Trebisacce-30/10/2024: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi dell’undicesimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonista è il vizio capitale della Superbia incarnato dal grande miniatore Oderisi da Gubbio che simboleggia la vanità della gloria e della fama terrena.
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Pubblichiamo qui di seguito l’analisi dell’undicesimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonista è il vizio capitale della Superbia incarnato dal grande miniatore Oderisi da Gubbio che simboleggia la vanità della gloria e della fama terrena.
Il canto-capitolo XI ovvero il canto di Dante-Oderisi-da-Gubbio sulla vanità della gloria e della fama terrena. Prima cornice. I superbi, in segno di contrizione, cantano il Pater noster e invocano umilmente Dio, mentre lentamente procedono rannicchiati sotto gli enormi massi. Dante incontra tre esemplari casi di superbi puniti che provengono, come al solito, dalle classi dirigenti, dalle élites dominanti e, insomma, dai ceti altolocati: Umberto degli Aldobrandeschi (che paga per la smisurata superbia, mista ad arroganza, del suo casato: la superbia gentilizia), Oderisi da Gubbio (una sorta di doppio, di alter ego di Dante, troppo orgogliosamente superbo per la sua arte di miniatore: la superbia artistica e intellettuale) e, infine, Provenzano (o Provenzan) Salvani (che paga per la sua eccessiva superbia politica mista ad elevata presunzione). Dalle vite quasi parallele e affini dei protagonisti del canto-capitolo emerge, come a conferma, che la superbia (il peccato che più direttamente ha offeso Dio) è disprezzo, nessun rispetto degli altri, è odio, è disuguaglianza, è antidemocratica, mentre l’umiltà è democrazia, è uguaglianza, è giustizia e vuol dire rispetto e amore degli altri uomini. Dante, che si sente anche lui alquanto affetto da quel peccato, superbo e orgoglioso per la sua alta arte poetica e artistica e si vede come chiamato in causa, fa dire a Oderisi parole-monito che suonano come una sorta di apostrofe contro la vanità, la vanagloria dell’umane posse e del mondan romore, della fama, delle transitorie, instabili e caduche glorie terrene (delle quali anche Dante ha avvertito il fascino e la tentazione, per la sua consapevolezza di essere un ingegno superiore agli altri). I problemi che pone Dante (uomo dall’etica altissima) sono sempre problemi di coscienza e anche dell’inconscio, i nostri e, prima di tutto, i suoi, lui che si è assunto il compito-missione di rappresentare l’umanità peccatrice che, appunto, prendendo consapevolezza del peccato, può purificarsi, redimersi e salvarsi fino a giungere alla beatitudine, compiendo, in tal modo, il difficile assalto al Cielo per la felicità spirituale, eterna. Per tutto il canto-capitolo sembra riecheggiare la celebre espressione che si legge nel De imitatione Christi: Sic transit gloria mundi, Così passa la gloria del mondo, e passa perché le cose terrene, del mondo sono effimire, sono provvisorie mentre quelle spirituali e la stessa gloria che Dio concede ai destinati alla beatitudine sono durature, sono eterne e, pertanto, è a queste che bisogna guardare e umilmente tendere. Intanto, come si può notare, il dolce mondo, la vita terrena ritorna sempre, non se ne può fare a meno. (Tutto si svolge il lunedì, un po’ dopo le 11 dell’11 aprile del 1300).
Padre nostro che sei nei cieli, sia lodato il tuo nome, dacci la pace del tuo regno, ti diano gli uomini soddisfazione, liberaci dal demonio, dal Male, perdona tutti… Noi preghiamo non tanto per noi ma per tutti gli altri peccatori sulla Terra… Così i superbi cantano in coro, come fratelli nella pena e nel pentimento, il Padre nostro (per la prima volta tradotto in volgare) con alcune aggiunte che Dante ha fatto per marcare, sottolineare la loro condizione di penitenti pienamente ravveduti e pentiti e, infatti, essi mostrano sincera contrizione e ammettono la vanità della loro superbia in vita, la loro finitezza, il loro essere nulla di fronte a Dio e a paragone di Dio, e nulla è la vanagloria, la brama, l’ambizione della fama, del Potere, delle ricchezze, ecc. e, insomma, nulla il loro smisurato sentimento di onnipotenza e di superiorità strettamente legato al peccato di superbia; e nulla tutto questo e la vita stessa se commisurate all’eternità: che cos’è la nostra vita e che cos’è la nostra gloria, la nostra fama, soprattutto se vissuta con superbia e arroganza, di fronte all’eternità? Nulla! Se, poi, riflettessimo su quello che ha scritto Charles Darwin, padre dell’evoluzionismo e grande tormento della Chiesa insieme a Copernico, allora, probabilmente, un po’ tutti dovremmo ridimensionarci: L’uomo nella sua arroganza si crede un’opera grande, meritevole di una creazione divina. Più umile, io credo sia più giusto considerarlo discendente dagli animali.
Lo stesso morire vecchi o giovani (Michel de Montaigne, nei suoi Saggi, scrive che il lungo tempo da vivere o il poco tempo da vivere è resa la stessa cosa dalla morte) non ha alcun senso di fronte alla prospettiva del tempo visto come eternità e non come tempo della nostra vita o tempo storico, della Storia… Infatti, il tempo della nostra vita e il tempo della Storia sono destinati a finire con la fine dei tempi, ma davanti a noi si stende immenso il campo deserto dell’eternità (direbbe Andrew Marvell). E dunque: l’uomo è piccolo, è un granellino nell’universo mentre Dio è grande e infinito. Parole simili avrebbe scritto Blaise Pascal nei suoi Pensieri e, in quelle che Dante mette in bocca all’orgogliosissimo Oderisi da Gubbio si avverte questa sintesi come quella che Dante conosceva bene e che proveniva dalla Bibbia, soprattutto dall’Ecclesiaste (o Qohelet): Vanità delle vanità, vanità delle vanità, tutto è vanità. Che profitto ha l’uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole? Una generazione se ne va, un’altra viene, e la terra sussiste per sempre. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l’uomo possa dire; l’occhio non si sazia mai di vedere e l’orecchio non è mai stanco di udire. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Guarda, questo è nuovo?”. Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto. Non rimane memoria delle cose d’altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi…
E, dunque: Niente di nuovo sotto il sole… vanità della saggezza umana, vanità dei piaceri, delle ricchezze e del lavoro…Vanità di tutto!… Perché, se sullo sfondo, c’è l’eternità, allora tutto è vano, tutto è orribilmente caduco, a nulla vale ogni nostro sforzo di sentirci e di viverci come se fossimo eterni!… Perché, in verità, siamo tristemente provvisori su questo mondo ma, quando viviamo ci sentiamo eterni, viviamo la vita come se fossimo eterni, come se non dovessimo morire mai e, quindi, come se fossimo immortali. Per questo ci armiamo di tutta la nostra cattiveria, di tutta la nostra superbia, di tutta la nostra arroganza e prepotenza e facciamo il Male anziché il Bene, con la sicurezza che mai noi moriremo e mai siamo chiamati dalla vita o da Dio alla resa dei conti. Ci sentiamo eterni e invece siamo mortali, caduchi, effimeri, siamo una piccola cosa, un granello di sabbia gettato nell’universo e dovremmo, pertanto, pensare che dobbiamo rispondere a qualcuno (a Dio per chi crede, agli uomini per chi non crede) delle nostre azioni. Se avessimo l’umiltà di vivere secondo quello che siamo, e cioè come esseri limitati, finiti e provvisori, piccoli granelli di quell’atomo opaco del male (Pascoli), di quel pianeta Terra che si trova nell’immenso universo, allora certamente saremmo più buoni, capiremmo che essere cattivi, superbi, arroganti, prepotenti, avidi di Potere e di ricchezze, ecc. ecc. non serve a nulla, come a nulla serve anche la gloria terrena, la brama di fama, la presunzione di essere il migliore, il grande artista o scrittore o scienziato che resterà per sempre, in eterno, quando si sa che di eterno c’è solo l’eternità e il suo vasto deserto… Tutto è illusione e sogno e non ce ne accorgiamo!…E viene in mente Calderon de la Barca per il quale la vita è sogno, e viene in mente Shakespeare (La tempesta) per il quale noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita; come pure vengono in mente gli ameni inganni di Leopardi, e vengono in mente le illusioni e la religione delle illusioni di Foscolo, con i grandi valori e ideali che ci sorreggono, che fanno da puntello a una vita che altrimenti non avrebbe alcun senso vivere se viverla come le bestie. E, allora, la Verità, l’Amore, la Libertà, la Bellezza e soprattutto la Poesia (che vince di mille secoli il silenzio) finiscono per rivelarsi i più grandi supporti, i più grandi pezzi di legno a cui aggrapparci nel nostro quotidiano naufragio nell’immenso e terribile mare della vita.
Anche Dante sentiva di peccare un po’ di superbia (di superbia intellettuale e artistica) e nell’apostrofe, nelle parole messe in bocca all’emblematico Oderisi (che appare come un suo doppio, un suo alter ego) sulla vanità delle glorie terrene, più di un esegeta ha visto un implicito, indiretto riferimento autobiografico, alla sua vita, al suo sentirsi grande e immortale, insomma al suo essere alquanto narcisista, vanitoso e pieno di sé. Tanto da fargli dire che c’è forse già chi supera, chi è più grande dei due Guidi, cioè di Guinizzelli e di Cavalcanti (l’amico di una vita, che pare Dante abbia messo volutamente in ombra nella Commedia), e questo più grande sarebbe proprio il divino Poeta. Ma Dante è stato poi veramente un uomo toccato dalla superbia? Nella sua altissima coscienza, nel suo altissimo sentire e nella sua altissima onestà egli si sarà certamente fatto qualche problema di coscienza, di scrupolo nel suo manifestare il proprio sentimento di grandezza e di superiorità rispetto agli altri poeti e scrittori, fino a sentirsi in peccato, in peccato di poca umiltà. Lui che, nella Commedia, parla di poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, insomma come scritto a quattro mani da lui e da Dio, che lo ha ispirato e guidato; lui che dice a noi: o voi che siete in piccioletta barca…; lui che si autodefinisce il sesto tra cotanto senno (di antichi poeti); lui che esalta, più di una volta, il suo alto ingegno la cui navicella alza le vele per poter percorrere migliori acque… E potremmo continuare. Ma, domanda: l’autoesaltazione di Dante, la sua consapevolezza di essere grande e immortale poeta e scrittore è proprio un peccato di superbia, è peccare di scarsa umiltà? La risposta è: No. Primo, perché si potrebbe obiettare: ma è proprio un peccato essere orgogliosi di se stessi, consapevoli di valere e di avere delle grandi qualità, soprattutto quando si riconosce che esse sono un generoso dono di Dio? E, infatti, Dante non era un albero vuoto, senza frutto, che si innalzava boriosamente e vanamente verso l’alto, verso il Cielo magari per sfidarlo, come tanti personaggi che si sono visti nell’Inferno. Nulla di tutto questo. Dante ci dice chi è e ci parla del suo valore e della sua grandezza precisando che lui è quello che è per dono e grazia divina, che tutto quello che fa e farà è fatto sotto l’egida di Dio e che il suo stesso viaggio nell’oltremondo è voluto da Dio, è una missione che Lui gli ha affidato per il bene dell’umanità peccatrice, che si è fatto carico di simboleggiare e di rappresentare, con l’obiettivo finale di condurla sulla retta via dopo essersi smarrita. Insomma, quella di Dante è consapevolezza di sé ma nell’umiltà, nell’umile affidarsi alla grazia e alla volontà divina, della quale egli si fa portavoce e rappresentante nei tre Regni ultraterreni, perché così Dio ha voluto. Ulisse, suo grande fratello, suo simile, ha fallito perché non ha potuto affidare la sua intelligenza e le sue possibilità alla grazia e alla volontà divine.
Quindi: Oh vana gloria de l’umane posse!… e non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento…fa dire Dante (insieme ad altre cose) a Oderisi, il quale era come una sorta di marchio italiano, un sorta di made in Italy dei suoi tempi, mentre il primo personaggio, Umberto degli Aldobrandeschi, parla della inutile smisurata superbia, mista ad arroganza, del suo casato, di tutta la sua famiglia. Infine, chiude la narrazione dei paradigmatici personaggi Provenzan Salvani, emblema dell’eccessiva superbia politica, dell’eccessivo arrivismo politico, per cui avrebbe voluto sottomettere, porre sotto il suo Potere tutta Siena, e che è riuscito ad ottenere il perdono divino e a salvarsi, all’orlo della vita (agli orli della vita è un’espressione che nel ‘900 sarà cara a Pirandello), grazie a un grande gesto di umiltà: si era messo a chiedere pubblicamente l’elemosina, umiliandosi, al fine di poter far restituire la libertà ad un suo amico messo in prigione dal re Carlo d’Angiò. In merito alla recita del Padre nostro va rilevato che a noi pare che Dante abbia modificato con anticipo di secoli rispetto alla Chiesa il celebre: non ci indurre in tentazione (fatto finalmente cambiare da papa Francesco nel 2018, con: non abbandonarci alla tentazione): giustamente è il demonio, è Satana che tenta, che induce in tentazione e non Dio!… Infatti, Dante fa dire ai superbi: Nostra virtù che di legger s’adona, non spermentar con l’antico avversaro, ma libera da lui che sì la sprona. Alla fine del canto-capitolo, tra le righe, nelle parole di Provenzan Salvani c’è anche un accenno profetico all’esilio di Dante. E dunque:
“O Padre nostro, che ne’ cieli stai, non circunscritto, ma per più amore ch’ai primi effetti di là sù tu hai, laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore da ogne creatura, com’è degno di render grazie al tuo dolce vapore. Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, ché noi ad essa non potem da noi, s’ella non vien, con tutto nostro ingegno. Come del suo voler li angeli tuoi fan sacrificio a te, cantando osanna, così facciano li uomini de’ suoi. Dà oggi a noi la cotidiana manna, sanza la qual per questo aspro diserto a retro va chi più di gir s’affanna. E come noi lo mal ch’avem sofferto perdoniamo a ciascuno, e tu perdona benigno, e non guardar lo nostro merto. Nostra virtù che di legger s’adona, non spermentar con l’antico avversaro, ma libera da lui che sì la sprona. Quest’ultima preghiera, segnor caro, già non si fa per noi, ché non bisogna, ma per color che dietro a noi restaro”.
Così a sé e noi buona ramogna quell’ombre orando, andavan sotto ‘l pondo, simile a quel che talvolta si sogna, disparmente angosciate tutte a tondo e lasse su per la prima cornice, purgando la caligine del mondo. Se di là sempre ben per noi si dice, di qua che dire e far per lor si puote da quei c’hanno al voler buona radice? Ben si de’ loro atar lavar le note che portar quinci, sì che, mondi e lievi, possano uscire a le stellate ruote.
“Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi tosto, sì che possiate muover l’ala, che secondo il disio vostro vi lievi, mostrate da qual mano inver’ la scala si va più corto; e se c’è più d’un varco, quel ne ‘nsegnate che men erto cala; ché questi che vien meco, per lo ‘ncarco de la carne d’Adamo onde si veste, al montar sù, contra sua voglia, è parco”.
Le lor parole, che rendero a queste che dette avea colui cu’io seguiva, non fur da cui venisser manifeste; ma fu detto: “A man destra per la riva con noi venite, e troverete il passo possibile a salir persona viva. E s’io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma, onde portar convienmi il viso basso, cotesti, ch’ancor vive e non si noma, guardere’ io, per veder s’i’ ‘l conosco, e per farlo pietoso a questa soma. Io fui latino e nato d’un gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; non so se ‘l nome suo già mai fu vosco. L’antico sangue e l’opere leggiadre d’i miei maggior mi fer sì arrogante, che, non pensando a la comune madre, ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante, ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno, e sallo in Campagnatico ogne fante. Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, ché tutti miei consorti ha ella tratti seco nel malanno. E qui convien ch’io questo peso porti per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, poi ch’io nol fe’ tra ‘ vivi, qui tra ‘ morti”.
Ascoltando chinai in giù la faccia; e un di lor, non questi che parlava, si torse sotto il peso che li ‘mpaccia, e videmi e conobbemi e chiamava, tenendo li occhi con fatica fisi a me che tutto chin con loro andava.
“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte ch’alluminar chiamata è in Parisi?”.
“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese; l’onore è tutto or suo, e mio in parte. Ben non sare’ io stato sì cortese mentre ch’io vissi, per lo gran disio de l’eccellenza ove mio core intese. Di tal superbia qui si paga il fio; e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse! com’ poco verde in su la cima dura, se non è giunta da l’etati grosse! Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura. Così ha tolto l’uno a l’altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido. Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato. Che voce avrai tu più, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’, pria che passin mill’anni? ch’è più corto spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia al cerchio che più tardi in cielo è torto. Colui che del cammin sì poco piglia dinanzi a me, Toscana sonò tutta; e ora a pena in Siena sen pispiglia, ond’era sire quando fu distrutta la rabbia fiorentina, che superba fu a quel tempo sì com’ora è putta. La vostra nominanza è color d’erba, che viene e va, e quei la discolora per cui ella esce de la terra acerba”.
E io a lui: “Tuo vero dir m’incora bona umiltà, e gran tumor m’appiani; ma chi è quei di cui tu parlavi ora?”.
“Quelli è”, rispuose, “Provenzan Salvani; ed è qui perché fu presuntüoso a recar Siena tutta a le sue mani. Ito è così e va, sanza riposo, poi che morì; cotal moneta rende a sodisfar chi è di là troppo oso”.
E io: “Se quello spirito ch’attende, pria che si penta, l’orlo de la vita, qua giù dimora e qua sù non ascende, se buona orazïon lui non aita, prima che passi tempo quanto visse, come fu la venuta lui largita?”.
“Quando vivea più glorïoso”, disse, “liberamente nel Campo di Siena, ogne vergogna diposta, s’affisse; e lì, per trar l’amico suo di pena, ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo, si condusse a tremar per ogne vena. Più non dirò, e scuro so che parlo; ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini faranno sì che tu potrai chiosarlo. Quest’opera li tolse quei confini”…
Proviamo a tradurre: O padre nostro, che stai nei cieli, non circoscritto (non limitato dallo spazio, da nulla limitato, Lui che tutto circoscrive e contiene), ma per maggiore amore che tu hai per i cieli e le creature angeliche, sia lodato il tuo nome (del Dio Padre) e la tua potenza (del Figlio) da ogni creatura, come pure è giusto rendere grazie allo Spirito Santo (vapore). La pace del tuo Regno venga verso di noi (donala a noi) perchè noi, con le sole nostre forze, non possiamo raggiungerla (arrivare ad essa) anche usando tutto il nostro ingegno (per quanto cercassimo di impegnarci con tutte le nostre forze naturali), se essa non ci viene data (elargita) dalla Tua grazia. Come i tuoi angeli si sottomettono alla tua volontà (sottomettono la loro volontà a Te), esultando, cantando gli osanna (cioè salve; indica lode, gloria, acclamazione, benedizione a Dio), così (allo stesso modo) facciano gli uomini della loro volontà. Dacci oggi il nostro pane quotidiano (il cibo dello spirito e, perciò, la grazia divina), senza il quale non va avanti (ma retrocede) chi più si affanna nel procedere (camminare) attraverso il duro (impervio) deserto (della vita terrena, del mondo, dove si trova anche il Purgatorio e, quindi, la cosa riguarda anche loro. Insomma: senza la grazia divina, chi si sforza di andare avanti, non fa altro che tornare indietro). E come noi perdoniamo agli altri (ad ognuno) il male che abbiamo sofferto (patito) anche tu perdona noi benignamente, e non guardare i nostri meriti (che sono sempre inadeguati, insufficienti, indegni di Te). Il nostro valore (la nostra virtù) che cede (si dà per vinta) facilmente, non metterla alla prova con il demonio che la tenta (con le tentazioni del demonio), ma liberala da lui che la sping (stimola, incita) al male.
Quest’ultima preghiera (supplica, di non indurci in tentazione, ecc.), (o nostro) Signore caro, non la facciamo per noi (per le nostre anime), perchè non ce n’è bisogno (non ne abbiamo bisogno), ma per coloro che sono rimasti dietro di noi (cioè per i vivi, quelli che sono rimasti sulla Terra e, quindi, soggetti a tentazioni).
Così, quelle anime ben augurando, con la preghiera, per sé e per noi il felice viaggio, la sua buona riuscita, camminavano (procedevano lentamente…) sotto il peso (dei massi), insopportabile come quello che talvolta si sogna (cioè un incubo!…), diversamente (in maniera diseguale) sofferenti (oppresse, ed è oppressione fisica, morale e spirituale) girando intorno al monte, e abbattute (stanche) su per (oppure: lungo, attraverso) la prima cornice, purificandosi del loro peccato (cioè della nebbia del fumo del peccato, delle passioni terrene che offuscano tuttora la purezza dell’anima). Se le anime del Purgatorio pregano sempre per noi (per il nostro bene) qui (sulla Terra) cosa si può dire e fare per loro da chi (da parte di coloro che) nella loro volontà, sono favoriti da una buona base (da un buon fondamento, cioè avere un’anima pura ed essere nella grazia di Dio)? È ben giusto che vengano aiutate (atar o aitar, a seconda delle edizioni della Commedia) a purgare (cancellare) le macchie (le tracce, le impronte) del peccato, che dal mondo hanno portato qui, in modo che puliti (puri e leggeri, sgravati, appunto, dal peso del peccato, della colpa) possano giungere (salire) al cielo (al Paradiso).
A questo punto, Virgilio si rivolge a quelle anime oppresse dall’incubo dei loro enormi e terribili pesi, per chiedere, con captatio benevolentiae, la strada migliore e più breve per passare dalla prima alla seconda cornice: Deh, possano la giustizia e la pietà di Dio liberarvi presto dai vostri pesi (che sono tormenti fisici e spirituali, che vi opprimono), in modo che possiate iniziare il volo (levarvi in volo) per potervi innalzare secondo il vostro desiderio (fino a Dio, al Paradiso), (ebbene) diteci (mostrateci) da quale parte è più breve salire (o: la salita) per la seconda cornice; e se c’è più di un passaggio, indicateci, quello meno ripido (che scende meno ripidamente e perciò più agevole); poiché questi (Dante) che viene con me, per via del peso del corpo (la carne d’Adamo) di cui è rivestito, è lento (fa fatica) a muoversi, sebbene contro il suo desiderio (perché vorrebbe ben procedere più velocemente ma il peso del corpo glielo impedisce).
Le loro parole, in risposta (non si capisce chi sia a rispondere) a quelle dette da colui che io seguivo (cioè Virgilio), non è stato chiaro da chi siano state pronunciate (non si è capito bene chi le abbia dette, in quanto tutte curve per i pesanti macigni), ma è stato detto (quanto segue): Camminate (procedete) con noi sulla destra, lungo la parete (il pendio del monte), e potete trovare (troverete) il passaggio che è possibile (facile a scalare) salire a un uomo vivo. E se io non fossi impedito (ostacolato e oppresso) dal peso del masso che grava sulla mia superba cervice (testa) per cui sono costretto a portare (è necessario che io porti) il viso (lo sguardo) in basso (che in vita era tanto inutilmente rivolto verso l’alto…), costui, che è ancora vivo e di cui non è stato detto il nome, io lo guarderei, per vedere se lo conosco, e per renderlo pietoso (indurlo a pietà e quindi a pregare per lui una volta tornato sulla Terra), di fronte (alla miseria di) questo orribile peso (da bestia da soma; qui il superbo, dopo aver spiegato la sua penosa condizione, si automortifica e umilia assimilandola a quella di una bestia da soma, di un animale schiacciato dal peso che porta addosso e il Sapegno delinea bene lo stato d’animo, la psicologia dell’anima purgante, espiante di Umberto Aldobrandeschi: Nelle parole di quest’anima il contrasto fra la superbia antica e l’umiltà presente è sentito con forte intensità drammatica: donde l’accento vibrato ed energico dei vocaboli di cui si serve per esprimere così l’una come l’altra, e il tono violento delle antitesi. In ogni frase avverti la presenza di una tensione, l’eco della dura e difficile battaglia che lo spirito combatte con fiera determinazione e senza tregua contro il se stesso d’un tempo).
Io fui un italiano e nato da un illustre (un gran) signore toscano (un toscano di illustre casato): mio padre fu Guglielmo Aldobrandeschi (dei conti di Santafiora, signore della Maremma senese, di parte ghibellina, spesso in lotta con il Comune di Siena), non so se il suo nome è giunto a voi (cioè: non so se abbiate mai sentito parlare di lui, se avete mai sentito il suo nome, se l’avete mai sentito nominare). L’antica (nobiltà) della mia stirpe (il fatto di essere di un’antica e potente casata, famiglia) e le opere nobili, generose (proprie della cavalleria) dei miei avi (antenati) mi hanno reso così arrogante (superbo; è detto con tono di contrizione, di ravvedimento: infatti, l’io fui contrasta con evidenza con l’io sono del presente nel Purgatorio), che, non pensando alla comune origine (“comune madre”) degli uomini (Eva, ma meglio: la terra, che è la comune madre, genitrice degli esseri umani, da cui veniamo e alla quale torneremo, per cui tutti siamo uguali, prima di tutto di fronte a Dio che ci ha creati…: parole che confermano che la superbia è disprezzo degli altri, è disuguaglianza, è antidemocratica, mentre l’umiltà è democrazia, è uguaglianza; del resto, questo concetto, l’aveva ben compreso quella grande mente di sant’Agostino: È stato l’orgoglio che ha trasformato gli angeli in diavoli; è l’umiltà che rende gli uomini uguali agli angeli), (dunque: non pensando che siamo tutti fratelli) ho disprezzato ogni uomo a tal punto, in maniera così esagerata, che ne morii, fui ucciso (per l’odio, per l’avversione e l’antipatia che si era guadagnato presso quella che oggi chiamiamo opinione pubblica: secondo alcuni fu fatto soffocare nel letto di casa sua da sicari del Comune di Siena nel 1259, mentre secondo altri sarebbe stato ucciso con molta violenza, e quasi a furor di popolo, nella battaglia di Campagnatico e, secondo altri ancora semplicemente caduto in battaglia, ma questa ipotesi pare non reggere; Umberto non volendo dire apertamente com’è morto conclude, indicando però il mandante, cioè i suoi potenti nemici del Comune di Siena che): e il modo in cui (la mia fine) è avvenuta lo sanno i Senesi e lo sa ogni ragazzo (oppure: ogni persona, ognuno) di Campagnatico. Io sono Umberto; e la superbia (smisurata) ha recato danno non solo a me, poichè ha trascinato (e travolti) nella malora (nella rovina) tutti i miei consanguinei (tutti quelli del mio ceppo, della mia stirpe). E qui (nel Purgatorio) è giusto (è necessario) che io (sop)porti questo peso (cioè sia così adeguatamente punito) a causa della mia superbia, finchè (fino a quando) non soddisfo Dio del mio peccato, qui, nel mondo dei morti, visto che non l’ho fatto in quello dei vivi (quando ero vivo).
Io, mentre lo ascoltavo, ho chinato la testa (in giù, verso il basso, sia per sentirlo, ascoltarlo meglio, ma anche per quasi uguagliarsi a quelle anime così duramente punite, per scendere quasi al loro stesso livello, umiliandosi insieme a loro, per non farli sentire in così bassa condizione morale e spirituale, oltre che fisica, e perché anche lui, come si è visto più sopra, si sentiva alquanto in colpa, si sentiva colpevole del peccato di superbia, sia per le sue origini nobili che, soprattutto, per il suo ingegno e il suo valore); e una di quelle anime, non questi che aveva appena parlato (cioè Umberto), si è (torta) girata (con molto sforzo) sotto il peso che le ostacola (che impedisce) i movimenti (e quindi di guardare verso l’alto), mi ha visto e mi ha riconosciuto e mi ha chiamato; tenendo gli occhi con (molta) fatica fissi su di me che, tutto chinato, camminavo (procedevo) con loro (insieme a loro). (L’anima, che è quella di Oderisi da Gubbio, è contenta e commossa di vedere una persona che ha conosciuto e stimato in vita, e anche Dante lo è, e infatti così si rivolge al grande miniatore, che avrà conosciuto probabilmente a Bologna): Oh! (ma) non sei tu Oderisi, l’onore (il vanto) di Gubbio e l’onore (il vanto) di quell’arte che a Parigi è chiamata (definita) alluminare? (enluminer; cioè miniare, l’arte della miniatura che dava come una luce alle opere, le faceva come splendere: l’allume serviva per la preparazione dei colori d’oro e d’argento mentre il minio come prezioso colorante rosso; e Dante, anche questa volta, mostra di essere informato e di conoscere un po’ tutto sulle cose che sono state e su quelle che sono).
E Oderisi così replica: (O) fratello, le carte (le pagine) che dipinge Franco il Bolognese (brillano) splendono di più (per i loro vivaci colori, sono più illuminate delle mie): (adesso) l’onore (la fama, il primato, l’eccellenza in quell’arte) è tutto suo, e solo mio in (piccola…) parte (ormai passato in secondo piano, dice con una certa amarezza Oderisi, che sembra rimpiangere quel primato avuto nel dolce mondo; intanto, se non l’avesse ricordato Dante nella Commedia, Franco sarebbe un emerito sconosciuto…). Io non sarei stato certo così cortese (benevolo, generoso) con lui da vivo, per il grande desiderio (la grande ambizione) di avere il primato (di eccellere sugli altri, di essere superiore agli altri) al quale (desiderio) era tutto indirizzato, (teso e proteso) il mio cuore (il mio animo, cioè, era la sua grande passione). Di questa superbia (dell’esagerato sentimento del mio superiore ingegno e valore qui, nel Purgatorio) si paga la pena (il conto); e non sarei ancora qui (nella prima cornice, ma nell’Antipurgatorio), se non fosse stato che (mentre ero ancora in vita e non all’ultimo momento, e) potendo (quindi) peccare, mi sono rivolto a Dio (cioè, mi sono pentito).
(Le parole di Oderisi offrono l’occasione a Dante di lanciare, tramite lui, il suo sfogo contro la vanità della gloria umana e, probabilmente, anche di confutare, smentire ogni meschino giudizio su di lui, dettato magari da invidia e mediocrità): Oh vana (inutile, perché effimera) gloria delle possibilità umane (dell’umano valore)! (dell’uomo nell’arte, nell’ingegno, nell’attività creativa che si consegue acquista, appunto, con le opere umane; e qui Dante sembra come voler riprendere l’apostrofe del canto-capitolo X: Oh superbi cristian, miseri lassi). Come dura poco il verde che sta sopra la cima (di un albero, cioè come presto svanisce diventando arido come i rami di un albero che secca), se ad essa (alla gloria) non seguono età barbare (di declino, di decadenza e ignoranza)! (perché se seguissero età rigogliose, di rinnovamento, di cambiamenti epocali, di rivoluzionarie novità, essa durerebbe ben poco tempo, in quanto emergerebbero altri ingegni. E fa l’esempio di Giovanni di Pepo, detto) Cimabue (maestro di Giotto, che) aveva creduto di primeggiare (di essere il primo nella pittura, nella sua arte pittorica) e (invece) adesso è Giotto (di Bondone, il suo discepolo) ad essere un pittore di grido (di fama, da prima pagina, si direbbe oggi), tanto che la sua fama è (ormai) oscurata. Così (allo stesso modo, passando dall’arte alla letteratura), un Guido (Cavalcanti) ha strappato (tolto) all’altro Guido (Guinizzelli, una volta ritenuto il maestro di tutti i poeti stilnovisti, della nuova poesia toscana) il primato (la gloria) nella poesia (nella letteratura moderna, in volgare); e forse è (già) nato chi caccerà dal nido sia l’uno che l’altro Guido (cioè chi toglierà, strapperà ad entrambi il primato, il trono in campo letterario).
(Secondo più di un commentatore, e anche secondo noi, qui c’è allusione a se stesso: il “superbo” Dante li supererà, anzi li ha già superati: è lui il più grande nell’arte della poesia e della scrittura. Ma il “superbo” Dante, dopo uno scatto d’orgoglio e di autoesaltazione, in quanto troppo consapevole della propria grandezza, fa dire (con umiltà) a Oderisi che, comunque, lui è anche ben consapevole che tutto è vano e che la fama terrena non è che un fragoroso nulla che si risolve in una soffiata di vento e che se oggi è lui il più grande, domani potrebbe essere superato da un altro più grande di lui): La gloria mondana (terrena) non è altro che un fiato (un soffio, un alito) di vento, che ora spira da una parte e ora da un’altra (è, cioè, mutevole, incostante, instabile, volubile: può cambiare nome a seconda della direzione da cui spira, e cioè ancora: oggi può accarezzare me e domani può accarezzare un altro, oggi la fama tocca a un nome e domani a un altro. E proseguendo con tono biblico e forte delle letture degli antichi filosofi classici come Seneca o Boezio, Oderisi-Dante prosegue ponendo una sorta di dilemma a se stesso: Morire vecchi o giovani fa la differenza se rapportiamo tutto all’eternità? Saremmo comunque dimenticati, ignorati… E anche se la nostra fama durasse mille anni, cosa sarebbero di fronte all’eternità? E, quindi, si conferma che tutto è vano perché anche dopo mille anni tutto potrebbe cambiare e noi finire nell’oblio e soppiantati da altro e da altri…): Quale maggiore fama avresti, da qui a meno di mille anni, se tu morissi (se vecchia scindi da te la carne) in tarda età (da vecchio) e non da giovane (in età da fanciullo, cioè prima di lasciare le parole infantili, quando, per es., diciamo pappo per dire pane, cibo, o dindi per dire denaro, soldi)? Che pure è un così breve spazio (ben poca cosa) se paragonato (confrontato, commisurato) all’eternità, un batter di ciglia se anche paragonato al tempo che impiega il cielo delle stelle fisse a ruotare (a fare la sua rivoluzione, il suo giro: 360 secoli, ovvero 36.000 anni!…).
(Infine, Oderisi chiude raccontando la storia di Provenzan Salvani, grande superbo e potente capo ghibellino di Siena; fu uno degli artefici della vittoria nella battaglia di Montaperti, del 1260, e tra colui che propose, nel concilio di Empoli, di distruggere Firenze, ma Farinata degli Uberti si oppose alla volontà distruttiva fine a se stessa con la spada in mano; fu battuto a Colle di Valdelsa, nel 1269, e la sua testa mozzata venne conficcata in una lancia e portata come un trofeo di guerra lungo tutto il campo di battaglia; infine, le sue case furono distrutte dai guelfi rientrati a Siena e, insieme ad esse, si cercò di distruggerne anche ogni memoria, dopo essere stato così in auge in tutta la Toscana): Colui che cammina davanti a me così lentamente, ha fatto risuonare del suo nome tutta la Toscana (cioè, tutta la Toscana lo celebrava, osannava); e adesso (le alterne vicende delle umane sorti…) si bisbiglia appena il suo nome a Siena (non se ne parla proprio…), della quale era signore (padrone incontrastato…) quando fu distrutta (a Montaperti) la protervia (la tracotanza, la prepotenza) dei Fiorentini (di Firenze) che, a quel tempo (allora), era superba così come adesso è prostituta (meretrice, perché si vende a chi la compra, al miglior offerente, e l’allusione pare essere al papa Bonifacio VIII, che aveva le sue grandi mire di potere su tutta la Toscana; ma la puttana per eccellenza, per antonomasia, per Dante, era la Chiesa, la Curia Romana che scendeva a scandalosi compromessi e si vendeva ai potenti della Terra, soprattutto al re di Francia).
La fama (rinomanza) umana (degli uomini; ritorna il discorso sulla vanità di tutto, sempre con tono e linguaggio biblici…) è mutevole (e quindi effimera) come il colore dell’erba (che dura poco, che ora è verde e poi appare presto scolorita, appassita), e (quello stesso) sole che la fa nascere tenera nella terra, poi la fa scolorire (ingiallire, le toglie il verde, proprio come avviene per la fama, la gloria terrena…).
E Dante (che attraverso i casi di cui racconta vuol fare autocritica, autoesame anche se il suo essere consapevole della propria grandezza non era affatto una colpa grave e non faceva male a nessuno) così replica: (Il tuo discorso) le tue parole veritiere (mi incoraggiano, mi spronano) mi infondono nell’animo una giovevole umiltà, e mi aiutano (ad attenuare, ad abbassare, a sgonfiare) a liberarmi dal(l’inutile) gonfiore della superbia (il biblico e patristico tumor mentis, come lo definisce anche Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa), ma, dimmi, chi è quello di cui parlavi adesso (poco fa)?”.
Oderisi ha risposto così: Quello è Provenzan Salvani; e si trova qui perché è stato un grande presuntuoso (la presunzione è strettamente legata alla superbia: presumo che e, quindi, mi atteggio a), in quanto avrebbe voluto impadronirsi di tutta Siena (portarla, ridurla sotto il suo potere assoluto per troppa ambizione, troppa sete di Potere e troppa superbia politica). (Finora) è andato così e va (continua ad andare sotto quell’enorme peso e lentamente), senza alcuna sosta, da quando è morto; una tale pena (conto, debito) deve pagare per soddisfare la giustizia di Dio chi nella vita terrena (di là) ha troppo (temerariamente e presuntuosamente) osato (contro ogni legge umana e divina).
Ma a Dante è venuto un dubbio atroce: Se quelle anime (che abbaiamo visto) che aspettano l’ultimo (estremo) momento della loro vita (l’orlo de la vita, cioè in extremis) per pentirsi, e restano (là giù) nell’Antipurgatorio e quassù (nel Purgatorio) salgono solo dopo che hanno fatto penitenza tanto tempo quanto vissero, a meno che non siano aiutati da buone preghiere (per sconti di pena), come gli è stato possibile (gli è stato concesso) di poter salire (direttamente) qui?
Oderisi così spiega e conclude il racconto della vita superbissima di Provenzano: egli è riescito a salvarsi e ad andare direttamente nella cornice dei superbi perché, nel pieno della sua gloria e del suo Potere politico, si umiliò a chiedere pubblicamente l’elemosina per riscattare un suo amico ghibellino (forse tale Bartolomeo Saracini o forse Mino dei Mini), fatto imprigionare da re Carlo d’Angiò; tu, un giorno (dice a Dante), capirai sulla tua pelle (quando andrai in esilio) cosa significa chiedere l’elemosina, cosa vuol dire umiliarsi a chiedere il pane e l’ospitalità agli altri: Quando (nel tempo in cui) era nel pieno (al culmine, all’apice) della sua gloria e del suo Potere, (Provenzano) si è posto (si è piantato) spontaneamente (liberamente) nella più grande piazza (del Campo) di Siena, mettendo da parte ogni vergogna; e per poter riscattare (liberare) un suo amico dalla prigionia inflittagli dal re Carlo d’Angiò, si spinse (di sua volontà) a compiere un atto (un gesto, cioè, chiedere l’elemosina, che, ad un superbo e strapotente come lui, costava così tanto: era lo sforzo, il sacrificio, l’umiliazione e la mortificazione del suo smisurato orgoglio) da far tremare ogni sua vena (Carlo d’Angiò aveva imprigionato il suo amico dopo la battaglia di Tagliacozzo contro Corradino di Svevia e aveva imposto una somma di diecimila fiorini d’oro da pagare come riscatto nel giro di un mese, e Provenzano riuscì nell’impresa).
Non dirò altro, e so di parlare in modo oscuro (incomprensibile, enigmatico, perché predice a Dante il doloroso e amaro esilio, e quindi parla per allusione, usa un linguaggio allusivo); ma non passerà molto tempo, che i tuoi concittadini (i fiorentini) faranno (agiranno) in modo tale (ti condanneranno all’esilio) che tu potrai commentarlo (intenderlo, interpretarlo, decifrarlo pienamente, chiaramente questo mio parlare oscuro, il suo doloroso significato). Proprio quell’opera di umiltà (e di automortificazione) ha evitato a Provenzano di restare entro il confine (il limite, la linea di demarcazione che separa l’Antipurgatorio dal Purgatorio, facendolo salire qui prima del tempo: la misericordia divina ha apprezzato quell’unico grande gesto di umiliazione e si è mostrata soddisfatta, tanto da premiarlo)…
Questo l’amaro epilogo dell’undicesimo canto-capitolo che ancora una volta richiama la nostra attenzione sull’ingiusto esilio inflitto a Dante dai fiorentini, dai suoi concittadini e sulla grande amarezza del Poeta durante quei lunghi anni lontano da Firenze. Dopo Ciacco, Farinata, Brunetto Latini, Vanni Fucci (nell’Inferno), ora sono stati Corrado Malaspina e Oderisi da Gubbio a rinnovare il chiodo, a ricordare a Dante e a noi lettori l’ingiusto destino inflittogli da legni storti, da malnati capaci soltanto di pensare al proprio particulare, ai propri interessi di parte e non al bene comune. Una Firenze guelfa e puttana, pronta a vendersi (nel 1300) e a scendere a patti con Carlo d’Angiò e papa Bonifacio VIII… quella Firenze lo aveva condannato all’esilio e, quindi, alla povertà e a chiedere aiuto, pane e ospitalità agli altri, con grande umiliazione e mortificazione. Certo, Dante era già quasi Dante e i potenti signori di allora lo accolgono e ospitano con molti onori, ma quel pane e quell’ospitalità sa pur sempre di sale, costa una certa riverenza e il doversi piegare a certe cose perché non si può sputare nel piatto in cui si mangia; ma Dante coglie l’occasione per lanciare anche questa volta il suo (pacato) j’accuse contro la sua indegna patria che, come scrive nel Convivio, lo ha costretto alla condizione di fuorilegge, senza più casa e famiglia, e di mendicante senza patria, cosmopolita suo malgrado, per cui:…peregrino, quasi mendicando, sono andato mostrando contro mia voglia, la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparso a li occhi e a molti che forse chè per alcuna fama in altra forma mi aveano imaginato, nel cospetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare. E Fallani e Zennaro chiosano giustamente che, però, Dante, nel suo peregrinare pensava anche alla gloria e che se egli non s’identifica con Oderisi certo gli si avvicina in quella sofferta confessione della vanità della fama. Trova motivo di umiltà come scrittore e come uomo, e n’è testimone con la sua drammatica esperienza umana.
Ma, lo ripetiamo, quello di Dante (che appare il vero protagonista del canto-capitolo) non è affatto peccato di superbia, e la stessa gloria e fama di Dante come di altri grandi della cultura non è per nulla vana, inutile: da sette secoli la fama di Dante dura come dura la bellezza e la grandezza del suo capolavoro scritto negli anni dell’umiliazione, della mortificazione e dell’amarezza dell’esilio (altro che peccato di superbia!…). Che peccato è essere orgogliosi e consapevoli di valere e aspirare a restare nel tempo, consapevoli di aver lasciato ai posteri, al mondo intero la propria opera, frutto del proprio ingegno, opera che può essere utile all’umanità di oggi e di domani? Più piccola è la mente più grande è la presunzione, ha lasciato scritto Esopo ed è frase che per Dante va perfettamente rovesciata: la sua mente era grande e non era affatto presuntuoso (come lo ha definito il Villani nella sua Cronica), era solo molto consapevole e orgoglioso della sua effettiva grandezza, del suo alto ingegno, di cui ringraziava Dio. Essere fieri e orgogliosi è ben altra cosa dall’essere vanamente superbi, presuntuosi e arroganti. Del resto, Dante, in tutta umiltà, ha fatto il suo mea culpa attraverso il suo alter ego Oderisi e ha sempre dichiarato che il sentimento del proprio valore non è affatto in sfida con Dio ma ringrazia Dio per averlo dotato di un così alto ingegno, che gli ha consentito di poter alzare le vele e percorrere migliori acque.
A sostegno di quello che affermiamo, ci piace citare il lontano ma lucido e illuminante commento di Carlo Steiner (Paravia, 1966), il quale annota così in merito alla terzina in cui Dante allude a se stesso sui due Guidi destinati ad essere superati:…Ma è superbia codesta? Si noti che qui la gloria è apertamente disprezzata in quanto è, rispetto all’eternità, effimera. Questa condanna che è sincerissima, toglie ogni aspetto peccaminoso alla espressione che si risolve nella considerazione storica, che prima era famoso il Guinizelli, al quale seguì poi nel grido popolare il Cavalcanti, mentre in quel tempo prendeva voga un altro nome, quello dell’Alighieri che d’altronde sarebbe stato a sua volta oscurato. Non è insomma che il riconoscimento d’un fatto, nel quale non può essere superbia alcuna, perché non vi si accompagna una valutazione presuntuosa, o un disprezzo degli altri, o astio contro chi potesse contrastare quel primato. Ma Dante attribuisce umilmente ogni suo pregio a Dio (Purg., XXX, 109, sgg.), quando con obiettiva coscienza di sé si riconosce dotato di alte qualità intellettuali; nel De Vul. El., si attribuisce il primo posto come poeta della rettitudine (II,2), e sul principio del poema parla di bello stile che gli ha fatto onore: Inf., I, 87; e come si mette sesto tra i grandi poeti antichi (Inf. IV, 102), altrove mostra di ritenersi superiore ad Ovidio e a Lucano (Inf., XXV, 94 sgg.), senza escludere tuttavia, anzi ammettendolo per certo, che dopo di lui possa seguire un poeta migliore (Par., I, 34-36). Qui, tutto l’episodio chiarisce la profonda convinzione del Poeta sulla vanità e transitorietà della fama; anche della sua, nel momento stesso in cui afferma che superava oramai quella del suo amico Cavalcanti. L’umiltà è altra cosa dalla falsa modestia e la superbia è altra cosa dal senso equo della propria dignità. Non è fuor di luogo ricordare il detto evangelico: Splenda la vostra luce agli occhi degli uomini, così che vedano le vostre buone opere e glorifichino il padre vostro che è nei cieli: Matteo, V,16.
In conclusione, il prezzo della sua gloria e della sua fama, Dante lo ha pagato ben caro e salato con anni e anni di esilio e, quindi, era giusto che la vita lo ripagasse, senza aver portato via qualcosa a nessuno e, anzi, dando tanto a noi posteri che abbiamo la fortuna di aver conosciuto un uomo così raro e prezioso, e che dovremmo solo avere la volontà e la pazienza di leggere, ascoltare, capire fino in fondo e anche imitare, guardando alla sua vita come exemplum, come esemplare, paradigmatica se vogliamo veramente salvarci e salvare il mondo, rendendolo migliore. Che è, poi, quello che più egli desiderava.