Trebisacce-27/07/2023: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie /Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXXI dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.  Protagonisti sono i giganti ribelli alla divinità: Nembrot, Fialte e Anteo.

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Salvatore La Moglie

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXXI dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.  Protagonisti sono i giganti ribelli alla divinità: Nembrot, Fialte e Anteo.

 

Il canto-capitolo XXXI. Discesa nel nono cerchio. Il pozzo dei giganti. Nembrot, Fialte e Anteo. Il contrappasso (per contrasto), per i giganti, consiste nel fatto che per aver usato tutta la loro smisurata potenza fisica per ribellarsi, con empietà, alla divinità (Dio o Giove), nell’Inferno sono puniti stando nel pozzo centrale immobilizzati da robuste catene. Solo Anteo non è legato perché non ha partecipato alla ribellione. Sarà lui a prendere i due Poeti con le sue mani possenti e a deporli sul fondo ghiacciato del Cocito, dove sono confitti, conficcati Lucifero e Giuda, i due più grandi traditori di Dio e di Cristo, suo figlio.

 Un canto-capitolo ricco di similitudini quello del nono cerchio e tutte, come sempre, calzanti, azzeccate e memorabili. Virgilio e Dante stanno per concludere il loro folle viaggio attraverso il mondo oscuro e tenebroso dell’Inferno, dove è racchiuso e concentrato tutto il Male del mondo, il Male di cui l’uomo è capace di fare all’altro uomo, ieri come oggi e certamente anche domani, nonostante il sacrificio di Cristo, sacrificio che, certamente, l’uomo non ha meritato.

Dunque, il canto-capitolo inizia con Dante che riflette sul severo rimprovero di Virgilio che ha costituito una lezione morale, di vita e la cui parola, prima abbastanza dura poi s’era fatta rassicurante, consolatoria, capace di risarcire una ferita (interiore), proprio come la prodigiosa lancia di  Peleo e di Achille che, con il primo colpo feriva e con il secondo risanava la ferita. Quindi i due poeti continuano il loro silenzioso cammino nel buio crepuscolare, tra un cerchio e l’altro, quando, a un tratto, sentono il suono fortissimo di un corno: Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l’una e l’altra guancia, e poi la medicina mi riporse: così od’io che soleva la lancia d’Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia.

Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che ‘l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone. Quiv’era men che notte e men che giorno, sì che ‘l viso m’andava innanzi poco; ma io senti’ sonare un alto corno, tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. Dopo la dolorosa rotta quando Carlo Magno perdè la santa gesta, non sonò sì terribilemente Orlando: La stessa lingua (di Virgilio) prima mi ha fatto vergognare con il suo rimprovero, tanto da farmi arrossire tutto il volto, e poi mi ha consolato (ha fatto da medicina contro il morso) con parole amorevoli, proprio così come ho sentito dire che era solita fare la lancia di Achille e del padre Peleo (che prima era stata di questi), che al primo lancio procurava la ferita e al secondo la guariva, la risarciva.

Noi abbiamo voltato le spalle alla malvagia e miserabile decima bolgia, procedendo lungo l’argine roccioso che la cinge tutta intorno (e che separa l’ottavo dal nono cerchio), attraversandola (in direzione del pozzo centrale) senza parlare, in silenzio. In quel luogo c’è una luce crepuscolare, molto scarsa, tanto che la vista non arriva molto lontana; ma ho sentito suonare un corno così potente, forte, fragoroso che avrebbe fatto apparire fioco, debole ogni altro tuono, il quale suono (prolungato) ha fatto puntare l’attenzione dei mie occhi tutto su di un punto, un luogo ben preciso, ma facendomi percorrere la direzione opposta a quella da dove proveniva. Dopo la dolorosa rotta, sconfitta (di Roncisvalle, ad opera dei Saraceni, il 15 agosto 778), quando Carlo Magno ha perduto la schiera dei paladini (difensori della fede), Orlando non ha suonato altrettanto terribilmente (con il suo corno Olifante, per chiedere soccorso).

Quindi, Dante ha l’impressione di vedere delle torri alte e chiede a Virgilio in quale città sono capitati; il maestro, però, gli spiega che la vista, l’oscurità e la distanza fanno sì che si stia ingannando, che ha, cioè, preso un abbaglio, perché, in verità, quelli sono dei giganti (i giganti del pozzo centrale) e non delle torri, come lui ha immaginato che fossero; e, per rassicurarlo, lo prende caramente per una mano:  Poco portai in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond’io: “Maestro, di’, che terra è questa?”. Ed elli a me: “Però che tu trascorri per le tenebre troppo dalla lungi, avvien che poi nel maginare abborri. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto ‘l senso s’inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi”.

Poi caramente mi prese per mano, e disse: “Pria che noi siam più avanti, acciò che ‘l fatto men ti paia strano, sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno dalla ripa dall’umbelico in giuso tutti quanti”: Sono stato poco con la testa, con lo sguardo rivolto verso quel luogo, quel punto, quella direzione (da dove proveniva il suono), quando mi è sembrato di vedere molte alte torri, per cui ho chiesto a Virgilio che città (ben fortificata) fosse quella (in cui ci siamo trovati). Virgilio mi ha risposto che: Siccome tu con gli occhi, con lo sguardo, corri, ti spingi, attraverso le tenebre, troppo lontano, succede che, poi, finisci per immaginare una cosa diversa da quella realmente vista (cioè: la tua immaginazione sbaglia, erra, si confonde, non percepisce bene). Potrai vedere bene, se tu giungi fin là, se ti avvicini (a quello che si intravede appena), quanto, come la vista, da lontano, s’inganna; perciò, cerca di affrettarti un po’, accelera il passo (come dire: datti una mossa!). Quindi, Virgilio, (come un padre che vuole rassicurare) prende affettuosamente per mano il discepolo e gli dice: Prima che noi arriviamo più avanti, affinchè il fatto (quello che vedremo) ti appaia meno straordinario, insolito (e non ti spaventi più di tanto), sappi che quelle non sono torri (come hai pensato tu) ma giganti che stanno nel pozzo centrale (che è al centro di Malebolge) intorno all’argine roccioso, (e si vedono, emergono, fuori dall’argine, dall’orlo) dall’ombelico, dalla cintola in su (un po’ come Farinata, ma qui non si tratta di un torreggiare per statura politico-morale ma per enormità fisica).

Segue una similitudine che introduce alla spaventosa vista dei giganti-torre, per poi soffermarsi sulla natura che ha creato anche certe mostruosità come i giganti (e tuttora, per fortuna, solo gli elefanti e le balene…) e presentare, poi, l’incontro con uno di essi, cioè il biblico Nembrot che, per via della Torre di Babele, parla uno strano linguaggio e che come, gli altri giganti, è soltanto un’enorme massa di carne, dotata di straordinaria forza fisica, di moltissima cattiveria e ferocia, ma di pochissima intelligenza, come sottilmente gli dirà Virgilio, che lo tratta da quell’ottuso che è. Una breve nota sui giganti: essi erano figli di Urano e di Gea, la Terra; smisurati, violenti e dotati di forza sovrumana, vollero fare la loro scalata, il loro assalto al cielo ma furono sconfitti da Giove, che li abbattè con un fulmine nella pianura di Flegra. Qui Dante accomuna, nella stessa pena, sia i giganti biblici che quelli della mitologia greca, ex ribelli ora ridotti all’impotenza rabbiosa e costretti in un pozzo, magari all’impiedi, appoggiati su qualcosa di simile a un gradino che, a sua volta, poggia sul piano ghiacciato del Cocito. Dunque: Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela il vapor che l’aere stipa, così forando l’aura grossa e scura, più e più appressando ver la sponda, fuggìemi errore e crescìemi paura; però che come sulla cerchia tonda Monteroggion di torri si corona, così [‘n] la proda che ‘l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tona. E io scorgeva già d’alcun la faccia, le spalle e ‘l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia. Natura certo, quando lasciò l’arte di sì fatti animali, assai fe’ bene per tòrre tali esecutori a Marte. E s’ella d’elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, più giusta e più discreta la ne tene; chè dove l’argomento della mente s’aggiugne al mal volere e alla possa, nessun riparo vi può far la gente.

La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l’altre ossa; sì che la ripa, ch’era perizoma, dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto di sopra, che di giungere alla chioma tre Frison s’averìen dato mal vanto; però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi dal luogo in giù dov’uomo affibbia ‘l manto. “Raphèl may amèch zabì almì” cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi.

E ‘l duca mio ver lui: “Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand’ira o altra passion ti tocca! Cercati al collo, e troverai la soga che ‘l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che ‘l gran petto ti doga”. Poi disse a me: “Elli stesso s’accusa; questi è Nembròt per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s’usa. Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; chè così è a lui ciascun linguaggio come ‘l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”: Come quando la nebbia si scioglie, si dirada, gli occhi, lo sguardo, a poco a poco, comincia a discernere, a distinguere meglio ciò che essa nasconde quando rende densa l’aria, così, allo stesso modo, penetrando con gli occhi l’aria densa e oscura, poco illuminata, avvicinandomi sempre di più all’orlo del pozzo, si dileguava l’errore (di aver creduto torri quei giganti) e aumentava la paura (della vista dei giganti); poiché, infatti, come il castello di Monteroggioni (in provincia di Siena, fatto erigere per difendersi da Firenze), sulla sua rotonda cerchia di mura è coronato di (alte) torri, così, sull’argine che circonda il pozzo, si ergono come torri, torreggiano col busto (dalla cintola in su) gli orribili, mostruosi giganti che Giove ancora minaccia dal cielo quando fa tuonare.

Io comincio a scorgere, a distinguere il volto di uno dei giganti, le spalle, il busto e gran parte del ventre, e le braccia pendenti, cascanti lungo i fianchi. Certamente, la Natura, quando ha smesso di produrre, di creare tali mostri, ha fatto molto bene (è stata saggia) perché così, in tal modo ha tolto a Marte (dio della guerra) feroci e potenti guerrieri, esecutori di imprese belliche (distruttive). E se la Natura non si pente, non cessa ancora di generare, creare elefanti e balene, chi sa ben guardare, chi guarda con molta attenzione, la giudica, la ritiene (cioè ritiene questo) cosa giusta e saggia; perché, dove la ragione, la capacità razionale, la forza della ragione (che, i giganti, pur avevano) si unisce, si aggiunge alla volontà di fare il male e alla possibilità, al potere di farlo, (ebbene) per gli uomini non vi è alcuna possibilità di porvi riparo, agli uomini non è possibile opporre alcuna difesa.

La sua faccia mi sembrava lunga e grossa come la pigna di bronzo di San Pietro a Roma (in Vaticano), e le altre membra proporzionate (alla faccia, alla testa); cosicchè, l’argine, la sponda del pozzo, che fa da perizoma (vestimento greco che copriva il sesso femminile), cioè nasconde il corpo del gigante dalla cintola in giù, ne fa emergere, ne mostra tant’altro dalla parte di sopra, cioè dalla cintola in su, tanto che tre uomini (pure tanto alti…) della Frisia (regione dell’odierna Olanda), messi l’uno sull’altro, non potrebbero vantarsi di aver raggiunto i suoi capelli; infatti, io ne ho potuto vedere (del gigante) circa 8 metri (dei quasi 25 totali) a partire dalla clavicola, dalle spalle dove ci si allaccia il mantello con la fibbia (fino all’orlo del pozzo). Poi l’orribile, enorme bocca ha comiciato a urlare parole incomprensibili (frutto della babelica confusione delle lingue), a cui non si addicono, non si adattano (è detto con ironia…) parole, discorsi più dolci (salmi). E Virgilio (che pure sa che Nembrot non lo comprenderà ma sa benissimo che lo comprenderemo noi lettori di ieri e di oggi: per questo Dante gli fa rispondere, con buona pace di chi si è domandato, per secoli, come mai Virgilio abbia replicato), Virgilio gli ribatte rivolgendo lo sguardo nella sua direzione: Anima stupida, sciocca, accontentati di usare il corno e con quello sfogati (suonando) quando sei preso, assalito da ira o da altro violento sentimento! Toccati al collo e troverai la cinghia che lo tiene legato (il corno), o mente ottusa, ottenebrata (punita da Dio per averlo, con superbia, sfidato), e potrai vedere che il corno ti cinge, ti fascia con la sua striscia, cinghia di cuoio (come la doga di una botte) l’enorme petto.

Virgilio, poi, rivolgendosi a me, mi ha detto: Egli si smaschera, si accusa da solo (con il suo oscuro linguaggio di essere l’autore della confusione delle lingue); questi è Nembrot (primo re di Babilonia) a causa del cui malvagio, empio, folle pensiero (di costruire la Torre di Babele, così alta da raggiundere il cielo, sfidando, così, Dio per volersi misurare con Lui), nel mondo non si usa un unico linguaggio, una sola lingua. Lasciamolo stare (lì dov’è) e non parliamo (più) inutilmente; poiché per lui ogni linguaggio è incomprensibile, come, agli altri, il suo, che non è conosciuto da nessuno.

Quindi, i due Poeti continuano il loro cammino, procedendo sulla sinistra, e vedono un altro più smisurato gigante: è Fialte. Dante è spaventato a morte ma poi si tranquillizza perché Fialte è legato; dice che gli farebbe piacere vedere Briareo ma Virgilio gli risponde che, invece, vedranno Anteo (che parla una lingua comprensibile), al quale chiederà di deporli sul fondo ghiacciato dell’ultimo cerchio, dove sono conficcati Lucifero con Giuda. Anteo, persuaso dall’accattivante retorica di Virgilio (c’è captatio benevolentiae) che gli promette futura gloria per quello che farà, visto che Dante è vivo è potrà narrare di lui una volta ritornato sulla Terra, accetta di buon grado e non se lo fa ripetere per la seconda volta. E, così, li prende con la sua mano e li depone sul fondo del Cocito: Facemmo dunque più lungo viaggio, volti a sinistra; ed a trar d’un balestro trovammo l’altro assai più fero e maggio. A cinger lui qual che fosse ‘l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l’altro e dietro il braccio destro d’una catena che ‘l tenea avvinto dal collo in giù, sì che ‘n su lo scoperto si ravvolgea infino al giro quinto. “Questo superbo volle essere sperto di sua potenza contro al sommo Giove” disse ‘l mio duca, “ond’elli ha cotal merto. Fialte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a’ dei: le braccia ch’el menò, già mai non move”. E io a lui: “S’esser puote, io vorrei che dello smisurato Briareo esperienza avesser li occhi miei”. Ond’ei rispuose: “Tu vedrai Anteo presso di qui che parla, ed è disciolto, che ne porrà nel fondo d’ogni reo. Quel che tu vuo’ veder, più là è molto, ed è legato e fatto come questo, salvo che più feroce par nel volto”.

Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fialte a scuotersi fu presto. Allor temett’io più che mai la morte, e non v’era mestier più che la dotta, s’io non avessi viste le ritorte. Noi procedemmo più avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa uscìa fuor della grotta.

“O tu che nella fortunata valle che fece Scipion di gloria reda, quand’Annibal co’ suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda, e che se fossi stato all’alta guerra, de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda ch’avrebber vinto i figli della terra; mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra. Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; però ti china, e non torcer lo grifo. Ancor ti può nel mondo render fama, ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta se innanzi tempo Grazia a sé nol chiama”.

Così disse ‘l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese il duca mio, ond’Ercule sentì già grande stretta. Virgilio, quando prender si sentìo, disse a me: “Fatti qua, sì ch’io ti prenda”; poi fece sì ch’un fascio era elli e io.

Qual parea a riguardar la Garisenda sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada sovr’essa sì, che ella incontro penda; tal parve Anteo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch’i avrei voluto ir per altra strada. Ma lievemente al fondo che divora lucifero con Giuda, ci sposò; né, sì chinato, lì fece dimora, e come albero in nave si levò: (Io e Virgilio) abbiamo, allora, proceduto oltre per un tratto di via più lungo del precedente, tenendoci sulla sinistra; e, alla distanza di un tiro di balestra,  abbiamo trovato l’altro gigante, assai più feroce (nell’aspetto) e più grande (di statura). Io non so dire chi sia stato il fabbro che l’ha incatenato (Dio, probabilmente), ma (si poteva vedere che) aveva il braccio sinistro legato sul petto e quello destro legato dietro con una catena che lo teneva bel stretto dal collo in giù, in modo tale che intorno al torace, cioè la parte del corpo che si vedeva, (la catena) si ravvolgeva per ben cinque volte, faceva ben cinque giri (come dire che era ben immobilizzato e ridotto all’impotenza più assoluta).

Virgilio spiega a Dante che: Questo empio ha voluto sperimentare la sua potenza contro il sommo Giove (con la scalata al cielo), e per questo adesso è premiato così (ironia, per dire: è punito con queste catene per l’eternità). Il suo nome è Fialte (o Efialte, figlio di Nettuno e di Ifimedia) e ha dato prova della sua smisurata forza (nella battaglia di Flegra) quando i giganti hanno fatto paura persino agli Dei (gigantomachia): quelle braccia che ha usato, agitato (contro la divinità), non le muoverà più (per l’eternità, e questa è la sconfitta e punizione di chi, per superbia, ha voluto sfidare Dio o Giove che dir si voglia).

Dante chiede poi a Virgilio: Se è possibile, vorrei che i miei occhi vedessero, (facessero diretta conoscenza del) lo smisurato Briareo (il più terribile, il più mostruoso dei giganti, figlio di Urano e della Terra, da Dante umanizzato come gli altri, diversamente dalla versione di Virgilio, come accade per tanti altri personaggi o esseri favolosi e mitologici). Virgilio gli risponde che: Tu (fra poco) vedrai, qui vicino, Anteo (figlio di Nettuno e della Terra), che parla (una lingua comprensibile) e non è legato (perché non ha partecipato all’assalto al cielo contro Giove e gli altri Dei), il quale ci deporrà nel fondo di tutti i mali (il nono cerchio dell’Inferno). Quello che tu vuoi vedere (Briareo), si trova molto più lontano, è legato ed è uguale a Fialte, salvo che appare più feroce, più terribile nell’aspetto.

Non c’è mai stato terremoto più violento, tanto da scuotere così fortemente una torre, come è stato pronto Fialte a scuotersi (improvvisamente, nel sentire le parole di Virgilio). Allora ho temuto più di ogni altra volta la morte, e sarebbe bastata solo la paura (a farmi morire), se non avessi visto le catene (che ben immobilizzavano il gigante).

Quindi, noi abbiamo proceduto nel cammino e siamo arrivati dov’era Anteo che usciva, emergeva fuori dall’orlo, dall’argine del pozzo (cioè dal pozzo tout court) per ben 7 metri e mezzo, esclusa la testa! (La alla era una misura fiamminga e le 5 alle, rapportate al braccio fiorentino, erano pari a 30 palmi e, quindi, a circa 7 metri). Virgilio, rivolgendosi ad Anteo gli dice (anche qui con discorso molto retorico e con interessata captatio benevolentiae, per cui il tono è adulatorio e diretto a persuadere): O tu che che nella valle fortunata del fiume Bagrada (presso Zama, dove hai abitato) che ha reso glorioso Scipione (per la sua vittoria su Annibale nel 202 a. C.), quando Annibale e i suoi uomini sono stati messi in fuga, tu hai (catturato e) portato mille (tantissimi) leoni come preda, e che se (tu) avessi partecipato alla superba guerra dei tuoi fratelli giganti contro Giove, c’è ancora chi crede, ritiene che avrebbero vinto i figli della terra (cioè i giganti, e non Giove): (ebbene) deponici giù, nel fondo, dove il freddo fa ghiacciare il Cocito, e non disdegnare, non rifiutarti di farlo. Non farci andare da, non farci rivolgere a Tizio e Tifeo (altri due giganti ribelli e puniti da Giove): (sappi che Dante) questi può dare ciò che qui (nell’Inferno) più di desidera (cioè la fama sulla Terra); perciò chinati, abbassati e non torcere il muso, il volto da un’altra parte (in segno di disdegno, di disprezzo). (E siccome il gigante forse non ha compreso bene le parole di Virgilio, gli ripete il concetto): Una volta di nuovo nel mondo dei vivi, (Dante) ti può dare fama sulla Terra, perché egli è vivo e lo attende ancora una lunga vita da vivere (visto che è solo nel mezzo del cammin di nostra vita), se la Grazia divina non vorrà chiamarlo presso di sé prima del tempo.

Così ha detto, ha parlato Virgilio; (le sue accattivanti parole, hanno fatto presa) e Anteo, velocemente, rapidamente, ha disteso le mani e ha preso Virgilio (per la vita), (quelle mani) dalle quali Ercole ha avvertito la presa, si è sentito afferrare con forza (quando ha lottato per ucciderlo). Virgilio, quando si è sentito preso (da Anteo), mi ha detto: Avvicinati, in modo che io possa prenderti, tenerti ben stretto; poi ha fatto in modo che, abbracciandomi (protettivamente), io e lui siamo stati come una cosa sola, un unico fascio.

Segue una similitudine: Come appare la Garisenda (la minore delle torri di Bologna, che è pendente), a chi la guardi dal basso, da dove pende, quando (magari) una nuvola le passa sopra tanto che (per effetto ottico) sembra che incomba, che si pieghi sopra a chi la guarda, così, allo stesso modo mi è parso Anteo a me che stavo aspettando il momento di vederlo chinato, ed è stato un momento tale, cioè così terribile, che avrei preferito andare per un’altra strada. Ma (Anteo), dolcemente, con delicatezza (contrariamente a quanto pensassi…), ci ha deposto sul fondo del pozzo e dell’Inferno dove è conficcato, per l’eternità, Lucifero insieme a Giuda (i due maggiori traditori di Dio e del mondo); Anteo, pur chinato, non ha indugiato più di tanto e, una volta deposti i due poeti, si è levato in alto, si è raddrizzatto come albero di nave (quello più alto, l’albero maestro, facendo certamente una grande impressione agli occhi di Dante che, per la seconda volta, ha fatto l’esperienza del volo, questa volta nelle mani di Anteo, l’altra sulle spallacce di Gerione).