Trebisacce-25/09/2024: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del decimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonista è il vizio capitale della Superbia a cui vengono contrapposte alcune scene di esempi di umiltà premiata. Forte è la metafora dell’uomo-verme-cariatide.

Salvatore La Moglie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del decimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonista è il vizio capitale della Superbia a cui vengono contrapposte alcune scene di esempi di umiltà premiata. Forte è la metafora dell’uomo-verme-cariatide.

 Il canto-capitolo X ovvero il primo canto dei superbi. Dante e Virgilio sono nel Purgatorio vero e proprio e salgono alla prima cornice (o balza o girone o cerchio). Scene di esempi di umiltà premiata, scolpiti da Dio nel marmo bianco della parete rocciosa: degli stupendi bassorilievi (creati da Dio, dice Dante ma, in verità, da lui) i cui protagonisti sono tratti dalla Bibbia e dalla storia di Roma: Maria e l’Arcandelo Gabriele, poi Davide e la moglie Micol, quindi il pagano imperatore Traiano che salva la propria anima grazie alle preghiere (rivolte a Dio) di papa Gregorio Magno per aver reso giustizia ad una vedovella a cui era stato ucciso ingiustamente il figlio. Il divino visibile parlare di Dante-Dio. Qui è punita la superbia, il peccato più grave del Purgatorio (ricordiamoci che nell’Inferno il leone è una delle tre fiere, allegoria della superbia, che sbarrano il cammino a Dante). La superbia è un grande male in quanto implica più di una cosa e più di un aspetto negativo nell’agire umano: arroganza, presunzione, boria, vanità, orgoglio smisurato, prepotenza, sentimento e delirio di onnipotenza, megalomania, avidità di Potere e di ricchezze, disprezzo degli altri, volontà di prevaricazione e di sopraffazione nei confronti dei propri simili, per cui poi si hanno i soprusi, le angherie, le violenze, ecc. messe in opera contro chi è umile e indifeso. La superbia puo’ portare alle divisioni, alla lacerazioni, alla violenza, al delitto, allo spargimento di sangue, alle guerre. La superbia (etimologicamente: sopra+forza, violenza: il super-bus sta sopra gli altri con la forza, la violenza, la prepotenza) se riferito come peccato, malattia, difetto pessimo di una nazione, di un popolo o di una civiltà, porta dritto all’esasperato sentimento di sé, della propria superiorità sugli altri popoli e su altre civiltà che, pertanto, vanno sopraffatte e sottomesse: è così che sono nati i nazionalismi e i razzismi dell’Europa Occidentale e, di conseguenza, il Colonialismo e poi l’Imperialismo con il mito del fardello dell’uomo bianco (un testo poetico di Rudyard Kipling diventato subito il manifesto dell’Imperialismo Occidentale e della sua missione civilizzatrice) per cui l’uomo bianco (e l’Inghilterra per prima) aveva il diritto-dovere di civilizzare (e ridurre in subalternità e in schiavitù…) gli incivili popoli dell’Africa e dell’Asia… Non dimentichiamo che l’inno nazionale tedesco è rimasto lo stesso dalla metà dell’Ottocento e le note sono sempre quelle: Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt Dotschland: Germania, Germania, al di sopra di tutto al di sopra di tutto nel mondo. E sappiamo a cosa queste superbe, cioè poco umili parole, hanno condotto: a un insano nazionalismo, quindi all’imperialismo del Secondo Reich di Gugliemo I e II, poi alla Prima  Guerra Mondiale e infine al feroce totalitarismo e razzismo megalomenico di Hitler e del suo Terzo Reich, con inevitabile sbocco nella Seconda Guerra Mondiale… Insomma, sia a livello di singolo individuo che di popolo o nazione, la superbia può produrre guasti enormi e terrificanti e Dante sembra dire, lungo tutta la Commedia, che il Male che può venire dalla superbia ora e sempre, quello di ieri come quello di domani, si può evitare soltanto attraverso una metànoia, una conversione, una mutazione morale, spirituale e culturale a 360° dell’uomo che, se vuol essere veramente degno di questo nome, deve vivere con umiltà e secondo virtù, facendosi guidare dai lumi della Ragione e della Fede. Dante ricorderà più di una volta che la superbia, quella che i greci chiamavano hybris (il peccato di disobbedienza, di superbia, di dismisura, cioè di sfida e trasgressione nei confronti della divinità) portava soltanto a sbattere, a finire male a chi ne era affetto e la metteva in atto, e che è stato per superbia, per trasgressione, per voler essere come Dio che i nostri progenitori, Adamo ed Eva, sono stati cacciati dal Paradiso Terrestre facendolo perdere per sempre all’intera umanità che, altrimenti, avrebbe potuto vivere per sempre felice. Se, però, l’uomo usasse al meglio il libero arbitrio che Dio gli ha concesso e decidesse di scegliere il Bene invece del Male, allora tutto potrebbe cambiare e, probabilmente, la felicità perduta potrebbe essere recuperata. Tutto sta, però, al nostro senso di responsabilità.

I superbi procedono lentamente e, per contrappasso (per contrasto), sono costretti a camminare rannicchiati, curvi sotto il peso di enormi sassi, macigni, recitando il Pater noster e meditando su esempi di umiltà e di superbia punita: come in vita fecero sentire il peso enorme della loro vana superbia e alterigia  e camminarono tenendo la testa verso l’alto per l’enorme boria, adesso, nel Purgatorio, sono costretti ad espiare stando umiliati e da vinti sotto il peso di immani macigni, compiendo atti forzati di contrizione. Dante riflette sulla vanità della superbia umana ed esorta chi crede in Cristo, chi si dichiara cristiano a non cadere in questo terribile peccato. La metafora dell’uomo-verme-cariatide. (Tutto si svolge il lunedì mattina, dalle ore 10 alle 11 dell’11 aprile del 1300).

 La maggiorparte del canto-capitolo decimo è dedicata alla finzione delle scene degli esempi di umiltà premiata da Dio e da Dio scolpiti sul marmo bianco della parete rocciosa della prima cornice dove i due Poeti scalatorifaidatè incontreranno, un po’ più avanti, la prima schiera dei superbi oppressi da enormi macigni. Dunque, chiusasi alle loro spalle la porta che rumorosamente si era aperta (è poco usata e per questo i cardini stridono così forte: la volontà di salvezza non è molto diffusa…) e avendo avuto la fermezza di non girare lo sguardo indietro, di non voltarsi come aveva ammonito l’angelo-sacerdote (per non rischiare di ricadere nel peccato e di perdere per sempre il treno della salvezza), Dante e Virgilio procedono attraverso un via stretta, disagevole e davvero particolare, per cui occorrerà ingegnarsi bene nell’attraversarla. Vediamo con quale maestria di grande narratore realista Dante riesce a farci vedere con i nostri occhi, e a farle parlare (il visibile parlare) le scene di umiltà scolpite nel marmo, attraverso le quali vuole, appunto, esaltare l’umiltà (vera protagonista del canto-capitolo) contro la superbia e invitarci ad essere umili e a seguire gli esempi, i modelli di grande umiltà che rendono gli uomini più buoni e più umani e, quindi, premiati da Dio:

Poi fummo dentro al soglio de la porta che ‘l mal amor de l’anime disusa, perché fa parer dritta la via torta, sonando la senti’ esser richiusa; e s’io avesse li occhi vòlti ad essa, qual fora stata al fallo degna scusa? Noi salavam per una pietra fessa, che si moveva e d’una e d’altra parte, sì come l’onda che fugge e s’appressa.

“Qui si conviene usare un poco d’arte”, cominciò ‘l duca mio, “in accostarsi or quinci, or quindi al lato che si parte”. E questo fece i nostri passi scarsi, tanto che pria lo scemo de la luna rigiunse al letto suo per ricorcarsi, che noi fossimo fuor di quella cruna; ma quando fummo liberi e aperti sù dove il monte in dietro si rauna, ïo stancato e amendue incerti di nostra via, restammo in su un piano solingo più che strade per diserti. Da la sua sponda, ove confina il vano, al piè de l’alta ripa che pur sale, misurrebbe in tre volte un corpo umano; e quanto l’occhio mio potea trar d’ale, or dal sinistro e or dal destro fianco, questa cornice mi parea cotale. Là sù non eran mossi i piè nostri anco, quand’io conobbi quella ripa intorno che dritto di salita aveva manco, esser di marmo candido e addorno d’intagli sì, che non pur Policleto, ma la natura lì avrebbe scorno. L’angel che venne in terra col decreto de la molt’anni lagrimata pace, ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, dinanzi a noi pareva sì verace quivi intagliato in un atto soave, che non sembiava imagine che tace.

Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’; perché iv’era imaginata quella ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; e avea in atto impressa esta favella ‘Ecce ancilla Deï’, propriamente come figura in cera si suggella.

“Non tener pur ad un loco la mente”, disse ‘l dolce maestro, che m’avea da quella parte onde ‘l cuore ha la gente. Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea di retro da Maria, da quella costa
onde m’era colui che mi movea, un’altra storia ne la roccia imposta; per ch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso, acciò che fosse a li occhi miei disposta. Era intagliato lì nel marmo stesso lo carro e ‘ buoi, traendo l’arca santa, per che si teme officio non commesso. Dinanzi parea gente; e tutta quanta, partita in sette cori, a’ due mie’ sensi faceva dir l’un ‘No’, l’altro ‘Sì, canta’. Similemente al fummo de li ‘ncensi che v’era imaginato, li occhi e ‘l naso e al sì e al no discordi fensi. Lì precedeva al benedetto vaso, trescando alzato, l’umile salmista, e più e men che re era in quel caso. Di contra, effigïata ad una vista d’un gran palazzo, Micòl ammirava sì come donna dispettosa e trista.

I’ mossi i piè del loco dov’io stava, per avvisar da presso un’altra istoria, che di dietro a Micòl mi biancheggiava. Quiv’era storïata l’alta gloria del roman principato, il cui valore mosse Gregorio a la sua gran vittoria; i’ dico di Traiano imperadore; e una vedovella li era al freno, di lagrime atteggiata e di dolore. Intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro sovr’essi in vista al vento si movieno. La miserella intra tutti costoro pareva dir: “Segnor, fammi vendetta di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro”; ed elli a lei rispondere: “Or aspetta tanto ch’i’ torni”; e quella: “Segnor mio”, come persona in cui dolor s’affretta, “se tu non torni?”; ed ei: “Chi fia dov’io, la ti farà”; ed ella: “L’altrui bene a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?”; ond’elli: “Or ti conforta; ch’ei convene ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova: giustizia vuole e pietà mi ritene”. Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi perché qui non si trova.

Dunque: Dopo essere entrati e aver attraversato la soglia della porta che è messa in disuso dall’amore degli uomini rivolto al male, perché fa apparire come bene (sembrare retta, giusta) la via storta (del male), ho avvertito (sentito) che si era richiusa per il suono (stridente che aveva fatto), e se io avessi rivolto gli occhi (lo sguardo) verso di essa, quale scusa avrei potuto addurre per giustificare l’errore? Noi salivamo (per una fenditura) per un sentiero scavato nella roccia, che (costringeva a) salire come a zig-zag, un po’ a destra e un po’ a sinistra, così come l’onda che (alla riva) si ritrae (si allontana) e poi si avvicina (insomma, il varco è molto malagevole e occorre destreggiarsi bene).

Virgilio ha cominciato a parlare: Qui è necessario essere scaltri (usare al meglio il cervello, mettere in azione le nozioni tecniche, la razionalità) nel procedere (nell’accostarci, nell’avvicinarci) ora da una parte e ora dall’altra che si allontana (da noi; devono cercare di destreggiarsi per evitare al meglio le sporgenze). E questo ha reso lento il nostro procedere (ci ha rallentato i passi) tanto che l’ultimo quarto della luna ha raggiunto l’orizzonte, per tramontare, prima che noi fossimo usciti da quella via così stretta (angusta, malagevole); ma quando ( non appena) siamo stati liberi (da quel sentiero) e in luogo aperto, lassù (più in alto) dove il monte (formando una cornice) si ritrae (sembra tirarsi indietro) io molto stanco (affaticato) e tutti e due, entrambi incerti (dubbiosi) sulla (giusta) via da prendere (da fare), ci siamo fermati su un ripiano (che costituisce la prima cornice) più solitario delle strade dei deserti. Dalla parte esterna (dal margine esterno) dove confina con il vuoto, (fino) ai piedi dell’alta ripa (costa, sponda, parete rocciosa) che continua a salire, (questo piano) misurerebbe tre volte il corpo di un uomo (sarebbe lungo circa tre volte il corpo di un uomo, cioè poco più di 5 metri); e fino a quanto (fin dove) il mio sguardo (i miei occhi) riuscivano a spingersi oltre, a muoversi ora da una parte ora da un’altra (per osservare ad ampio raggio), questa cornice mi sembrava di questa misura.

Lassù (su quella cornice) non avevamo mosso ancora un passo (non avevamo ancora iniziato a camminare) quando mi sono accorto che quella ripa, quella parte della parete rocciosa che (girava intorno) che circondava il monte e che presentava una salita meno ripida, era di marmo bianco (candido) e tutta ornata (adorna) di sculture (rilievi o bassorilievi), che non solo lo scultore greco Policleto ma la natura ne sarebbe rimasta (scornata, vinta) sconfitta da tanta bellezza e perfezione). L’arcangelo Gabriele che era venuto sulla terra per comunicare la decisione per cui Dio voleva la pace (il patto della Nuova Allenza con l’Annunciazione della venuta di Cristo, partorito da Maria) invocata dagli uomini da secoli con dolore, che ha finalmente aperto le porte del cielo dopo il lungo divieto di potervi accedere (a causa del peccato originale), davanti a noi sembrava (appariva) così verosimile (così reale) in questo luogo, scolpito in dolce (soave) atteggiamento, tanto da non sembrare una figura (un’immagine) muta (sembrava parlare, sembrava come viva). Si sarebbe potuto giurato che dicesse: Ave! (il saluto dell’angelo a Maria); perché, infatti, vi era rappresentata (raffigurata) l’immagine di quella donna (Maria, che accettando la spirituale gravidanza) ha riaperto l’amore di Dio per gli uomini; e aveva nell’atteggiamento impresse queste parole: Ecco l’ancella (la serva) di Dio (la risposta di Maria a Gabriele), esattamente (proprio) come un sigillo imprime una figura nella cera.

Virgilio, il mio dolce (caro) maestro, che (stava sulla destra) e aveva me da quella parte (cioè a sinistra) dove (la gente) gli uomini hanno il cuore, (vedendomi così incantato, attratto da quella scultura) mi ha detto:  Non tenere la tua attenzione (la tua mente fissa) su una sola scena (perché ce ne sono altre!…). Per cui io mi sono mosso, ho spostato il mio sguardo e ho visto dietro alla scultura (alla scena di) Maria) da quella parte dove si trovava colui che mi guida (Virgilio, sulla destra), un’altra storia (rappresentazione impressa) scolpita nel marmo (nella roccia); per cui (allora) io ho oltrepassato Virgilio (gli passa dietro) e mi sono avvicinato (mi sono fatto più vicino) affinchè fosse ben visibile (ben osservabile) ai miei occhi. Lì nel marmo (era scolpita la scena del…), erano scolpiti il  carro e i buoi, che trainavano (tiravano) l’Arca santa (l’Arca dell’Alleanza, in cui erano custodite le Tavole della Legge), per cui si teme di fare qualcosa che non è stata ordinata, di svolgere un incarico non legittimamente affidato (mentre per ordine di David si trasportava l’Arca, il sacerdote Oza era stato fulminato da Dio perché, avendo dimostrato poca fiducia in Lui, aveva osato sostenere, senza alcun ordine, il carro traballante). Davanti appariva (si vedeva) gente (una folla) e tutta divisa in sette gruppi che cantavano in coro (in sette cori) e facevano dire ai miei due sensi, a quello della vista No, non cantare e a quello dell’udito Sì, canta. Similmente (allo stesso modo) si sono trovati (a reagire in maniera discorde) la vista e l’olfatto, tra il e il no davanti (di fronte) al fumo degli incensi che era raffigurato (nella scultura). Lì (in quella scena) davanti all’Arca santa (si vedeva) David, l’umile autore di salmi, avanzare danzando (con la veste sollevata), e in quel momento (in quell’occasione, in quella circostanza) era (allo stesso tempo) più e meno re: più che re come sacerdote, e meno che re come danzatore (in quanto appariva come un buffone, senza dignità, secondo la stessa moglie Micol, la cui superbia e il cui atteggiamento sdegnoso e sprezzante sarà punito da Dio con la sterilità; in verità, David che danza e perde di dignità, simboleggia la sua umiltà di fronte a Dio, che l’apprezza). Di fronte (dirimpetto a David), scolpita alla finestra di un grande palazzo (c’era, si poteva ammirare la moglie) Micol (figlia del re Saul) che guardava (con stupore, il marito danzare) come una donna sprezzante e irritata (indispettita, piena di sdegno di cruccio, crucciata).

Io mi sono spostato dal luogo in cui ero (dove mi trovavo) per guardare (osservare) da vicino un’altra scena, che dietro, aldilà di quella di Micol, che (ai miei occhi sembrava come) brillare (risaltare, spiccare per il suo candore impresso nel bianco marmo). Qui (in questa nuova scena) era scolpito (rappresentato) il gesto (il fatto) più glorioso dell’imperatore romano (Traiano, dal 98 al 117 d. C.) che, con la sua grande virtù (il suo grande valore) ha indotto il papa Gregorio Magno (secondo la leggenda) a pregare tanto per la salvezza (del pagano Traiano) da vincere sulla decisione di Dio di inviarlo tra i dannati dell’Inferno; io (mi riferisco) parlo dell’imperatore Traiano; e (narra la leggenda, che si ritrova anche nel Novellino, che) una vedovella teneva la briglia del suo cavallo (cioè lo ha fermato per chiedere giustizia), in atteggiamento di pianto e di dolore (lacrimante e sofferente). Intorno a lui sembra (appare) tutto pieno (gremito) di cavalieri, e le aquile d’oro ricamate sugli stendardi (sulle insegne) per quanto appariva alla vista, sembravano muoversi al vento, sopra di loro (sono pronti per partire per un’impresa militare). La poveretta (la povera donna) in mezzo a tutta questa gente, questi cavalieri, sembrava che dicesse (implorasse): Signore, vendica il mio figliolo che è stato (ingiustamente) ucciso, (e) per la qual cosa io soffro (provo tanto dolore, sono disperata; per la donna, di bassa condizione sociale, è più importante il suo dolore per il figlio e l’esigenza di giustizia e non i disegni politici e militari dell’imperatore). E questi (sembrava che nella scultura rispondesse, facendo prevalere la ragion di Stato, l’interesse dello Stato, il primato della politica sul privato): Adesso aspetta fintanto che io ritorni (dalla spedizione, dall’impresa militare). E la donna, che appare impaziente di avere soddisfazione al suo incalzante dolore: O Signore, e se tu non ritornassi? (se capitasse di morire nell’impresa?). E lui: Chi prenderà il mio posto, quello ti farà la vendetta (ti renderà giustizia). E la donna: Il bene fatto da un altro cosa rappresenterà per te (a cosa ti gioverà) se avrai dimenticato (trascurato) di farlo tu stesso? Per cui egli (impietositosi di fronte all’incalzante richiesta di giustizia di una madre), alla fine sembrava dire: Ti sia di conforto (consolati, stai tranquilla), perchè conviene (è necessario, è giusto) che io assolva (compia) il mio dovere (di rendere giustizia a una vedova, a una povera madre), prima di partire (per l’impresa, per la guerra): lo vuole (lo esige) la giustizia (l’imperatore non può esimersi dal far trionfare la Giustizia e la Legge, di cui è l’alto garante) e mi trattiene (dal partire) la pietà (la compassione per una madre addolorata).

Colui (Dio), che non ha mai visto cosa per lui nuova (cioè: per il quale niente costituisce una novità, visto che è lui il Creatore, l’Autore di ogni cosa e sa tutto), è stato l’artefice (l’autore) di queste sculture (di queste immagini, scene) che sembrano parlare a chi le vede (solo a vederle: visibile parlare, tanta è la loro plasticità, il loro estremo realismo), cosa, questa, per noi assolutamente nuova (meravigliosa, eccezionale) perché sulla Terra non si trova (qualcosa del genere).

Dante è lui, con il suo grande, spaventoso realismo, a rendere plastiche quelle figure e a farle parlare ma, nella sua umiltà, ci dice che è Dio il Poeta, l’Artista che le ha create così bene da sembrare che parlino, da sembrare a noi così visibili, immagini che parlano da sole. Intanto, mentre lui si diletta, si riempie il cuore e la mente di quelle immagini (e ci manca poco che non sia colpito dalla sindrome di Stendhal…), Virgilio ha già notato, e fa notare a Dante, che da una parte della cornice, del ripiano procedono lentamente e pesantemente parecchie anime: quelle dei superbi. E così la scena si sposta sapientemente dalle sculture in cui sono esaltati i casi, gli esempi di umiltà premiata da Dio ai puniti per superbia, uno dei peggiori peccati, uno dei più grandi mali che colpiscono gli uomini e li rendono cattivi, arroganti, prepotenti, disumani, incapaci di mettere in discussione le proprie pecche, i propri vizi, i propri difetti: insomma, i superbi sono dei tipi umani che sono il perfetto e preciso contrario degli umili.

In questa parte terminale del canto-capitolo non si incontra alcun personaggio ma è soltanto descritta (da Virgilio) la pena di questa schiera di anime espianti e, alla fine, tra un nuovo appello al lettore, una similitudine e un’apostrofe con tanto di linguaggio simbolico, Dante dice la sua sulla vanità della superbia, male di cui è afflitto l’uomo-verme-cariatide, al quale contrappone il valore rarissimo dell’umiltàMentr’io mi dilettava di guardare l’imagini di tante umilitadi, e per lo fabbro loro a veder care, “Ecco di qua, ma fanno i passi radi”, mormorava il poeta, “molte genti: questi ne ‘nvïeranno a li alti gradi”.

Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti per veder novitadi ond’e’ son vaghi, volgendosi ver’ lui non furon lenti. Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi di buon proponimento per udire come Dio vuol che ‘l debito si paghi. Non attender la forma del martìre: pensa la succession; pensa ch’al peggio oltre la gran sentenza non può ire.

Io cominciai: “Maestro, quel ch’io veggio muovere a noi, non mi sembian persone, e non so che, sì nel veder vaneggio”.

Ed elli a me: “La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia, sì che i miei occhi pria n’ebber tencione. Ma guarda fiso là, e disviticchia col viso quel che vien sotto a quei sassi: già scorger puoi come ciascun si picchia”.

O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi, fidanza avete ne’ retrosi passi, non v’accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi? Di che l’animo vostro in alto galla, poi siete quasi entomata [l’edizione del Petrocchi: antomata] in difetto, sì come vermo in cui formazion falla? Come per sostentar solaio o tetto, per mensola talvolta una figura si vede giugner le ginocchia al petto, la qual fa del non ver vera rancura nascere ‘n chi la vede; così fatti vid’io color, quando puosi ben cura. Vero è che più e meno eran contratti secondo ch’avien più e meno a dosso; e qual più pazïenza avea ne li atti, piangendo parea dicer: ‘Più non posso’…

Dunque: Mentre io mi dilettavo a guardare le immagini (le figure, le sculture) di così grandi esempi di umiltà, e preziose a vedersi anche al pensiero del loro creatore (artefice, pensando a chi le ha create, cioè Dio), il Poeta (Virgilio)  ha mormorato (ha detto a bassa voce): Ecco da questa parte (a sinistra, dove si trova Virgilio), molte anime, ma procedono (si muovono) con passi molto lenti: queste ci indicheranno la strada per salire sulle cornici più alte (sui cerchi superiori oppure, secondo altri: gli alti gradini che portano dalla prima alla seconda cornice. Questo presentare la schiera dei superbi nel suo procedere lentamente è stata definita, dalla già citata Chiavacci Leonardi, tecnica del ravvicinamento, che consiste nel mostrare, far vedere qualcosa di più man mano che le anime avanzano).

I miei occhi che erano così appagati (soddisfatti) di aver osservato (ammirato) le cose nuove (le novità) di cui essi sono desiderosi (avidi) non sono stati lenti nel girarsi verso di lui (Virgilio, cioè sono stati prontissimi). Non voglio però, lettore, che tu ti distolga (ti distragga, ti allontani) dal buon proponimento (di seguire la retta via del bene e della salvezza; non perderti d’animo), per il fatto di sentire (nell’ascoltare) come Dio vuole (esige) che il peccato venga scontato (pagato, saldato). Non badare alla forma della sofferenza (della punizione inflitta nel Purgatorio), ma pensa a ciò che seguirà (che verrà dopo: il Paradiso); pensa che, nel peggiore dei casi (delle ipotesi) non potrà andare oltre il Giudizio universale (oltre la fine del mondo: infatti il Purgatorio finisce con la fine dei tempi, mentre Inferno e Paradiso sono eterni).

Io ho incominciato (a parlare): Maestro, quello che io vedo muovere (avanzare, procedere) verso di noi, non mi sembrano persone  (figure umane) e non saprei dire cosa siano, tanto (mi smarrisco confondo, non riesco a raccapezzarmi) non riesco a distinguere quello che vedo (per quanto io sforzi la vista; insomma, la scena appare confusa, anche perché quello che vede è qualcosa di inedito, di insolito e incredibile, di surreale).

E Virgilio a me: La grave (pesante, terribile) condizione del loro tormento (pena) li costringe a stare così rannicchiati (piegati verso terra) tanto che i miei occhi (il mio sguardo) prima ha fatto fatica (ha dovuto quasi lottare, e questo perché il dubbio era tanto) a vedere (a distinguere se erano o meno delle persone, e ha fatto fatica a credere alla scena che vedeva…). Ma guarda ben attentamente là, e (cerca di) distinguere con lo sguardo (con gli occhi) quello che si muove (avanza) sotto i sassi (i macigni, i massi): già puoi ben vedere come ciascuno di loro è colpito (battuto e castigato, tormentato dalla giustizia di Dio, e non, come secondo altri: si colpisce, cioè si batte il petto e questo perché, in quella orribile posizione, non potrebbero farlo).

A questo punto Dante prosegue e chiude il canto-capitolo con una delle sue apostrofi dal sapore biblico in cui attacca duramente il peccato di superbia in cui cadono tanti ipocriti e falsi cristiani su questo mondo, e non dovrebbero; cristiani che non sono altro che uomini-vermi-cariatidi: infatti, l’attacco contro i superbi cristiani mette in evidenza proprio il fatto assurdo, paradossale che non possiamo dirci, dichiararci cristiani e poi procedere e agire, in più di una cosa, poco cristianamente. E per questo l’ossimoro superbi cristiani crediamo che sia una delle più efficaci espressioni coniate da Dante nella Commedia: O cristiani superbi (uomini pieni di superbia), poveri (spiritualmente) e infelici (fiacchi) che, mentalmente ciechi (dalla debole vista della mente) avete molta (appunto, cieca…) fiducia nel vostro avanzare (che è, in effetti, un retrocedere, visto che inseguite cose vane), non vi accorgete che noi (uomini) siamo come dei vermi (dei bruchi, delle larve) nati per (destinati a) diventare angeliche farfalle (cioè spiriti) che poi, volando (si presenteranno) senza alcuna difesa (senza poter nascondere le loro colpe) davanti a Dio (che è Giudice giusto). [Suggerisce bene il Sapegno che l’anima si presenterà nuda, senza orpelli; di fronte alla giustizia di Dio l’anima non può sperare alcun vantaggio da quei beni (onori, ricchezze, potenza, gloria), dai quali l’uomo trae sulla terra ragione di orgoglio e illusione di forza]. Per quale motivo il vostro animo tanto (galla: galleggia) si insuperbisce, visto che (dal momento che) non siete altro che quasi insetti ancora imperfetti (incompleti nel loro sviluppo: entòmata o antòmata), così come (proprio come) i vermi dalla fallita formazione (che non hanno raggiunto il loro completo sviluppo)?

Come quando (come talvolta) si vede una scultura in forma umana (cioè una cariatide, proprio come succedeva nell’arte romanica e gotica), posta a sostegno di un soffitto o di un tetto, al posto di una mensola, e si vede che è così rannicchiata tanto che le ginocchia si congiungono al petto (da sembrare un tutt’uno), la qual cosa fa nascere, in chi la vede (in quello stato) una reale angoscia (sofferenza, compassione) per una cosa che è solo fittizia (non vera); così (allo stesso modo, in quella posizione, cioè così curvi, piegati) io ho visto quelle anime (dei superbi), quando (non appena) ho fatto più attenzione ad essi, (non appena sono riuscito a guardare con più attenzione). In verità (a dire il vero) erano più o meno rannicchiati (ripiegati su se stessi) per il maggiore o minor peso che portavano sulle spalle (per la gradazione della pena, come avviene nell’Inferno); e chi (colui, quello che) pareva che soffrisse di più nel suo atteggiamento (oppure: chi pareva che avesse maggior pazienza, che sembrava più rassegnato alla punizione e al dolore), sembrava che dicesse piangendo: Non ne posso più… (Non ce la faccio più, aiutatemi…: proprio come si legge in alcune iscrizioni su due cariatidi poste sulla porta del Duomo di Civita Castellana, come fanno notare Fallani e Zennaro nel loro commento: una di esse dice: Teneas, gative, aiutame, Aiutami, disgraziato, e l’altra risponde: Non possum quia crepo, Non posso perché crepo)…

Insomma, quanta inutile superbia! E poi, la cosa peggiore è quando ad essere superbi sono quelli che si definiscono cristiani… Dovrebbero vergognarsi! Ma qui, nel Purgatorio, il loro innalzarsi fino al cielo come alberi vuoti, senza frutto, viene punito adeguatamente: qui l’uomo è un vermecariatide orribilmente ripiegato su se stesso, con ginocchia e petto che sembrano un’unica cosa, per l’enorme macigno che grava sulle loro spalle. E adesso, dopo questa premessa, dopo questa suggestiva anteprima, possiamo anche conoscere qualche illustre ed esemplare personaggio che si è distinto per il suo eccessivo orgoglio e la sua particolare  superbia. Un peccato di cui Dante si sentiva un po’ colpevole, ma era solo l’eccessivo scrupolo di una coscienza troppo elevata. Questo, però, lo vedremo più avanti.