Trebisacce-25/09/2022: «Il rucculo continuo» Numero 5 – Settembre 2022
«Il rucculo continuo»
Numero 5
Settembre 2022
Un ente pubblico ha l’obiettivo di perseguire l’interesse nazionale e il conseguente benessere dei cittadini; una multinazionale privata ha come unica finalità il profitto e il proprio arricchimento a discapito dei cittadini.
Il gas costa tanto per la crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina?
Non è proprio così.
Qualche anno fa l’Unione Europea ha deciso di deregolamentare il settore del gas: oggi il suo prezzo di vendita viene negoziato in un punto di scambio virtuale, una sorta di borsa con sede legale ad Amsterdam, denominata TTF, Title Transfer Facility. I fornitori, tra cui ENI, acquistano il gas dai produttori e lo rivendono a un prezzo di mercato libero ottenuto a partire da un indice finanziario TTF. Tale indice tiene conto di fattori quali consumi e dinamiche geopolitiche. Attualmente il suo valore è aumentato in modo spropositato a causa dell’approvvigionamento verso nuovi mercati (mercato asiatico e americano), in particolare di quello del Gas liquefatto, il cui costo è passato in poco tempo da 20 euro/MWh a 340 euro/MWh.
Il commercio del gas è totalmente privatizzato e, in uno scenario del genere, gli Stati non hanno quasi più alcun peso, al punto da non riuscire neanche a conoscerne il prezzo d’acquisto dalle compagnie che dovrebbero controllare. La contrattazione del prezzo non è più legata a un mercato che lo stabilisce sulla base della domanda e dell’offerta ma, invece, dall’indice, come si sa, oscillante della speculazione finanziaria.
A chi conviene questo stato di cose?
Nell’ultimo trimestre del 2021 ENI ha aumentato i suoi profitti del 600 per cento. Chi di noi può dire di aver mai aumentato i propri profitti del 600 per cento in tre mesi?
Le nostre bollette sono aumentate per colpa di Putin o per merito di ENI?
Se il gas costa tanto oggi, non è colpa di Putin, ma merito di ENI che nonostante circa 10 anni fa, abbia stipulato un accordo virtuoso con la Russia bloccandone il prezzo, ad oggi decide di venderlo seguendo per il proprio profitto il prezzo imposto dagli indici finanziari.
Dunque, oggi ENI non paga il prezzo del gas determinato dagli indici di borsa, ma un prezzo molto inferiore e segretissimo, sconosciuto ai membri dello stesso governo italiano. A prescindere dai messaggi veicolati dai mass media, non è Putin che fa un bel mazzo a tutti noi privati e alle imprese che stanno alla canna del gas, per così dire.
Si ricorda che ENI, pur essendo una società partecipata dallo Stato, è anche una multinazionale che, come tante altre, tiene per le palle lo Stato e di conseguenza tutti i cittadini.
Cosa può fare lo Stato? Cosa possiamo fare noi?
Sappiamo che ENI, entro il 2024, distribuirà l’extra-profitto ai suoi azionisti che, a gennaio del 2022, erano 314.680. Bisogna tener conto del fatto che 314.656 posseggono lo 0,1% delle azioni. Il resto è riconducibile a soli 24 soci tra cui il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che detiene il 4,4 per cento delle azioni, e CDP S.p.A., Cassa Depositi e Prestiti, che ne detiene il 26 per cento circa. Gli altri grandi investitori fanno capo per lo più a banche e fondi riconducibili a Goldman Sachs, Vanguard, iShares, MFS, BANOR e SAI.
L’Italia usa moltissimo il gas per la produzione di energia, importandolo quasi tutto (il 95 per cento nel 2021) perché, è bene precisarlo con chiarezza, la produzione nazionale è ormai molto limitata e, in generale, sono pochissimi i metri cubi di gas estraibili dai circa duecento piccolissimi giacimenti presenti sul territorio nazionale.
Oltre alla Russia, che fino al 2021 era il nostro maggiore fornitore (copriva il 54% delle nostre importazioni), gli altri paesi da cui l’Italia ha acquistato più gas negli ultimi anni sono l’Algeria (31 per cento delle importazioni nel 2021), il Qatar (9 per cento), l’Azerbaigian (10 per cento) e la Libia (4 per cento).
Negli ultimi mesi la dipendenza italiana dal gas importato dalla Russia è diminuita in modo significativo grazie agli accordi fatti dal governo italiano con altri paesi fornitori, in particolare con l’Algeria e con i paesi del Nord Europa.
Nei primi sette mesi dell’anno è stato importato il 38 per cento in meno di gas russo rispetto allo stesso periodo del 2021 e la dipendenza dalla fornitura russa, cioè la quantità di gas russo sul totale delle importazioni, è passata dal 40 per cento del dicembre 2021 al 18 per cento del luglio scorso.
Le azioni previste dal Ministero della Transizione Ecologica per ridurre ulteriormente questa dipendenza dalla Russia (a cui l’Italia mira a sottrarsi definitivamente entro il 2024) e per far fronte a una crisi di approvvigionamento del tutto slegata dal rincaro delle bollette che interessa cittadini e imprese italiane sono quasi esclusivamente connesse a un accordo stipulato a luglio tra i paesi europei.
Tale accordo prevede la riduzione del 15 per cento del consumo di gas naturale a favore del GNL (Gas liquefatto) di provenienza USA entro il marzo del 2023 (risparmiando circa 8 miliardi di metri cubi di gas) e un’accelerazione nelle procedure per l’installazione di due nuovi rigassificatori, a Piombino l’anno prossimo e a Ravenna nel 2024, di cui si discute molto anche in campagna elettorale.
Si ricorda che solo grazie ai rigassificatori è possibile importare gas naturale liquefatto (che a gennaio del 2022 costava 2,481 euro al chilo) dai paesi non collegati all’Italia attraverso i gasdotti.
In Italia, attualmente, ci sono tre rigassificatori funzionanti. Il più vecchio, situato a Panigaglia, in provincia di La Spezia, ha una produzione massima annuale di 3,5 miliardi di metri cubi e appartiene a Snam, la società che gestisce la rete di gasdotti italiana.
Il più grande dei rigassificatori italiani è invece il Terminale GNL Adriatico, un’isola artificiale che si trova in mare al largo di Porto Viro, in provincia di Rovigo, che ha una produzione massima annuale di 8 miliardi di metri cubi di gas e che è gestito, sputa che ci indovini, dalla grande compagnia petrolifera statunitense ExxonMobil (al 70 per cento), dall’azienda petrolifera statale qatariota Qatar Petroleum (23 per cento) e da Snam (7 per cento).
Infine, c’è una nave rigassificatrice che si trova nel mar Tirreno, al largo della costa tra Livorno e Pisa, che ha una produzione massima annuale di 3,75 miliardi di metri cubi.
Appartiene a Snam per il 49,07 per cento, alla società di investimento First Sentier Investors * per il 48,24 per cento e alla società di noleggio e gestione di navi metaniere Golar LNG per la parte restante.
La geniale soluzione prevista dal ministro della transizione ecologica per far fronte alla crisi energetica prevede, dunque, l’installazione di due nuovi rigassificatori.
Senz’altro diminuirebbe ulteriormente la dipendenza dal gas russo, ma il prezzo pagato dagli italiani sarebbe sensibilmente più alto e, per l’ennesima volta, non si riesce a capire di chi il governo italiano stia facendo gli interessi: dei cittadini o di qualcun altro?
È facile comprendere come la soluzione ministeriale preveda un’ulteriore esposizione della collettività agli interessi privati delle solite multinazionali quando invece sarebbe ancora una volta più che opportuna una scelta politica che miri a recidere una volta per tutte la radice biforcuta del problema.
Cosa succederebbe se si rinazionalizzassero le compagnie oil & gas?
Cosa accadrebbe se il bene pubblico fosse davvero sottratto ai fini di lucro delle multinazionali?
Certamente si disporrebbe di una maggiore facoltà di manovra per far fronte al rincaro artificiale dei costi dell’energia e per avviare la tanto paventata transizione energetica che, al momento attuale, non è che una semplice transazione bancaria.
Accanto alla proposta italiana che è poi quella attualmente valutata dai membri dell’Unione Europea (tra mille contraddizioni) che prevede di imporre un tetto al prezzo del gas. Non tutto, però; magari solo quello russo e magari nemmeno per sempre, ma solo temporaneamente, fino a che non si farà pace e Putin ridiventerà l’amicone di tutto l’Occidente, senza che ci si debba vergognare di lui.
Ad ogni modo, una soluzione che difenda gli interessi dei cittadini non è proponibile in un contesto di gestione iper-capitalistica dei beni comuni (che comuni più non sono) come quello che abbiamo descritto sin qui.
Sarebbe come se andassimo al supermercato e volessimo imporre il prezzo del Parmigiano Reggiano.
Alla cassa ci riderebbero in faccia e chiamerebbero la vigilanza.
Beni come il gas o l’energia in generale possono essere equiparati al Parmigiano? Possono essere di proprietà di un privato o devono appartenere piuttosto alla collettività?
La nostra soluzione è sempre la stessa: proprietà nazionale dei beni comuni con estromissione degli interessi privati dall’energia come dalla sanità, dall’acqua, dall’istruzione, ecc.
Soluzioni differenti per quanto riguarda il gas lascerebbero inalterate le possibilità che in futuro, passata la crisi, il prezzo del gas possa tornare a crescere perché comunque ancora legato agli imprevedibili capricci della borsa di Amsterdam.