Trebisacce-25/10/2023:Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXXIV dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo. Protagonisti sono ancora i traditori dannati per sempre nel fiume ghiacciato di Cocito, nella Giudecca.
Il canto-capitolo XXXIV: la quarta e ultima zona del nono cerchio della Malizia e della Fraudolenza. Nella Giudecca (da Giuda, traditore di Cristo) sono puniti i traditori dei propri benefattori: stanno con tutto il corpo nel ghiaccio, in diverse posizioni. Al centro della Terra, impotente e immobile, c’è Lucifero che ha sei grandi ali come quelle del pipistrello e un’enorme testa con tre bocche in cui sono eternamente stritolati, maciullati i traditori della Maestà (divina e imperiale): Giuda Iscariota, traditore di Gesù (della Chiesa), e Bruto e Cassio, traditori di Cesare (dell’Impero). Il centro della terra e l’uscita nell’emisfero australe. I due Poeti hanno concluso il loro folle viaggio nell’Inferno, nel cuore della notte dell’animo umano e, adesso, possono uscire per riveder le stelle, la luce dopo tanto buio e tanta tenebra. Quindi, Dante potrà pensare di alzare le vele della navicella del suo ingegno per poter navigare in migliori acque e lasciare alle proprie spalle tutto il Male del mondo (dietro a sé mar sì crudele).
“Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira” disse il maestro mio “se tu ‘l discerni”.
Come quando una grossa nebbia spira, o quando l’emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che ‘l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio; chè non li era altra grotta. Già era, e con paura il metto in metro, là dove l’ombre tutte eran coperte, e trasparìen come festuca in vetro. Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante, ch’al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch’ebbe il bel sembiante, d’innanzi mi si tolse e fe’ restarmi. “Ecco Dite” dicendo, “ed ecco il loco ove convien che di fortezza t’armi”. Com’io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, però ch’ogni parlar sarebbe poco. Io non mori’, e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno, qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
Lo ‘mperador del doloroso regno da mezzo il petto uscìa fuor della ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno, che giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant’esser dee quel tutto ch’a così fatta parte si confaccia. S’el fu sì bello com’elli è or brutto, e contra ‘l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui procedere ogni lutto.
Or quanto parve a me gran maraviglia quand’io vidi tre facce alla sua testa! L’una dinanza, e quella era vermiglia; l’altr’eran due, che s’aggiugnìeno a questa sovresso il mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnìeno al luogo della cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde ‘l Nilo s’avvalla. Sotto ciascuna uscivan due grand’ali, quanto si convenìa a tanto uccello: vele di mar non vid’io mai cotali. Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto s’aggelava. Con sei occhi piangea, e per tre menti gocciava ‘l pianto e sanguinosa bava. Da ogni bocca dirompea co’ denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti. A quel dinanzi il mordere era nulla verso ‘l graffiar, che tal volta la schiena rimanea della pelle tutta brulla.
Quell’anima là su c’ha maggior pèna” disse ‘l maestro, “è Giuda Scariotto, che ‘l capo ha dentro e fuor le gambe mena. Delli altri due c’hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto – vedi come si storce! e non fa motto! –; e l’altro è Cassio che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai è da partir, chè tutto avem veduto”.
Così, con queste parole, Dante ci introduce alla mostruosa, ma a suo modo maestosa, visione dell’imperatore del doloroso regno, cioè di Lucifero, di Satana, l’angelo ribelle, una volta bellissimo e adesso brutto e orribile. C’è, anche nel Male più assoluto, una certa grandiosità, una certa maestà e Dante (che è spaventato e fortemente impressionato dall’enorme anti-Dio), infatti, lo descrive, in maniera dettagliata, come fosse un sovrano, anche se sovrano del Male: il re dei diavoli sembra avanzare spaventosamente versi i due Poeti con le sue sei ali grandissime e ampie, come quelle di un pipistrello, con cui produce il vento freddo che fa raggelare eternamente le acque del Cocito; ha un’enorme testa con tre grandi bocche in cui sono maciullati, in eterno, in una, Giuda, il traditore di Cristo, di Dio, della Chiesa, e nelle altre due i traditori di Cesare e quindi dell’Impero: Bruto e Cassio. Non mancano le similitudini. Intanto, si è fatta notte e Virgilio dice a Dante che devono proseguire il viaggio e andare oltre, verso la Montagna del Paradiso terrestre, verso il Purgatorio, perché ormai hanno visto tutto quello che c’era da vedere sul Male e il dolore del mondo.
E, dunque: I vessilli, le insegne (cioè le sei ali) del re dell’Inferno avanzano verso di noi; perciò guarda davanti, se riesci (con questo buio) a distinguerlo, a vederlo, ha detto il mio maestro. (La frase in latino è l’inizio dell’inno di Venanzio Fortunato, vescovo di Poitiers, scritto quando da Costantinopoli giunse la reliquia del legno della Croce inviata alla regina Radegonda, intorno al 569).
Come da lontano appare un mulino le cui ali sono fatte girare dal vento, quando si diffonde una densa nebbia o quando nel nostro emisfero (boreale, delle terre emerse) fa notte (nell’opposto emisfero australe è giorno), così mi è sembrato di intravedere allora come un tale edificio, un arsenale, un’enorme macchina; poi, per il troppo vento, mi sono riparato dietro Virgilio (come se, invece che un’anima, fosse un corpo vero e proprio!…); poiché non vi era altra roccia, riparo, rifugio.
Sono già arrivato, ed è con paura che lo narro nei miei versi, laddove (la quarta zona della Giudecca) le anime sono completamente immerse, confitte nel ghiaccio, e traspaiono come la pagliuzza in un vetro. Alcune di esse stanno distese, in posizione orizzontale, altre stanno dritte, in posizione verticale, alcune di queste ultime con la testa in su, verso l’alto, mentre altre con la testa in basso, in giù; altre ancora stanno a forma di arco, con il volto ripiegato verso i piedi.
Quando noi ci siamo inoltrati abbastanza avanti, tanto che a Virgilio è sembrato il momento giusto, opportuno di mostrarmi Lucifero, la creatura, l’angelo che (prima della sua ribellione e prima della sua caduta) era bellissimo (il più bello di tutti gli angeli), mi si è tolto davanti, si è scostato e mi ha fatto fermare dicendomi: Ecco Satana (Dite: il dio pagano dell’Averno) ed ecco il luogo dove è necessario armarti (bene) di coraggio.
Come io, allora, sia diventato di ghiaccio e con la voce fioca, cioè senza voce, ammutolito per lo spavento, (caro) lettore, non chiedermelo, che, tanto, io non lo descrivo (neppure), per il fatto che ogni parola mi sembrerebbe insufficiente, inadeguata. Io non ero morto, e non ero neppure vivo (non ero né morto e né vivo); pensa ormai da te (caro lettore), se hai un po’ di ingegno (di immaginazione…), come io sia diventato (alla vista di Satana) privo sia della morte che della vita. Lucifero, l’imperatore dell’Inferno, del regno del dolore, usciva, emergeva fuori della ghiacciaia con la metà del corpo, cioè con il petto, con il busto, e io (in proporzione) mi posso paragonare con un gigante ma non i giganti alla lunghezza delle sue braccia; vedi, dunque (caro lettore), quanto dev’essere grande il suo intero corpo, se in proporzione, se rapportato a braccia siffatte, cioè così lunghe.
Se è stato così bello (Lucifero significa portatore di luce e, quindi, luminoso) come ora è così brutto, e contro Dio, il suo creatore, si è ribellato (ha peccato di superbia, ha commesso empietà), è ben giusto, naturale che da lui derivi, provenga tutto il male e il dolore del mondo, che sia la causa, il principio di ogni male.
Oh quanto è stata grande la mia meraviglia, il mio stupore, quando ho visto che la sua testa era con tre facce! (Una pessima Trinità!…). Quella centrale, anteriore era rossa (simboleggia l’odio, l’invidia), le altre due si ricongiungevano a quella in corrispondenza del centro di entrambe le spalle, e si congiungevano, si riunivano nel punto in cui alcuni animali hanno la cresta; la parte destra sembrava bianca e gialla (simboleggia l’impotenza); (mentre) la sinistra a (ben) vedere era come il colore di quelli che provengono dall’Etiopia, laddove il Nilo scende verso l’Egitto, cioè nero (simboleggia l’ignoranza). (Dunque, un’Antitrinità negativa in opposizione a quella positiva di Dio composta da Potestà, Sapienza e Amore).
Sotto ciascuna faccia uscivano due grandi ali, proporzionate a un essere alato di così grande dimensione: io non ho mai visto vele di navi così enormi (come quelle ali). Non avevano penne ma la loro forma era come quelle del pipistrello; e (Lucifero) le agitava, dibatteva in modo da generare, produrre tre correnti di vento: per questo il Cocito è tutto, interamente gelato, ghiacciato.
Piangeva (per la rabbia impotente) con sei occhi (due per ogni faccia), e il pianto, misto a bava insanguinata (il sangue dei tre traditori maciullati) gocciolava lungo i tre menti. Con ogni bocca stritolava, maciullava un peccatore con i denti, a guisa a mo’ di gramola (strumento con cui si frantumano gli steli della canapa o del lino), cosicchè, tanto da far soffrire, tormentare terribilmente tre dannati contemporaneamente, nello stesso tempo. Per il traditore (Giuda) che stava nella bocca centrale, il mordere di Lucifero era nulla rispetto al graffiare (delle sue potenti unghie) sulla schiena (di Giuda) tanto che, a volte, rimaneva priva di pelle (tanto veniva ben scorticata…).
Virgilio spiega che: Quell’anima che lassù soffre più delle altre due (perché ha tradito la maestà divina) è Giuda Iscariota, che è confitto con la testa dentro (la bocca di Lucifero) e le gambe che si dimenano, si agitano fuori (un po’ come quelle dei simoniaci). Degli altri due (Marco Giunio Bruto e Caio Cassio Longino, traditori della maestà imperiale, di Cesare) che hanno la testa fuori dalle due bocche laterali, che penzolano all’ingiù, quello che pende dalla faccia nera è Bruto – guarda come si contorce, si agita – e non dice parola (soffre fieramente in silenzio); e l’altro è Cassio che sembra così corpulento, robusto. Ma si è fatta notte, e ormai bisogna proseguire il viaggio, si deve partire (per altro Regno), poiché abbiamo visto tutto, ogni cosa, tutto quello che c’era da vedere. (Il viaggio, la discesa agli Inferi è durata due giorni, dal venerdì al sabato Santo dell’anno 1300).
Quindi, Dante racconta come, attraverso il corpo di Lucifero, lui e Virgilio attuano il passaggio al centro della Terra per approdare alla montagna del Purgatorio e lasciarsi alle spalle gli orrori dell’Inferno; Virgilio chiarisce a Dante alcuni dubbi in merito alla loro posizione in quella parte terminale dell’abisso infernale in cui tutto sembra capovolto, sottosopra e, alla fine, tramite il corpo villoso di un Satana totalmente remissivo e acquiescente perché ha capito che quel viaggio è voluto da Dio, i due Poeti potranno tornare nel chiaro mondo, a rivedere la luce, a rivedere le stelle (e la loro bellezza): Come a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e luogo poste; e quando l’ali fuoro aperte assai, appigliò sé alle vellute coste: di vello in vello giù discese poscia tra ‘l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso dell’anche, lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov’elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com’uom che sale, sì che ‘n inferno i’ credea tornar anche.
“Attienti ben, chè per cotali scale” disse ‘l maestro, ansando com’uom lasso, “conviensi dipartir da tanto male”. Poi uscì fuor per lo foro d’un sasso, e puose me in su l’orlo a sedere; appresso porse a me l’accorto passo. Io levai li occhi, e credetti vedere Lucifero com’io l’avea lasciato; e vidili le gambe in su tenere; e s’io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch’io avea passato. “Lèvati su” disse ‘l maestro “in piede: la via è lunga e ‘l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede”.
Non era camminata di palagio là v’eravam, ma natural burella ch’avea mal suolo e di lume disagio. “Prima ch’io dell’abisso mi divella, maestro mio”, diss’io quando fui dritto, “a trarmi d’erro un poco mi favella: ov’è la ghiaccia? E questi com’è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc’ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?”.
Ed elli a me: “Tu imagini ancora d’esser di là dal centro ov’io mi presi al pel del vermo reo che ‘l mondo fora. Di là fosti cotanto quant’io scesi; quand’io mi volsi, tu passasti ‘l punto al qual si traggon d’ogni parte i pesi. E se’ or sotto l’emisperio giunto ch’è opposito a quel che la gran secca coverchia, e sotto ‘l cui colmo consunto fu l’uom che nacque e visse sanza pecca: tu hai i piedi in su picciola spera che l’altra faccia fa della Giudecca. Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fe’ scala col pelo, fitto è ancora sì come prim’era. Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, pria di qua si sporse, per paura di lui fe’ del mar velo, e venne all’emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui luogo voto quella ch’appar di qua, e su ricorse”.
Luogo è la giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto d’un ruscelletto che quivi discende per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso, col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d’alcun riposo salimmo su, el primo e io secondo, tanto ch’i’ vidi delle cose belle che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo; e quindi uscimmo a riveder le stelle.
Dunque: Come a Virgilio è piaciuto, come mi ha detto di fare, io mi sono stretto al suo collo e lui ha scelto il momento e il punto giusto, opportuno (i peli del corpo di Lucifero a cui stare aggrappati); e quando le ali erano abbastanza aperte, si è attaccato, aggrappato ai fianchi pelosi (di Satana, rappresentato come uno smisurata bestia), poi è disceso da ciuffo a ciuffo (di peli), tra la folta peluria e le croste, i pezzi di ghiaccio (delle pareti del pozzo di Cocito). Quando noi siamo giunti nella parte della coscia che si allarga per attaccarsi, legarsi al bacino (dov’è la testa dell’anca e poi si forma il fianco: qui Dante immagina che sia il centro della Terra e il centro di gravità dell’universo, e, per questo, parla di affanno del maestro), Virgilio, con (molta) fatica e affanno, ha girato al testa dove prima aveva le gambe, cioè si è capovolto (con Dante stretto a lui) e si è aggrappato alla peluria (di Lucifero) come fa chi deve salire, tanto che io ho creduto che stessimo tornando di nuovo nell’Inferno.
Virgilio, ansimando come fa l’uomo stanco, fiaccato dalla fatica (per vincere la forza di gravità che si credeva, erroneamente, essere maggiore al centro della Terra) dice a Dante: Tieniti ben stretto a me, perché attraverso queste (siffatte, particolari) scale (cioè i ciuffi dei peli di Satana) è necessario, bisogna allonatanarsi da tutto il male racchiuso nell’Inferno.
Poi, Virgilio, è uscito fuori, è sbucato tra le cosce di Lucifero e il buco, la fessura di una roccia (che porta ad una grotta) e mi ha deposto e fatto sedere sull’orlo dell’apertura di quella roccia; quindi, dopo (staccandosi dalla peluria di Lucifero), ha diretto verso di me il suo rapido e attento passo (cioè si è avvicinato a Dante). Io ho sollevato, alzato gli occhi e ho creduto di vedere Lucifero così come lo avevo lasciato (cioè con metà del corpo emergente dalla ghiacciaia); e (invece) l’ho visto capovolto, con le gambe all’insù; e sei io in quel momento mi sono confuso, stupito e rimasto perplesso (di fronte a quella scena), pensi pure quel che vuole la gente grossolana, ignorante, perché non può capire che io avevo passato, attraversato il centro della Terra!…
Virgilio mi ha detto: Alzati in piedi: la via è lunga (dal centro della Terra alla superficie dell’emisfero australe) e il cammino è difficile, disagevole, e sono già le 7 e mezza del mattino (il sole a mezza terza: l’ora media fra la prima e la terza ora canonica e, quindi, circa le 7 e mezza; per cui, se nell’emisfero di Gerusalemme, quello boreale, è il tramonto, in quello australe è l’inizio del giorno). Il luogo in cui siamo, ci troviamo non è una sala di palazzo signorile (bella, spaziosa e luminosa) ma una caverna naturale (natural burella), un sorta di sotterraneo (come quello adibito a prigione), che è fatto di terreno aspro, accidentato e con mancanza, scarsezza di luce. Una volta all’impiedi, ho detto a Virgilio: Prima che io mi stacchi, mi allontani dall’abisso infernale, mi devi parlare un po’ per togliermi, liberarmi da un dubbio: dov’è la ghiacciaia (di Cocito)? E questi (Lucifero) come si trova confitto sottosopra (cioè capovolto, a testa in giù)? E come ha fatto il sole a fare un così breve cammino, passando dalla sera al mattino, in così breve tempo (cioè, come mai il passaggio dalla sera al mattino è stato così veloce)?
E Virgilio: Tu credi di essere, di trovarti ancora dall’altra parte del centro della Terra, nell’emisfero boreale, dove io mi sono aggrappato ai peli dell’immondo Satana che attraversa, trapassa il centro del mondo. (L’Anticristo è definito vermo reo, ed è definizione di sapore biblico, come dire di un verme che sta nel cuore, per es., di una mela e la guasta, proprio come Satana al centro della Terra rappresenta il Grande Male che guasta l’universo). Sei stato dall’altra parte del centro della Terra fino a quando io sono disceso (lungo il corpo di Lucifero); quando mi sono capovolto, tu hai attraversato il centro della Terra (cioè di tutto l’universo) dove, per la legge della gravitazione, sono attratti tutti i pesi da ogni parte (perché, secondo la teoria aristotelica, si credeva che in quel centro ci fosse anche il centro della gravità universale). E adesso sei arrivato nell’emisfero (celeste, australe, meridionale) che si trova nella parte opposta a quello boreale (settentrionale, con al centro Gerusalemme) che copre le terre emerse, abitate, e nel cui punto culminante, più alto (cioè a Gerusalemme), è stato ucciso l’uomo che è nato ed è vissuto senza peccato (cioè Gesù Cristo): tu ti trovi, sei appoggiato su di una piccola (superficie a forma di) sfera (vicina al centro della sfera terrestre) che forma, costituisce l’altra faccia della Giudecca, del Cocito. Qui (nell’emisfero australe) è mattina, quando nell’altra parte (nel boreale) è sera: e questi (Satana), che ci ha fatto da scala con i suoi peli, è confitto ancora come prima (sempre al centro della Terra, nell’emisfero australe, come quando è precipitato, caduto dal cielo per la sua ribellione). È caduto dal cielo, dall’Empireo nell’emisfero australe; e la Terra, che prima (della caduta) emergeva da questa parte, per paura di Lucifero si è ritratta tutta sotto il mare formando l’emisfero boreale; e forse per sfuggire a Satana, quella terra, cioè la Montagna del Purgatorio, ha lasciato il luogo vuoto nella cavità in cui ora ci troviamo (la natural burella), ed è tornata ad emergere nell’emisfero australe.
Laggiù, nelle viscere della Terra, c’è un luogo lontano da Belzebù (Lucifero), tanto quanto si estende la cavità naturale (cioè la natural burella), e si riconosce non perché si possa vedere (c’è buio) ma per il rumore di un piccolo ruscello che discende in quel punto, attraverso la buca scavata in un sasso, in una roccia, che esso stesso ha corroso con il suo corso tortuoso (a spirale) e in lieve pendenza (è il fiume Lete che, dal Purgatorio, fa scolare nell’Inferno i residui, le scorie dei peccati, dai quali ha lavato le anime purificate nel Purgatorio; si tenga presente che lungo la voragine infernale scorrono, scendono i quattro fiumi generati dalle lacrime che scaturiscono dalla statua del Veglio di Creta).
Io e la mia guida, siamo entrati attraverso quel passaggio buio, nascosto, sottorreneo (la natural burella), per ritornare nel mondo della luce, sulla Terra; e senza preoccuparci di riposarci un po’, siamo saliti su, lui per primo e io dopo (lui avanti e io dietro), tanto che io ho visto le cose belle che sono nel cielo, il sole e la luce degli astri, attraverso un pertugio, un foro tondo (quello fatto da Lucifero nella sua caduta); e da qui siamo usciti a rivedere le stelle (la luce dopo tanto buio).
I due Poeti (dopo due giorni) sono giunti alla fine del loro viaggio al termine della notte (direbbe Céline), la notte degli abissi infernali e soprattutto della mente e del cuore dell’uomo. Dante, ovvero l’umanità peccatrice guidata dalla Ragione e sorretta dalla Grazia divina, riesce a rivedere la luce e la bellezza del Creato: dopo tanto buio, dopo tanto orrore, per l’uomo ci deve pur essere la speranza di poter vedere le stelle, la speranza di potersi redimere e salvarsi. Il viaggio è lungo e tortuoso, pieno di insidie e di pericoli ma se l’uomo vuole, se l’uomo razionale e virtuoso si fa guidare dalla Ragione e dalla Fede, allora nulla gli potrà impedire (nonostante abbia perduto per sempre il Paradiso Terrestre), la speranza della redenzione, la speranza della salvezza e anche quella della felicità terrena e spirituale. Nulla gli potrà impedire di scegliere l’Umanità, l’Amore, la Giustizia, la Verità, la Libertà, la Pace, la Bellezza, il Sublime e persino la Beatitudine anziché la Disumanità, il Male, la Bestialità, l’Ingiustizia, la Guerra, la Bruttezza, l’Abiezione e la Perdizione con tutto il caos, il disordine e l’orrore che ne conseguono e che hanno reso, forse per sempre, la nostra Terra, l’aiuola che ci fa tanto feroci, quando, invece, avrebbe potuto essere il luogo della nostra Felicità.
I due Poeti hanno concluso il loro folle viaggio nell’Inferno, nel cuore della notte dell’animo umano. Adesso, possono uscire per rivedere le stelle, la luce dopo tanto buio e tanta tenebra. Quindi, Dante potrà pensare di alzare le vele della navicella del suo ingegno per poter navigare in migliori acque e lasciare alle proprie spalle tutto il male del mondo (dietro a sé mar sì crudele).
Il romanzo della Commedia prosegue, ma in tono minore o, se si vuole, è con l’Inferno, la cantica del mondo terreno, che esso trova la sua massima espressione. Se le altre due cantiche fossero, per sciagurata ipotesi, andate perdute, Dante sarebbe stato ugualmente l’eterno autore di un’opera immortale e se fosse stato uno scrittore del Novecento o dei nostri giorni, il suo poema sarebbe stato certamente un romanzo, un best seller da milioni di copie. Resta, in ogni modo, la più grande narrazione sul mondo degli uomini e sui loro eterni peccati, vizi, difetti, mali e sulle loro eterne passioni ed eterni sentimenti, sempre uguali, ieri come oggi. La sua analisi e la sua descrizione dell’uomo eterno (sempre uguale a se stesso ieri come oggi e, purtroppo, forse anche domani) è stata così profonda e precisa che, quando leggiamo la Divina Commedia, ci sembra di leggere un’opera uscita da poco nelle librerie e nelle edicole: ha e avrà ancora molto da dire e da dare. Per questo Dante – lo ripetiamo – è stato, è e rimarrà per sempre un eterno classico contemporaneo.