Trebisacce-20/10/2022: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXIII dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo.
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXIII dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo.
Il canto-capitolo XXIII e la sesta bolgia degli ipocriti, cerchio ottavo, Malebolge. I dannati procedono lentamente e piangendo in fila, incappucciati e ricoperti da pesanti cappe di piombo dorate all’esterno, a conferma che l’ipocrisia (da ypo, sotto, e crisis, oro; ipocrita significa anche attore, istrione, impostore) si sa camuffare, cela sempre il suo inganno mostrando un bell’aspetto. Il contrappasso (per analogia) consiste nel fatto che come in vita seppero ben mistificare e camuffare le loro ingannevoli parole e azioni, adesso, nell’Inferno, sono in eterno puniti nascondendo i loro falsi volti con un cappuccio e i loro corpi chiusi dentro cappe di piombo dorate esternamente ma, nella sostanza, fatte di materia di scarso valore e oscura come oscuro era stato il loro pensiero e il loro agire. Altri ipocriti giacciono crocifissi al suolo e gli altri peccatori passano su di loro. I frati gaudenti Catalano de’ Malavolti e Loderingo degli Andalò. Virgilio capisce l’inganno di Malacoda e Catalano ironizza sulla sua ingenuità: non avrebbe dovuto fidarsi del consiglio del diavolo! Virgilio, alquanto crucciato e disgustato per l’inganno e ora per l’ironia di Catalano, si allontana da quegli ipocriti e Dante lo segue.
Taciti, soli, sanza compagnia n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, come i frati minor vanno per via. Volt’era in su la favola d’Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov’el parlò della rana e del topo; chè più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’ che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia principio e fine con la mente fissa. E comel’un pensier dell’altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fe’ doppia.
Io pensava così: “Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sì fatta, ch’assai credo che lor nòi. Se l’ira sovra ‘l mal voler fa gueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che ‘l cane a quella lievre ch’elli acceffa.
Già mi sentia tutti arricciar li peli della paura, e stava in dietro intento, quand’io dissi: “Maestro, se non celi te e me tostamente, i’ ho pavento de’ Malebranche: noi li avem già dietro: io li ‘magino sì, che già li sento”. E quei: “S’i’ fossi di piombato vetro, l’imagine di fuor tua non trarrei più tosto a me, che quella dentro impetro. Pur mo venìeno i tuo’ pensier tra’ miei, con simile atto e con simile faccia, sì che d’intrambi un sol consiglio fei. S’elli è che sì la destra costa giaccia, che noi possiam nell’altra bolgia scendere, noi fuggirem l’imaginata caccia”.
Dunque, Dante dice che lui e Virgilio (senza più la malacompagnia dei diavoli) continuano a camminare, l’uno davanti e l’altro dietro, soli e in silenzio, come usano fare i frati minori (cioè i francescani, mettendosi in fila indiana, pregando e meditando). Il mio pensiero, a causa della rissa fatta dai diavoli, andava, era rivolto alla favola di Esopo, in cui narra della storia della rana e del topo; poiché non sono più identiche di significato le parole adesso e ora di quanto siano identiche la favola e la rissa dei diavoli, se si confrontano, paragonano attentamente l’inizio e la fine di entrambe le vicende, gli episodi (Calcabrina si era mosso, apparentemente, per andare in soccorso di Alichino, ma in realtà per attaccarlo, proprio come succede con la rana e il topo: la rana dice di voler aiutare il topo, che, in realtà, vuol fare annegare, legando una sua zampetta alla propria dentro a un fosso ma, dall’alto, un nibbio vorace ha visto la scena e, calandosi velocemente, li afferra entrambi e li divora: anche i due diavoli erano finiti insieme nella pece rischiando di rimanervi dentro).
E come un pensiero scaturisce, nasce improvvisamente da un altro, così da quello ne era scaturito un altro, il quale mi ha raddoppiato la precedente paura (avuta quando si era deciso che a fare da scorta fossero i dieci diavoli). Dante pensa che i diavoli sono stati scherniti così duramente, per colpa sua e di Virgilio, e con beffa e danno tali che, certamente, ne sono dispiaciuti, offesi e risentiti. E, quindi, se all’ira si aggiunge anche la malvagità dei diavoli, certamente li staranno inseguendo (per vendicarsi), resi più crudeli di quanto non sia il cane con la lepre che cerca di afferrare, azzannare. Pertanto, Dante sente arricciare tutti i peli, cioè si sente rabbrividire dalla paura, e sta ben attento a quel che succede dietro di loro, e dice a Virgilio che lui ha paura dei Malebranche e dovrebbe provvedere a nascondere lui e se stesso, perché crede di averli già alle spalle: li immagino così tanto, da sentirli alle nostre spalle. Virgilio gli risponde che se lui fosse uno specchio non rifletterebbe l’immagine esteriore di Dante più rapidamente di quanto riesce ad osservare quella interiore (ovvero i pensieri, i sentimenti e le sensazioni). Infatti, proprio adesso, mentre tu pensi a queste cose, i tuoi pensieri si mescolano con i miei, cioè coincidono perfettamente, e non diversi nei miei atti e nell’aspetto, tanto che dai tuoi dai miei pensieri ho ricavato un’unica decisione: poniamo che sia vero che la parte destra dell’argine non sia molto ripida, tanto da poterci consentire di discendere nell’altra bolgia (la sesta), noi potremmo evitare, sfuggire all’inseguimento che tu immagini, al quale stai pensando.
Mentre Virgilio non finisce di dire quelle parole, ecco che quello che più Dante teme rischia di diventare realtà; Virgilio, però, come una madre premurosa (la protezione della Ragione), lo mette in salvo come si fa con un figlio e, stringendolo al petto, si fa scivolare in giù verso la sesta bolgia, dove i diavoli non hanno giurisdizione: Dio vieta loro di andare oltre la quinta bolgia, di cui sono i feroci guardiani: Già non compiè di tal consiglio rendere, ch’io li vidi venir con l’ali tese non molto lungi, per volerne prendere. Lo duca mio di subito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sè cura, tanto che solo una camicia vesta; e giù dal collo della ripa dura supin si diede alla pendente roccia, che l’un de’ lati all’altra bolgia tura.
Non corse mai sì tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand’ella più verso le pale approccia, come ‘l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra ‘l suo petto, come suo figlio, non come compagno. A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch’e’ furono in sul colle sovresso noi; ma non li era sospetto; chè l’alta provedenza che lor volle porre ministri della fossa quinta, poder di partirs’indi a tutti tolle.
Dunque, Virgilio non fa in tempo a esporre, a suggerire la sua decisione, quando Dante vede venire verso di loro, non molto lontano, i diavoli con le ali aperte per cercare di afferrarli. Virgilio, però, prontamente, lo afferra (similitudine, come sempre calzante) proprio come fa una madre che si sveglia alle grida d’allarme e di paura della gente e che vede vicino a sé le fiamme di un incendio: prende il figlio, fugge per salvarlo e non si ferma, avendo cura, preoccupandosi più di lui che di se stessa, tanto da fuggire mezza nuda, poco vestita; e (Virgilio, con Dante stretto tra le sue braccia) si lascia scivolare, supino, giù per il pendio, per l’orlo, l’argine della dura roccia che chiude saldamente uno dei lati della sesta bolgia. Così veloce (come Virgilio) non è corsa mai acqua da un canale (o condotto) per far girare la ruota di un mulino di terraferma (c’erano anche quelli posti su zattere nei fiumi), quando l’acqua più si avvicina alle pale della ruota, quando cioè l’inclinazione del canale è maggiore e l’acqua può scorrere più velocemente, come è corso il maestro da quella costa rocciosa, portando Dante sul suo petto come un figlio e non come un semplice compagno di viaggio.
Non appena i piedi di Virgilio riescono ad appoggiarsi sul piano, sul suolo della sesta bolgia, i diavoli appaiono sulla sommità, sulla parte alta dell’orlo della quinta bolgia, proprio sopra di loro, ma non c’era da aver paura, poichè la Divina Provvidenza, che ha voluto collocarli come guardiani della quinta bolgia, ha tolto a tutti loro ogni potere di allontanarsi di là, di potersi spingere più oltre e di poter varcare i confini della sesta.
Segue il racconto della nuova schiera di dannati che si trovano davanti ai loro occhi, con tutti i particolari e i dettagli di un reportage da inviato speciale: Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta. Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi alli occhi, fatte della taglia che in Clugny per i monaci fassi. Di fuori dorate son, sì ch’elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto; ma per lo peso quella gente stanca venìa sì pian, che noi eravam novi di compagnia ad ogni mover d’anca. Per ch’io al duca mio: “Fa che tu trovi alcun ch’al fatto o al nome si conosca, e li occhi, sì andando, intorno movi”: Laggiù i due Poeti trovano peccatori con vesti di colore vivo (cappe dorate), che girano, camminano per la bolgia con passi molto lenti, piangono e sembrano nell’aspetto stanchi (per il peso delle cappe di piombo), abbattuti, sfiniti e vinti (soprattutto moralmente, per la grave pena loro inflitta). Questi dannati hanno come abito delle cappe di piombo con (sulla testa) cappucci abbassati fino agli occhi, fatte nella stessa foggia, maniera e misura in cui sono fatte le cappe per i monaci del monastero benedettino di Cluny (in Francia). Esse sono dorate di fuori, all’esterno, tanto che abbagliano (gli ipocriti riescono ad abbagliare perché sanno ingannare) ma, dentro, la loro vera sostanza è di piombo (perché sono tutta falsità e bugia) e così pesanti che, in confronto, quelle che (secondo una leggenda) Federico II di Svevia faceva indossare ai colpevoli di lesa maestà, per punirle, erano leggerissime.
E Dante, di fronte all’ipocrisia che è solo tanta apparenza che abbaglia mentre sotto si nasconde il piombo dell’inganno, della frode e della menzogna, non può che lanciare una delle sue opportune esclamazioni: Oh manto opprimente (e poco regale…) che sarà eternamente indossato (da questi peccatori)! Quindi, ci fa sapere che lui e Virgilio proseguono, come al solito, camminando sulla sinistra, nella loro stessa direzione, attenti ad osservare questi malvagi mentre piangono dolorosamente, tristemente per la loro pena; ma quelle anime dannate, sfinite per il peso delle loro cappe, camminano così lentamente che i due Poeti si ritrovano con nuovi peccatori ad ogni passo.
Dante, che vuol sapere se tra i puniti c’è qualcuno che conosce, chiede a Virgilio di fare in modo di scoprire se c’è qualcuno che sia noto per il suo nome o per le sue azioni da vivo e: mentre continuiamo a camminare, guardati intorno (e cerca di puntare gli occhi su qualcuno che conosciamo).
Un dannato alle loro spalle, che ha riconosciuto la parlata, l’accento toscano di Dante (e un che ‘ntese la parola tosca, di retro a noi), si mette a gridare: Tenete i piedi, voi che correte sì per l’aura fosca! Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi: Fermatevi, voi che (rispetto a loro…) andate così speditamente attraverso l’atmosfera, l’aria tenebrosa, oscura (dell’Inferno). Forse potrai ottenere, sapere da me quel che tu desideri (di sapere). Allora, Virgilio, si volta verso Dante e gli dice di aspettare, e poi secondo il suo passo procedi: e poi cammina adeguandoti al suo incedere, al suo passo. Dante si ferma, aspetta e vede due anime mostrar gran fretta dell’animo, col viso, d’esser meco; ma tardavali ‘l carco e la via stretta: mostrano, dall’espressione del volto, grande ansia dell’animo di essergli vicino, ma sono impediti nei movimenti dal peso della cappa e dalla via angusta (per i tanti dannati e per l’ingombro creato dalle cappe). Una volta giunti vicino a Dante (quando fuor giunti), lo guardano a lungo di sbieco, di traverso (per via dei cappucci) senza dir parola (assai con l’occhio bieco mi rimiraron sanza far parola); poi si guardano l’un l’altro e dicono tra di loro (poi si volsero in sé, e dicean seco): Questi, dal movimento della gola (cioè dal respiro) sembra vivo (costui par vivo all’atto della gola), ma se sono morti, per quale privilegio procedono privi, senza la pesante cappa (come noi)? (e s’e’ son morti, per qual privilegio vanno scoperti della grave stola?). Poi dicono a Dante: O tosco, ch’al collegio dell’ipocriti tristi se’ venuto, dir chi tu se’ non aver in dispregio: O toscano, che sei giunto presso la schiera, la compagnia degli infelici ipocriti, non disdegnare, non rifiutarti di dirci chi sei. E Dante risponde, non si nega e poi chiede a sua volta: I’ fui nato e cresciuto sovra ‘l bel fiume d’Arno alla gran villa, e son col corpo ch’i ho sempre avuto. Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant’i’ veggio dolor giù per le guance? E che pena è in voi che sì sfavilla?: Sono nato e cresciuto, vissuto nella grande città di Firenze sul fiume Arno, e sono qui col corpo che ho sempre avuto. Ma voi (piuttosto) chi siete, voi a cui un così grande dolore, come vedo, fa scendere sulle guance tante lacrime? E qual è la pena che siete chiamati a scontare, ad espiare che sembra risplendere così tanto (ricoperti come siete di apparente oro)? (Ma non è tutto oro quello che luccica! E se si guarda bene sotto, emerge che è tutto vile piombo, il piombo malvagio, velenoso dell’ipocrisia).
Uno di loro risponde a Dante. È il bolognese Catalano, frate gaudente dell’ordine religioso e militare dei Cavalieri di Maria Vergine Gloriosa, istituito nel 1261 con il fine di far regnare (a parole…) la pace nell’ambito delle lotte politiche di partito e di famiglie potenti e per proteggere i deboli dai prepotenti. Apparteneva alla famiglia guelfa dei Malavolti, fu tra i fondatori dell’ordine citato, più volte podestà a Milano, Parma e Piacenza e, insieme all’altro potente dannato Loderingo (della famiglia ghibellina degli Andalò) governò Bologna e Firenze quando Dante era di pochi anni; morì nel 1285. Questi potenti frati gaudenti avevano ben poco di spirituale e molto di materiale e terreno, mondano, tanto che tra il popolo si ironizzava sul loro essere realmente gaudenti e goderecci su questo mondo (perché tutto l’altro interessava loro ben poco…). Loderingo fu tra i principali fondatori dell’ordine dei Frati Gaudenti e, insieme a Catalano, da consumati e incalliti ipocriti, nel 1266 tramarono contro la Casa di Svevia favorendo, sotto sotto, il partito guelfo in sintonia con l’intrigante papa Clemente IV che voleva fare della Toscana un lago guelfo. Morì nel 1293.
Dunque, Catalano replica a Dante e gli dice che non è tutto oro quello che luccica: Le cappe dorate (rance, color arancia, gialle) sono di piombo e così piene, pesanti (son di piombo sì grosse), che il loro peso ci fa lamentare, gemere come un peso eccessivo fa cigolare le bilance (che li pesi fan così cigolar le loro bilance). Siamo stati frati Gaudenti, di Bologna, ci chiamiamo Catalano e quest’altro Loderingo (frati Godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati), fummo scelti dalla tua Firenze come podestà, come di solito viene scelto un uomo solo (loro sono due in uno!…), per far trionfare la pace, cioè per impedire guerre civili, fratricide; e siamo stati così conservatori di pace, pacificatori (qui c’è sottile ironia) che tuttora si possono comprendere e osservare bene i risultati del nostro operato attraverso il Gardingo (e da tua terra insieme presi, come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali ch’ancor si pare intorno al Gardingo). (Il Gardingo era, all’origine, una torre longobarda che, poi, finì per indicare la località circostante che si trovava nella città di Firenze, e nei pressi fu costruito il Palazzo della Signoria; lì c’erano le abitazioni degli Uberti che vennero fatte abbattere dalla parte guelfa, durante il governo dei due ipocriti e potenti frati. Altro che pacificatori e benefattori dei deboli!…).
Segue un tentativo di risposta di Dante: Oh frati, i vostri mali…, ma non sarebbe certo seguito: a lacrimar mi fanno tristo e pio… come fu per Francesca da Rimini… Certamente, è da immaginare: i vostri mali sono stati così gravi che adesso è giusto che paghiate con una pena ben adeguata, anche nell’aspetto, vista l’ipocrisia e la fraudolenza con cui siete vissuti… Dante, però, lascia alla nostra intelligenza il seguito di quello che avrebbe potuto aggiungere e scrive: ma più non dissi, ch’all’occhio mi corse un crucifisso in terra con tre pali: i suoi occhi vedono improvvisamente un’altra più terrificante scena da film di horror: un dannato punito con la crocifissione sul suolo, conficcato in terra con tre pali (due per le mani, uno per i piedi e senza chiodi). Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando nella barba con sospiri; e ‘l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse, mi disse: “Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenìa porre un uom per lo popolo a’ martiri. Attraversato è, nudo, nella via, come tu vedi, ed è mestier ch’el senta qualunque passa, come pesa, pria. E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa”: Quando il conficcato che è Caifa) vede Dante, incomincia a contorcersi, ad agitarsi (per la rabbia e il disonore di esser visto in quel modo da un vivo), soffiando nella barba con i suoi dolorosi sospiri (di impotente fastidio e rabbia); e l’ipocrita Catalano, che si era accorto della scena (la distrazione di Dante per l’inedita punizione e il contorcersi del dannato), gli spiega di chi si tratta: quel crocifisso in terra è Caifa, sommo sacerdote ebreo che, nel sinedrio, sostenne, appoggiato dagli altri sacerdoti e dai Farisei, la necessità di mandare a morte Gesù per il bene di tutto il popolo. Come puoi vedere, è nudo e messo di traverso lungo la via (come un ostacolo, un impedimento per gli altri), e perciò è inevitabile che, prima, senta il peso di chiunque passi (e lo calpesta e preme col peso della cappa, e lì passano tutti eternamente… Un terribile supplizio e, metaforicamente, vuol dire sentire in eterno quanto sia grave il peso dell’ipocrisia). Con la stessa pena – prosegue Catalano, a cui, certo, giova spostare il discorso da lui e dirottarlo su altri castigati – sono puniti e soffrono, in questa bolgia, il suocero Anna (altro pontefice ebreo) e tutti gli altri (sacerdoti e farisei) che hanno partecipato all’assemblea del sinedrio da cui sono uscite decisioni (mandare a morte Gesù) che sono all’origine dei mali, delle sventure degli ebrei (la distruzione di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito nel 70 d. C. e poi la diaspora, la dispersione del popolo ebraico).
A queste parole e a quello spettacolo, Virgilio resta perplesso, turbato, mostra stupore e Dante se ne accorge: non riusciva a comprendere come quell’anima fosse punita in quel particolare e orribile modo (calpestato da tutti), così umiliante, avvilente nell’Inferno che è eterna dannazione, esilio perpetuo per coloro a cui la patria celeste è vietata (allor vid’io maravigliar Virgilio sovra colui ch’era disteso in croce tanto vilmente nell’etterno essilio). (Secondo più di un commentatore, lo stupore e la perplessità di Virgilio è dovuto al fatto che nel suo primo viaggio, prima della morte di Cristo, quelle anime punite in quel modo non c’erano).
Dopo quel momento di turbato stupore, Virgilio drizzò al frate cotal voce, domanda con queste parole: Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s’alla man destra giace alcuna foce onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costringer delli angeli neri che vegnan d’esto fondo a dipartirci: Se vi è possibile, se potete, non vi dispiaccia di dirci se sul lato destro (perché loro sono sulla sinistra) si trovi un qualche passaggio agevole, attraverso il quale noi due possiamo uscire da qui, senza obbligare, costringere qualche diavolo a venire in questa bolgia per aiutarci a proseguire oltre (ad allontanarci da questo luogo). Catalano, allora, replica così alla domanda del maestro: Più che tu non speri s’appressa un sasso che dalla gran cerchia si move e varca tutt’i vallon feri, salvo che ‘n questo è rotto e nol coperchia: montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia: Più di quanto tu possa sperare, qui vicino c’è un ponte di pietra, roccioso che dal muro esterno di Malebolge (dell’ottavo cerchio) attraversa tutte le orribili bolge, tranne che in questa sesta bolgia il ponte è rotto, rovinato, franato e, quindi, non la copre, non le può fare da passaggio; potrete, però, salire su per la frana, per le macerie del ponte franato che forma un pendio meno ripido con un rialzo al fondo della bolgia. (Malacoda aveva detto che un ponte c’era e, invece, i ponti erano tutti crollati e franati in seguito al terremoto seguito alla morte di Gesù).
Virgilio rimane a testa china, perchè sta riflettendo sull’inganno-depistaggio di Malacoda e dice con amarezza e irritazione: Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina: Narrava male la faccenda dei ponti, cioè spiegava in modo ingannevole, ci indicava male il diavolo (Malacoda) che, nella quinta bolgia, colpisce, strazia i dannati con l’uncino… Catalano, il consumato ipocrita, maestro di inganni e menzogne, se la ride sotto i baffi perché ha, diabolicamente, compreso l’inganno, la beffa di cui è stato vittima Virgilio. Dice: Io udi’ già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra’ quali udi’ ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna: (io sono un esperto, ne so più di qualcosa, perché) ho sentito tempo fa spiegare, raccontare, nelle scuole teologiche di Bologna, dei molti vizi del diavolo, tra cui ho sentito dire che è bugiardo e padre, maestro di menzogna (come dire: possibile che tu non lo sapessi e che sei caduto nell’inganno? Ti sei fatto ingannare da un diavolo…).
Catalano, insomma, mostra di essere compiaciuto per la beffa e l’inganno subìto da Virgilio e anche da Dante ad opera del diavolo che è l’ingannatore per eccellenza, per antonomasia. Virgilio è arrabbiato e avvilito per l’inganno, per cui: Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d’ira nel sembiante; ond’io da li ‘ncarcati mi parti’ dietro alle poste delle care piante: Dopodichè, cioè dopo le parole sottilmente ironiche dell’ipocrita, Virgilio si allontana velocemente (da quell’orribile luogo) con un po’ d’ira sul volto; per cui anch’io mi allontano dai dannati con le cappe di piombo, seguendo le orme dei cari piedi del mio maestro. La Ragione, qualche volta, può anche cadere in errore o in qualche inganno ordito dai più malvagi, ma guai a non avere fiducia in essa e smettere di seguirla; e l’illuminista Dante continua a seguirla, nella consapevolezza-convinzione che senza di essa l’uomo non sarebbe altro che una bestia come tutte le altre e che solo la Ragione e la Fede, in perfetta sintonia-armonia, possono elevare e salvare l’uomo dal Male, dall’abiezione e dalla perdizione.