Trebisacce-25/06/2024: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del settimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del settimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonista è Sordello da Goito o, meglio, il lamento di Sordello-Dante sui prìncipi e i sovrani inetti e poco virtuosi dell’Europa medievale e, allo stesso tempo, moderna, passati in impietosa rassegna. E ci viene da pensare alla maggiorparte dei dirigenti mondiali dei nostri tempi.

 

Il canto-capitolo VII ovvero il canto dei prìncipi negligenti. Antipurgatorio. Secondo balzo. C’è ancora Sordello (il doppio di Dante). I tre Poeti si trovano davanti all’amena valletta fiorita (o piccola valle amena) dei prìncipi negligenti nel pentirsi ma anche nell’adempiere ai doveri che Dio ha assegnato loro per il bene dei popoli (pertanto, la durissima invettiva dantesca non era affatto una mera digressione). Un Dante rasserenato, meno aspro, meno duro e meno giustizialista ha collocato sovrani e prìncipi in un luogo (luogo ameno) che appare da privilegiati del Potere e che sembra una prefigurazione del Paradiso Terrestre. Sordello fa la rassegna delle anime eccellenti: l’imperatore Rodolfo d’Asburgo, Ottocaro II re di Boemia, Filippo III l’Ardito, re di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III  e Alfonso III d’Aragona, Carlo I d’Angiò, Arrigo III d’Inghilterra e Guglielmo VII marchese del Monferrato. Siamo di fronte ad una devastante crisi di leadership a livello europeo, internazionale. Dante la vede davanti ai suoi occhi e la vuol far vedere a noi, affinchè ne prendiamo atto e affinchè sia per noi una lezione. Questi potenti della Terra non seppero essere di esempio e da paradigma per i loro popoli e i loro eredi e, piuttosto che compiere il loro dovere secondo ragione e coscienza, si lasciarono vincere dall’egoismo, dalla sete di Potere e di ricchezze, dall’interesse personale, dai piaceri dei sensi e, quindi, svolsero il loro alto compito di guida e governo dei loro regni in maniera inadeguata, consegnandoli ad eredi ancora più biasimevoli di loro. Qui, adesso, mostrano pentimento e dolore per le loro insufficienze terrene, cantando il Salve Regina (canto che costituisce la prima colonna sonora alla scena dei prìncipi negligenti nella valletta). Sottintesa è la metafora di un declino generale, di una sorta di malattia morale, di una grande degenerazione che coinvolge un po’ ogni rappresentante della monarchia, dell’idea imperiale. Ormai è tardi e, non potendo più proseguire nell’ascesa al monte per una legge divina, i tre poeti pernottano nella valletta fiorita. Il contrappasso è sempre lo stesso. (Tutto si svolge dalle ore 3 del pomeriggio fino alle 7 di sera del giorno di Pasqua del 10 aprile del 1300).

 Il canto-capitolo VII è la continuazione del precedente con Dante che, dopo il suo sfogo-urlo-denunciaglobale, è sì ancora malinconico e con i suoi tristi pensieri sul destino dell’Italia, di Firenze e del mondo ma certamente più calmo e sereno. Quanto a Sordello e a Virgilio – i due mantovani che si sono ritrovati nell’Antipurgatorio – incominciano a conoscersi meglio. Sordello apprende dalla viva vox di Virgilio che lui è proprio il grande Virgilio, quello dell’immortale Eneide e si piega per baciargli le ginocchia in segno di riverenza e di presa d’atto che ubi maior minor cessat. Con molta malinconia, Virgilio spiega al conterraneo la sua condizione di anima sospesa nel Limbo e il duro decreto divino, forse troppo severo anche con i più piccoli, perché nati prima della venuta di Cristo e non battezzati; gli fa capire che sta guidando Dante attraverso i Regni dell’Oltretomba per volere divino e, infine, gli chiede di indicargli la via più agevole per l’ascesa al monte. Sordello risponde che farà da guida ma che adesso, essendo tardi (una legge del Purgatorio vuole che di notte non si può procedere e non si può salire sul monte), è meglio fermarsi e sostare, pernottare presso la valletta fiorita dove Dante ha voluto collocare i prìncipi negligenti, quasi come estremo segno di rispetto per la loro simbolica funzione, per ciò che incarnano (il governo di tipo imperiale, monarchico dei popoli). Del resto, Dante accoglie la teoria di San Paolo, secondo cui non est potestas nisi a Deo, cioè ogni autorità civile proviene da Dio e, quindi, è come se prìncipi e re fossero dei rappresentanti di Dio sulla Terra e, in verità, in età moderna, sarà così che si sentiranno: luogotenenti di Dio in Terra, per cui si parlerà di concezione del potere di derivazione divina e della teoria del diritto divino del re con cui si giustificherà, fra l’altro, lo stesso potere assoluto del re. Il venire subito dopo Dio vuol dire anche avere la facoltà di compiere miracoli, tanto che in Inghilterra e soprattutto in Francia (già intorno al X secolo) si parlerà dei re taumaturghi, che erano poi quei discendenti (più o meno degenerati e assetati di potere e territori) di Ugo Capeto al quale, più avanti, Dante farà lanciare un’appassionata e violenta invettiva contro di essi. Dante, in tutta la Commedia, lascia comunque intendere che lui ce l’ha di più con papi e cardinali, con gli uomini di chiesa che, invece di dedicarsi alle cose spirituali, si sono dedicati prevalentemente a quelle terrene, sfidando l’Imperatore nella guida politica dei popoli.

La valletta fiorita sembra un luogo privilegiato, simile al nobile castello del IV canto-capitolo dell’Inferno, nel Limbo, dove, come in un’isola a parte, stanno gli spiriti magni, le anime dei grandi poeti, filosofi, eroi, ecc. del mondo classico, latino e greco, e sembra anche una prefigurazione del Paradiso Terrestre. Ma se pure Dante non ha voluto infierire più di tanto con principi, re e nobili feudatari che hanno malgovernato i loro popoli facendosi distrarre da ben altre cose, la sua polemica e il suo dito puntato contro questi potenti della Terra (che, se volessero potrebbero fare tanto per renderla più bella, più vivibile e in pace e giustizia anziché in guerra e con le ingiustizie) prosegue, anche se con tono pacato e, del resto, è giusto che sia così, perché il suo grande e durissimo sfogo-urlo l’ha già fatto e, adesso, attraverso la bocca del già (cioè a suo tempo) fustigatore Sordello (che nomina i potenti con nome e cognome), la denuncia delle loro insufficienze, delle loro manchevolezze può proseguire anche più pacatamente. La digressione del precedente canto-capitolo non era poi una digressione fine a se stessa: doveva servire per il canto-capitolo successivo, perché, nella Commedia, tutto si tiene e tutto ha un senso.

Dante spera che il suo urlo e la stessa espiazione di questi potenti che si sono pentiti dei loro errori e cantano il Salve Regina possa servire come monito ai loro eredi a meglio operare e a saper governare i loro popoli. E, dunque, questo è quel che si legge nel settimo canto-capitolo, in cui non mancano le opportune e calzanti similitudini:

Poscia che l’accoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte, Sordel si trasse, e disse: “Voi, chi siete?”.

“Anzi che a questo monte fosser volte l’anime degne di salire a Dio, fur l’ossa mie per Ottavian sepolte. Io son Virgilio; e per null’altro rio lo ciel perdei che per non aver fé”. Così rispuose allora il duca mio.

Qual è colui che cosa innanzi sé sùbita vede ond’e’ si maraviglia, che crede e non, dicendo “Ella è… non è…”, tal parve quelli; e poi chinò le ciglia, e umilmente ritornò ver’ lui, e abbracciòl là ‘ve ‘l minor s’appiglia. “O gloria di Latin”, disse, “per cui mostrò ciò che potea la lingua nostra, o pregio etterno del loco ond’io fui, qual merito o qual grazia mi ti mostra? S’io son d’udir le tue parole degno, dimmi se vien d’inferno, e di qual chiostra”.

“Per tutt’i cerchi del dolente regno”, rispuose lui, “son io di qua venuto; virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno. Non per far, ma per non fare ho perduto a veder l’alto Sol che tu disiri e che fu tardi per me conosciuto. Luogo è là giù non tristo di martìri, ma di tenebre solo, ove i lamenti non suonan come guai, ma son sospiri. Quivi sto io coi pargoli innocenti dai denti morsi de la morte avante che fosser da l’umana colpa essenti; quivi sto io con quei che le tre sante virtù non si vestiro, e sanza vizio conobber l’altre e seguir tutte quante. Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio dà noi per che venir possiam più tosto là dove purgatorio ha dritto inizio”.

Rispuose: “Loco certo non c’è posto; licito m’è andar suso e intorno; per quanto ir posso, a guida mi t’accosto. Ma vedi già come dichina il giorno, e andar sù di notte non si puote; però è buon pensar di bel soggiorno. Anime sono a destra qua remote; se mi consenti, io ti merrò ad esse, e non sanza diletto ti fier note”.

“Com’è ciò?”, fu risposto. “Chi volesse salir di notte, fora elli impedito d’altrui, o non sarria ché non potesse?”.

E ‘l buon Sordello in terra fregò ‘l dito, dicendo: “Vedi? sola questa riga non varcheresti dopo ‘l sol partito: non però ch’altra cosa desse briga, che la notturna tenebra, ad ir suso; quella col nonpoder la voglia intriga. Ben si poria con lei tornare in giuso e passeggiar la costa intorno errando, mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso”.

Allora il mio segnor, quasi ammirando, “Menane”, disse, “dunque là ‘ve dici ch’aver si può diletto dimorando”. Poco allungati c’eravam di lici, quand’ io m’accorsi che ‘l monte era scemo, a guisa che i vallon li sceman quici.

“Colà”, disse quell’ombra, “n’anderemo dove la costa face di sé grembo; e là il novo giorno attenderemo”.

Tra erto e piano era un sentiero schembo, che ne condusse in fianco de la lacca, là dove più ch’a mezzo muore il lembo. Oro e argento fine, cocco e biacca, indaco, legno lucido e sereno, fresco smeraldo in l’ora che si fiacca, da l’erba e da li fior, dentr’a quel seno posti, ciascun saria di color vinto, come dal suo maggiore è vinto il meno. Non avea pur natura ivi dipinto, ma di soavità di mille odori vi facea uno incognito e indistinto. ‘Salve, Regina’ in sul verde e ‘n su’ fiori quindi seder cantando anime vidi, che per la valle non parean di fuori.

“Prima che ‘l poco sole omai s’annidi”, cominciò ‘l Mantovan che ci avea vòlti, “tra color non vogliate ch’io vi guidi. Di questo balzo meglio li atti e i volti conoscerete voi di tutti quanti, che ne la lama giù tra essi accolti. Colui che più siede alto e fa sembianti d’aver negletto ciò che far dovea, e che non move bocca a li altrui canti, Rodolfo imperador fu, che potea sanar le piaghe c’hanno Italia morta, sì che tardi per altri si ricrea. L’altro che ne la vista lui conforta, resse la terra dove l’acqua nasce che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta: Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce fu meglio assai che Vincislao suo figlio barbuto, cui lussuria e ozio pasce. E quel nasetto che stretto a consiglio par con colui c’ha sì benigno aspetto, morì fuggendo e disfiorando il giglio: guardate là come si batte il petto! L’altro vedete c’ha fatto a la guancia de la sua palma, sospirando, letto. Padre e suocero son del mal di Francia: sanno la vita sua viziata e lorda, e quindi viene il duol che sì li lancia. Quel che par sì membruto e che s’accorda, cantando, con colui dal maschio naso, d’ogne valor portò cinta la corda; e se re dopo lui fosse rimaso lo giovanetto che retro a lui siede, ben andava il valor di vaso in vaso, che non si puote dir de l’altre rede; Iacomo e Federigo hanno i reami; del retaggio miglior nessun possiede. Rade volte risurge per li rami l’umana probitate; e questo vole quei che la dà, perché da lui si chiami. Anche al nasuto vanno mie parole non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta, onde Puglia e Proenza già si dole. Tant’è del seme suo minor la pianta, quanto, più che Beatrice e Margherita, Costanza di marito ancor si vanta. Vedete il re de la semplice vita seder là solo, Arrigo d’Inghilterra: questi ha ne’ rami suoi migliore uscita. Quel che più basso tra costor s’atterra, guardando in suso, è Guiglielmo marchese, per cui e Alessandria e la sua guerra fa pianger Monferrato e Canavese”

Dunque: Dopo che le accoglienze cortesi e liete (i festosi saluti pieni di effusioni) si sono ripetuti più volte (parecchie volte), Sordello si è fatto un po’ indietro (si è ritratto) e ha detto: Voi, chi siete?

La mia guida, Virgilio, gli ha risposto così: Prima della morte di Cristo e prima che le anime degne di salire al Cielo fossero indirizzate a questo monte per purificarsi (perché prima di Cristo il Purgatorio non c’era), le mie ossa sono state sepolte da Ottaviano Augusto. Io sono Virgilio; e per nessun’altra colpa ho perso il Cielo (la possibilità di accedere al Paradiso) se non per non aver avuto la fede (in Cristo).

Come diventa colui che vede davanti ai suoi occhi, improvvisamente, una cosa inattesa (imprevista) e si meraviglia (si stupisce) al punto che non sa se credere o meno ai propri occhi, dicendo: La cosa è vera… non è vera… (è così… non è così…), così (allo stesso modo) è sembrato Sordello; e poi ha abbassato gli occhi (la testa, in segno di rispetto e riverenza), ed è ritornato verso di lui, con umiltà, e gli ha abbracciato le ginocchia, laddove (cioè) chi è minore di un altro si aggrappa (dove, secondo l’usanza, gli umili, gli inferiori abbracciano i potenti, i superiori riconoscendo, quindi, il loro essere minori, inferiori: ubi maior, minor cessat…). E ha detto: O gloria dei Latini (degli italiani di ieri e di oggi), grazie al quale la nostra lingua ha mostrato tutta la sua capacità artistica (il suo valore), o eterno (ornamento) onore del territorio (di Mantova) dove sono nato anch’io,  (per) quale merito o quale grazia (concessione divina) ti mostri a me? Se io sono degno di ascoltare le tue parole, dimmi se stai venendo dall’inferno e da quale cerchio.

Virgilio replica così: Io sono venuto (arrivato) qui attraversando tutti i cerchi del doloroso regno infernale: sono stato mosso dalla Grazia divina (dalla volontà del Cielo) e proseguo (nel viaggio) ancora accompagnata da essa (con il suo aiuto). Non per aver commesso qualche colpa ma per non aver conosciuto la fede cristiana (e non aver potuto debitamente adorare Dio) ho perduto la possibilità di vedere quel Sole eterno (Dio) che tu pure desideri di vedere e che io ho conosciuto troppo tardi (solo dopo la morte, nel Limbo). Nell’inferno c’è un luogo (il Limbo), non rattristato da pene (tormenti particolari) ma solo da mancanza di luce (perché c’è tanta tenebra), dove i lamenti non risuonano (nell’aria) come grida di dolore ma sono (solo dei) sospiri (di rammarico, di nostalgia e di desiderio impossibile della visione di Dio). In questo luogo io sto con i bambini innocenti che sono morti (sono stati colpiti dalla morte) prima di (aver ricevuto il battesimo ed) essere stati purificati (liberati) dal peccato originale (che è una macchia per tutti gli uomini); qui io sto con le anime di chi, non essendo cristiani, non hanno avuto le tre virtù teologali (fede, speranza e carità), e senza alcun difetto, vizio, insufficienza (cioè perfettamente) hanno conosciuto e praticato (in vita) tutte le altre virtù (le cardinali e le intellettuali, che sono: sapienza, intelligenza e scienza). Ma se tu conosci e puoi (se ti è concesso…), indicaci il cammino (la via) per giungere prima (più rapidamente) là dove (nel punto in cui) il Purgatorio inizia davvero (ha il suo vero e proprio inizio).

E Sordello: A noi non ci è imposta (stabilita) una sede (una dimora) fissa (un luogo ben determinato); mi è permesso di andare  (muovermi) verso sopra (verso l’alto) e intorno; e per quanto mi è consentito di andare (di procedere) mi unisco (mi metto accanto) a te come guida. Ma già puoi vedere come il giorno sta morendo (come sta tramontando) e (per legge del Purgatorio) non è possibile (non si può) salire su di notte; perciò è giusto (bene) pensare di trovare un bel luogo (un luogo gradevole) dove sostare (fermarsi per la notte, dove passare la notte). (Non si può salire di notte: metaforicamente significa che siccome l’anima sale verso il bene e la beatitudine solo con la luce di Dio, allora non è possibile salire il monte del Purgatorio al tramonto, con le tenebre, quando non c’è il sole, e Dio è il Sole, la Luce. La notte, la tenebra vuol dire l’errore, il peccato, il momento dello smarrimento, mentre la via della purificazione dell’anima può avvenire solo se sorretti dalla Grazia divina).

Da questo lato, sulla destra, ci sono anime in disparte (appartate, isolate, separate, lontane dalle altre); se tu me lo consenti (permetti e se è cosa gradita… è lo è…), io ti condurrò presso di esse (da loro) e le potrai conoscere non senza piacere da parte tua.

Virgilio Sembra non comprendere e replica così: Com’è possibile questo? Com’è questo fatto? Chi volesse salire di notte, sarebbe ostacolato (impedito) da altri (da una forza esterna) o non ci riuscirebbe perché non ne sarebbe capace (non ne avrebbe le forze)?

E il buon Sordello ha tracciato col dito un segno (una linea, una riga) dicendo: Vedi? dopo il tramonto del sole, non riusciresti a passare (oltrepassare) neppure questa (sola) linea: e questo perché  nient’altro sarebbe di ostacolo a salire, se non l’oscurità della notte: questa, togliendo la possibilità di salire, ne ostacola (impedisce) anche il desiderio (la volontà). Durante la notte si potrebbe comunque riandare (tornare) verso il basso (giù) e camminare (passeggiare) lungo la costa vagando lì intorno,  fino a quando l’orizzonte nasconde la luce (la vista) del giorno (cioè finchè il sole resta al di sotto dell’orizzonte. Insomma, senza la luce, senza il sole, cioè senza la Grazia divina non si va da nessuna parte, si potrebbe al massimo girare un po’ a vuoto, a zonzo, senza costrutto).

Allora il mio signore (Virgilio), racconta Dante, quasi meravigliato, stupefatto (dalle parole di Sordello, che sfuggivano alla sua comprensione in quanto concernevano cose misteriose,  soprannaturali) ha detto: Allora, a questo punto, conducici là dove tu dici che si può trovare un piacevole (gradevole) soggiorno (sosta per la notte).

Ci siamo allontanati di poco da lì, quando mi sono accorto che il monte era incavato (avvallato) proprio come sulla Terra i monti sono incavati da valloni sulle loro coste. E Sordello ha detto: Adesso noi andremo là dove la costa si avvalla (si affossa) facendo della sua parete una cavità (come un grembo e accoglie le anime); e lì attenderemo il nuovo giorno.

Vi era un sentiero trasversale (obliquo) che alterna un tratto in salita e uno pianeggiante, che ci ha condotti (portati) alla parete laterale dell’avvallamento (della cavità) là dove il lembo (l’orlo dell’avvallamento digrada) si abbassa di più della metà (che non nelle altre parti).

(Segue la descrizione della valletta fiorita dei prìncipi, di quello che i due improvvisati scalatori, i due viandanti-alpinisti-faidatè vedono, e bisogna dire che la terzina è di difficile interpretazione): I colori dell’oro e dell’argento puri, il colore rosso della cocciniglia, il bianco della biacca (cioè del carbonato di piombo), l’azzurro cupo, il nero lucido dell’ebano, quello di un cielo sereno, il verde (vivo) dello smeraldo nel momento in cui si spezza (in cui viene spezzato, ebbene, tutti questi vivi colori) se posti (messi) in quella piccola valle, sarebbero sconfitti (vinti, battuti) ognuno da quelli dell’erba e dei fiori, proprio come il minore è vinto (battuto) dal maggiore (il meno dal più; insomma, sembrerebbero sbiaditi). (Ma) la natura non aveva soltanto dipinto (cosparso di colori) quel luogo, ma dalla soavità di tantissimi (mille) odori (profumi), ne creava (ne faceva) in quel luogo, solo uno sconosciuto (ignoto) e difficile da definire (da distinguere, da riconoscere).

Io ho visto che in quella valletta, sull’erba e sui fiori, stavano sedute anime che cantavano Salve Regina, di qui, dall’orlo (dal margine) della valletta (dove mi trovavo) che, a causa dell’avvallamento in cui erano, non apparivano fuori (non si vedevano dall’esterno).

Breve nota. Il Salve Regina è la popolare preghiera che, dopo i vespri, viene innalzata alla Madonna per invocare la Grazia divina di essere degni della visione di Cristo, e lì, le anime dei prìncipi e dei re negligenti la cantano proprio nell’ora del vespro. Ed è preghiera, antifona, canto che è ben appropriato alla condizione di quegli spiriti, in quanto è un canto d’esilio e di sospiro della patria…Quei  principi siedono nella valle fiorita, ma sono di fatto in esilio, come gli uomini in terra (la valle di lacrime è chiaro rimando a quest’altra valle)…E se quel canto si conviene a tutte le anime del purgatorio, tanto più a costoro, che conobbero la gloria del mondo, e ora ne misurano la vanità, commenta la già citata Chiavacci Leonardi.

Il Mantovano che ci ha guidati (diretti, cioè Sordello) ha incominciato a dire (ha detto): Prima che quel poco sole che è rimasto tramonti, non chiedetemi che io vi guidi tra queste anime (dentro la valletta, cioè è meglio rimanere sull’argine dove sono adesso, senza spostarsi, perché lo spettacolo, la scena che ritrae quegli spiriti è più chiara e più godibile). Da questo balzo (argine, rialzo, altura) potrete conoscere (vedere) gli atti (i gesti) e i volti di tutte le anime (certamente) meglio che non fareste se entraste nel fondo della valle e vi confondeste con esse.

Quindi, Dante, che ha voluto delegare all’emblematico Sordello il compito di fustigare, anche se pacatamente, sovrani, prìncipi e quant’altro, fa iniziare la rassegna (con reprimenda) di costoro a partire da colui che qui siede, sta più in alto rispetto agli altri (per il fatto di rappresentare l’autorità imperiale), cioè l’imperatore Rodolfo d’Asburgo (come Aristotele, il maestro di color che sanno, lo era nel Limbo), e poi seguono tutti gli altri che finiscono anche per fornire il quadro storico-politico-geografico dell’Europa moderna di allora, che Dante aveva già nella sua splendida testa:

Colui che siede più in alto (degli altri) e che con il suo aspetto triste (malinconico) dimostra (esprime la consapevolezza) di esser stato negligente nel proprio dovere (cioè di scendere in Italia e imporre il proprio comando e le proprie leggi), e che non canta insieme alle altre anime (che invece cantano in coro e, pertanto, evidenzia un particolare stato d’animo di rammarico, di doloroso rimpianto), fu l’imperatore Rodolfo d’Asburgo (re di Germania e d’Italia dal 1273-1291, ma mai imperatore perché non scese in Italia per farsi incoronare, preferendo concentrarsi sulla Germania), che avrebbe potuto guarire (sanare) le piaghe (risolvere i gravi mali, i gravi problemi) che hanno portato l’Italia alla morte (alla rovina totale; mali ai quali) ormai troppo tardi, dovrà porre rimedio qualcun altro (l’allusione è ad Arrigo VII di Lussemburgo, in cui Dante tanto sperava; qui c’è tutta l’amarezza, la delusione e la perdita di ogni fiducia di Dante negli uomini che potrebbero e non fanno e nelle stesse vicende della Storia). L’altro che apparentemente (nell’atteggiamento) sembra confortare Rodolfo, ha regnato in Boemia, la terra dove nascono (sorgono) le acque che la Moldava porta all’Elba, e l’Elba le porta (quindi) fino al mare: si chiama (il suo nome è) Ottocaro (II, re dal 1253 al 1278), e anche quand’era in fasce (bambino) era certamente migliore (più saggio) del figlio Venceslao (II) in età adulta (da grande, il quale) si ciba (nutre) di lussuria e dell’ozio (sguazza bene, si ingrassa, cioè si fa dominare dai vizi della lussuria e dell’ozio: un sovrano molto lascivo e molto annoiato, insomma. La polemica di Dante non riguarda soltanto i padri e le loro debolezze e manchevolezze, ma soprattutto i figli, gli eredi, che si sono rivelati peggiori dei loro padri, più corrotti, con vizi, debolezze e pecche ben più gravi e decisamente da condannare e mettere sotto accusa, per le conseguenze negative, nefaste per i popoli da loro malgovernati e malguidati).

E (poi c’è) quello col naso piccolo (Nasetto: Filippo III l’Ardito, re di Francia dal 1270 al 1285 e padre di Filippo IV il Bello e di Carlo di Valois), che sta vicino a colui (Enrico I, il Grasso, re di Navarra) che ha un così benevolo aspetto (qui nel Purgatorio, ma in vita era stato alquanto irascibile e violento…), e sembra che stia consultandosi (consigliandosi) con lui, è morto (Filippo III l’Ardito), fuggendo (dopo la ritirata dalla Spagna, dovuta alla disfatta della flotta francese ad opera di Pietro III d’Aragona) e disonorando, così, l’emblema (il simbolo, l’insegna, lo stemma gentilizio) della casa di Francia, con tre gigli (in campo azzurro): guardate come si batte il petto (per le colpe del figlio e del genero, cioè Filippo IV il Bello che aveva sposato la figlia di Enrico I, Giovanna)! Vedete l’altro (Enrico I) che ha appoggiato la guancia alla sua mano (ha messo la guancia nel palmo della mano, la usa come letto…), ed emette sospiri (cioè mostra di essere rammaricato). Sono, rispettivamente, padre (Filippo l’Ardito) e suocero (Enrico il Grasso) di Filippo IV il Bello (il mal di Francia, il male della Francia; re di Francia dal 1285 al 1314; Dante ne aveva una pessima considerazione e, infatti, lo riteneva la rovina, il male della Francia e uno degli uomini più corrotti e corruttori della sua epoca, per la sua posizione ostile sia alla Chiesa che all’Impero, tanto da definirlo, nel XX del Purgatorio, novo Pilato e nel XXXII come colui che riesce a corrompere la puttana, cioè la Chiesa traviata e degenerata dei papi politicizzati e attaccati al potere temporale), dunque: padre e suocero (sanno) conoscono la sua vita viziosa (piena di vizi) e corrotta, e da qui (da questa consapevolezza, presa di coscienza) deriva (nasce) il dolore che tanto li colpisce (trafigge e affligge, fa soffrire).

Quell’altro che sembra così robusto (cioè un bel pezzo d’uomo: Pietro III d’Aragona, che divenne re di Sicilia nel 1282) e che canta insieme (al suo vicino) dal grande naso (il Nasuto Carlo I d’Angiò, che in vita aveva combattuto; Carlo era diventato re di Napoli dopo il 1266 ed era morto nel 1285 come il nemico Pietro, ora vicini e concordi nell’Aldilà), è stato pieno di ogni virtù (uomo molto virtuoso) un perfetto cavaliere (la corda, cioè la cintura di cavaliere, cinta d’ogni valor); e se dopo di lui fosse rimasto il giovinetto che siede (sta) dietro di lui (alcuni esegeti pensano si tratti di Alfonso, ma pare più probabile debba trattarsi di Pietro, un terzo figlio dell’Aragonese morto prima del padre), (certamente) la virtù si sarebbe ben trasmessa di padre in figlio (sarebbe stata ereditata da una generazione all’altra); cosa che non si può dire degli altri eredi. Giacomo (II, re di Sicilia dal 1285 fino al 1296, poi d’Aragona dal 1291 fino al 1327, anno della morte) e Federico (II, re di Sicilia dal 1296 fino al 1337, anno della sua morte) hanno ereditato i regni del padre; ma nessuno di loro ha ereditato quella che è la migliore eredità, cioè il valore, la virtù. Raramente la virtù, l’onestà umana, si trasmette di padre in figlio (per discendenza: per li rami: espressione rimasta quasi proverbiale, dai padri attraverso i figli, proprio come la linfa sale dal tronco ai rami); e questo lo vuole Dio che la concede (la dà) affinchè si riconosca che deriva (solo) da Lui (e non per nascita, per via di sangue). Queste mie parole valgono (sono rivolte, riferite) sia per il Nasuto (Carlo d’Angiò) che per l’altro, Pietro d’Aragona, che canta (all’unisono) con lui, per cui (per il fatto che i figli non sono, non rispecchiano i loro padri)  i regni di Napoli (che era tutta l’Italia Meridionale) e di Provenza (ereditati dal poco virtuoso figlio del d’Angiò, Carlo II lo Zoppo) ne soffrono (ne provano dolore in quanto malgovernati per la sua inettitudine). (Carlo II) è di tanto inferiore a suo padre, quanto più Costanza (figlia di Manfredi di Svevia) può vantarsi del marito (Pietro III d’Aragona), (cosa) che non possono fare Beatrice (di Provenza) e Margherita (di Borgogna; cioè la prima e la seconda moglie di Carlo I d’Angiò; e qui Dante conferma, per bocca del suo alter ego Sordello, il giudizio complessivamente negativo sui sovrani angioini).

Osservate (vedete) seduto in solitudine (che se ne sta in disparte) il re della (meglio: dalla) vita semplice (cioè dalla vita da inetto, sciocco, dappoco, di scarso valore) Arrigo (Enrico) III d’Inghilterra (dal 1216 al 1272; figlio di Giovanni Senzaterra): questi ha nei suoi discendenti (nei suoi figli) una migliore riuscita (cioè successori, eredi più virtuosi, di valore). (Infine), quello che sta seduto per terra, più in basso tra costoro (cioè tra tutti quelli fin qui citati), e guarda verso l’alto (verso il cielo; Rodolfo è quello che sta più in alto, perché è il più importante, quest’ultimo più in basso, nella valletta, perché il meno notevole, il più inferiore di grado) è Guglielmo (VII) marchese (detto Spadalunga, del Monferrato: dal 1254 al 1292),  per la cui morte gli abitanti di Alessandria e la guerra (da loro dichiarata per vendicarlo), sono stati la causa di dolore, di gravi lutti per le regioni del Monferrato e del Canavese (che costituivano il marchesato del Monferrato. In breve, era successo che il valoroso Guglielmo, vicario imperiale e capo dei ghibellini, aveva esteso il suo potere fino alla città di Milano ma, fatto prigioniero dagli abitanti di Alessandria, che si erano ribellati, venne rinchiuso in una gabbia di ferro e, dopo la sua morte, il figlio Giovanni, per vendicarlo, dichiarò guerra alla città, provocando lutti, dolore e distruzione: come dire che a pagare il conto delle scelte e delle decisioni dei potenti, alla fin fine, è sempre il popolo, la povera gente)…

Termina così, con queste parole dolenti, malinconiche e amare il nuovo planh, il nuovo pacato compianto, lamento di Sordello-Dante sui prìncipi e sovrani inetti e poco virtuosi dell’Europa medievale e, allo stesso tempo, moderna, passati in impietosa (anche se non violenta) rassegna per far emergere i temi più cari al Poeta e cioè la mancanza di teste coronate di alto profilo, virtuose, capaci di governare i loro popoli con saggezza, in pace e giustizia e, soprattutto, la mancanza della figura dell’Imperatore che, una volta, era capace di tenere uniti i governati e di imporre la pace e la giustizia. Insomma, Dante, più di una volta, punta il suo dito accusatore contro i potenti della Terra e lamenta la grave crisi morale, dei valori e degli ideali più alti che sembrano ormai perduti per sempre e hanno fatto degenerare il mondo, facendo prevalere il Male e il Dolore, invece del Bene e della Felicità. Alla fine, il caso di Guglielmo gli serve come nuova occasione per polemizzare ancora una volta contro le divisioni, le lacerazioni, gli odi e le guerre fratricide, le lotte sanguinose tra guelfi e ghibellini, il cui conto è sempre duramente e ingiustamente pagato soprattutto dal popolo, dai governati, dai ceti più deboli e  –  si direbbe con linguaggio dei nostri tempi – dalle masse popolari. Il sangue è la calcina del Potere, ha lasciato scritto il Guicciardini e Machiavelli ha mostrato (secondo il Foscolo) come il Potere sia capace di far scorrere lacrime e sangue (…di che lacrime gronda e di che sangue). Anche Dante era stato una vittima degli sporchi e sanguinosi giochi di Potere delle opposte fazioni l’un contro l’altra armata e pagava il conto salatissimo (insieme alla sua famiglia) e per questo tante pagine della Commedia sono la testimonianza del dolore, della sofferenza che uomini guidati soltanto dal sentimento del proprio interesse di parte, del proprio particulare e non da quello del bene comune, gli avevano, ingiustamente, inflitto. A lui come a tantissimi altri.

Si potrebbe obiettare come mai Dante abbia collocato prìncipi e sovrani negligenti nel compiere il proprio dovere tra le anime dei salvati del Purgatorio, in un posto (la valletta fiorita) da privilegiati (i privilegiati del Potere!…) e, soprattutto, un re come Carlo d’Angiò, verso il quale ha sempre mostrato durezza di tono. Ebbene, oltre a quello che si è già detto all’inizio, la risposta forse più accettabile è che Dante, nonostante li fustighi e ne faccia risaltare la viltà, l’egoismo, la lussuria e, insomma, i vizi e i difetti,  attraverso il fustigatore Sordello (suo doppio, suo portavoce in questi canti-capitoli), ha pur sempre un forte sentimento e grande simpatia per l’idea monarchica, imperiale in cui egli crede. Infatti, nella rassegna di Sordello, ogni terzina sembra dire: Se voi, teste coronate e anche marchesi e conti vicari dei sovrani, faceste pienamente il vostro dovere, se operaste e agiste virtuosamente, con alto sentire e in nome del bene comune, collettivo; se non vi lasciaste deviare, fuorviare e corrompere da altri pseudovalori e invece di fare le guerre pensaste a far prevalere la pace, la giustizia e il progresso dei vostri popoli… ebbene, come tutto sarebbe più bello su questa povera Terra!… E il fatto di salvarli e collocarli in sede degna al loro status, pare voler essere come una sorta di profetica denuncia, di messaggio-monito in codice che Dante lancia verso i sovrani europei del presente e del futuro: Vedete, se voi opererete bene, con onestà, virtù, ecc. ecc. potrete salvare la vostra anima, che è il premio eterno ottenuto per quello che di buono avrete fatto nel mondo per il bene degli uomini. Qui, nel Purgatorio, dovete comunque pagare il vostro conto (il Paradiso può attendere…) per le vostre manchevolezze e colpe, restando tristi, malinconici e in nostalgico rimpianto cantando  il “Salve Regina” e rimeditando, con molto rammarico, su quello che potevate fare e non avete fatto per il bene dei vostri popoli

Infine, va sempre tenuto presente che Dante (che adesso appare meno giustizialista, per usare un’espressione, un termine dei nostri giorni) ce l’aveva di più con gli uomini di Chiesa, con i papi e i cardinali che invece di occuparsi delle cose spirituali si occupavano, a tempo pieno, di cose temporali, terrene, inseguendo con cupidigia i beni materiali, pensando ad accumulare Potere, beni immobili, denaro e, insomma, ricchezze e privilegi di ogni genere, tanto da rendere un fatto normale il commercio di cose sacre, per cui simonia e nepotismo hanno marciato insieme per secoli nel corrotto e degenerato mondo della Chiesa, quando invece, secondo Dante, papi e cardinali avrebbero dovuti essere di esempio, da modello, da paradigma per i fedeli, per i popoli, per tutti gli uomini. Pertanto, erano loro i principali responsabili del Male che regnava sulla Terra e della grave crisi morale, di valori e ideali forse perduti per sempre.