella merda) per le lusinghe, le adulazioni di cui la mia lingua non era mai stanca, sazia (Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe ond’io non ebbi mai la lingua stucca).

Subito dopo il duca dice a Dante: Fa’ in modo da spingere il tuo viso, lo sguardo un po’ più avanti, in modo da poter vedere meglio con i tuoi occhi  la faccia, il volto di quella donna sporca e sfrontata puttana, meretrice (di quella sozza e scapigliata fante), che si graffia con le sue unghie piene di merda, e ora, cioè un po’ sta seduta  (stringendo le gambe)  e un po’ sta all’impiedi (forse perché non trova una posizione giusta in cui stare). È Taide, la puttana che rispose al drudo suo quando disse ‘Ho io grazie grandi appo te?’: ‘Anzi maravigliose!’: Taide (personaggio della commedia di Terenzio, Eunuco), al suo amante (Trasone, che le aveva donato una schiava) che le chiese se poteva vantare meriti, motivi di riconoscenza presso di lei, rispose, con tono lusinghiero e da consumata adulatrice: Certamente e, anzi, meravigliosi! E Virgilio conclude amaramente che: E (dopo Taide) di questo luogo e di questi peccatori i nostri occhi possono ritenersi soddisfatti (ne hanno visto fin troppe di porcherie!): E quinci sian le nostre viste sazie. Come dire: è tanto lo schifo e il ribrezzo, che può bastare così; perché la vista e l’olfatto non riuscirebbero più a sopportare e reggere alla prova…