Trebisacce-29/11/2024: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del dodicesimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonisti sono i superbi e gli esempi di superbia punita attraverso vari personaggi. Ad essere esaltata è l’umiltà contro ogni forma di sfida boriosa a Dio.
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del dodicesimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonisti sono i superbi e gli esempi di superbia punita attraverso vari personaggi. Ad essere esaltata è l’umiltà contro ogni forma di sfida boriosa a Dio.
Il canto-capitolo XII ovvero il terzo canto dei superbi e degli esempi di superbia punita. Mentre cammina, Dante vede rappresentati, scolpiti (da Dio) sul pavimento tredici esempi di superbia punita che riguardano personaggi tratti dalla Bibbia, dalla mitologia pagana e dalla storia antica: Lucifero, Briareo, Timbreo, Nembrot, Niobe, Saul, Aragne (o Aracne), Roboamo, Alcmeone, Sennacherib, Tamiri, Oloferne, Troia. L’Angelo dell’umiltà indica ai due Poeti la via, il passaggio alla seconda cornice e cancella dalla fronte di Dante la prima P (come a voler significare che di questo terribile peccato si è purgato). Dante si sente più leggero: la sostenibile leggerezza dell’essere. Apostrofe dell’angelo contro gli eterni figli di Eva e di Dante contro la Firenze scandalosa, corrotta e disonesta dei suoi tempi (che, però, fa pensare ai nostri, così ricchi di corruzione, di malaffare e di scandali politico-economici). Dante e il suo umile cuore di bambino (Tutto si svolge il lunedì, a mezzogiorno e un po’ dopo dell’11 aprile del 1300).
Dante avrebbe potuto fermare la sua narrazione sugli esempi di superbia al canto-capitolo precedente e, invece, vuole che ancora il lettore rifletta su altri importanti casi esemplari tratti dalla Bibbia, dalla mitologia o dalla storia antica. Un’altra rassegna, un’altra carrellata di nomi e di volti illustri, famosi le cui storie, le cui vicende sono raffigurate, scolpite sul pavimento della strada, della via che sta percorrendo con il dolce pedagogo (buon maestro e non cattivo come i cattivi maestri e i pedagoghi del crimine come certi docenti universitari e degli Istituti Superiori che, negli anni Settanta del ‘900, vennero così strumentalmente definiti, da una certa parte politica e giornalistica, in quanto avrebbero educato i giovani al terrorismo brigatista e, con le loro parole, armata la loro mano). I due Poeti lasciano Oderisi senza tanti formalismi, un po’ frettolosamente; è soprattutto Virgilio a sollecitare Dante (con la metafora della barca e dei remi) a lasciarsi alle spalle quelle anime e ad andare oltre, riprendendo la normale andatura e la posizione eretta, visto che prima si era abbassato per poter meglio colloquiare con Oderisi. Pur avvertendo che qualcosa è rimasto sospeso e incompleto nel discorso oscuro di Oderisi (discorso che era profezia del doloroso esilio), Dante segue, a passi spediti e leggeri, il maestro, il quale, ad un certo punto, lo avverte di guardare il suolo, il pavimento su cui passano: qui, così come le tombe dei defunti scavate nella terra sono raffigurate, scolpite con le lapidi e le iscrizioni che ne ricordano l’esistenza per rinverdirne, appunto, il ricordo, così sul terreno su cui camminavano c’erano delle raffigurazioni, ovvero 13 bellissime sculture, bassorilievi di altrettanti esempi di superbia punita. E si tratta di atti di superbia commessi contro Dio (i primi tre), contro se stessi (i successivi cinque) e contro il prossimo (i restanti quattro): alla fine l’esempio di Troia va a riassumere tutt’e tre le forme di superbia. Ad ogni immagine scolpita Dante dedica una terzina che, insieme alle altre, finiscono per costituire un acrostico (dei veri e propri pezzi di bravura letterararia, artistica che confermano a quale livello di grandezza e di genialità era giunta l’arte di Dante). Per es., le prime quattro, quelle dedicate a Lucifero, Briareo, Timbreo (altro nome di Apollo) e Nembrot hanno come parola iniziale che si ripete: Vedea; quelle dedicate a Niobe, Saul, Aragne e Roboamo la lettera, la particella vocativa: O; quelle dedicate ad Almeone, Sennacherib, Tamiri e Oloferne la parola: Mostrava, infine, per l’esempio di Troia (il superbo Ilion) ritorna la parola: Vedeva. Tredici esempi con tredici terzine con le tre parole che messe in sintesi danno l’acrostico: VOM, che si potrebbe leggere UOM, cioè uomo (l’uomo peccatore e colpevole di superbia già con Adamo), che è poi il protagonista assoluto nella Commedia e per il quale la Commedia viene scritta, con l’obiettivo di portarlo sulla retta via.
Insomma, ci troviamo di fronte a un capolavoro di bravura tecnica, di sapienza narrativa ormai giunta ad altissimi livelli e, dunque, siamo di fronte ad un’altra grande invenzione e finzione letteraria che riesce a rendere un canto-capitolo che appariva come una digressione, una sorta di pausa per introdurre la seconda cornice, un’interessante macrosequenza in cui non mancano due apostrofi: una sugli eterni uomini figli di Eva che dovrebbero ben meditare ma che sono poco disposti alla purificazione e alla salvezza e molto più, invece, al male e, nella fattispecie, alla superbia, e un’altra, amaramente ironica, alla sua corrotta e malgovernata Firenze, di cui rimpiange la vecchia e onesta classe dirigente che operava avendo come valore primario il bene comune e non l’interesse privato, di parte (e pare che Dante ci parli di tanta corruzione e degenerazione delle classi politiche dei nostri tempi…).
Alla fine appare, in tutto il suo fulgore e in tutta la sua bellezza, l’angelo guardiano che fa loro strada, indica la via più agevole per la seconda cornice; nel procedere, incontrano anime che cantano Beati pauperes spiritu, Beati i poveri di spirito (perché di essi è il regno dei cieli), che è la prima delle beatitudini evangeliche. Al passaggio alla seconda cornice, l’angelo toglie dalla fronte di Dante la prima P, quella della superbia. Dante si è liberato del peso del primo e più brutto peccato del Purgatorio e adesso si sente come più leggero, incredibilmente più leggero, come colui che si toglie un grosso peso di dosso. Parafrasando un celebre libro di Milan Kundera, potremmo dire che Dante prova la piacevole sensazione della sostenibile leggerezza dell’essere: per Kundera era insostenibile, per lui, invece, è sostenibile e così piacevole che vorrebbe che ogni uomo la provasse: perché è la beatitudine, la serenità dell’anima, il suo avvertirsi pulita, purificata da ogni colpa e da ogni scoria di peccato che possono dare quella sensazione di leggerezza tale da far sentire di meno il peso del nostro corpo (la pesantezza dell’essere…). E di fronte a un incredulo (e anche un po’ goffo) Dante che si avvede di non avere più sette P sulla fronte ma solo sei, Virgilio non può fare a meno di sorridere…
E, dunque, questa la narrazione del dodicesimo canto-capitolo, anch’esso così ricco di accorgimenti tecnici, utilizzati proprio perché devono sempre più stupire un lettore che ha a che fare con un Dante sempre più imprevedibile e sorprendente: Di pari, come buoi che vanno a giogo, m’andava io con quell’ anima carca, fin che ‘l sofferse il dolce pedagogo. Ma quando disse: “Lascia lui e varca; ché qui è buono con l’ali e coi remi, quantunque può, ciascun pinger sua barca”; dritto sì come andar vuolsi rife’mi con la persona, avvegna che i pensieri mi rimanessero e chinati e scemi. Io m’era mosso, e seguia volentieri del mio maestro i passi, e amendue già mostravam com’eravam leggeri; ed el mi disse: “Volgi li occhi in giùe: buon ti sarà, per tranquillar la via, veder lo letto de le piante tue”.
Come, perché di lor memoria sia, sovra i sepolti le tombe terragne portan segnato quel ch’elli eran pria, onde lì molte volte si ripiagne per la puntura de la rimembranza, che solo a’ pïi dà de le calcagne; sì vid’io lì, ma di miglior sembianza secondo l’artificio, figurato quanto per via di fuor del monte avanza.
Vedea colui che fu nobil creato più ch’altra creatura, giù dal cielo folgoreggiando scender, da l’un lato. Vedëa Brïareo fitto dal telo celestïal giacer, da l’altra parte, grave a la terra per lo mortal gelo. Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro, mirar le membra d’i Giganti sparte. Vedea Nembròt a piè del gran lavoro quasi smarrito, e riguardar le genti che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro.
O Nïobè, con che occhi dolenti vedea io te segnata in su la strada, tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! O Saùl, come in su la propria spada quivi parevi morto in Gelboè, che poi non sentì pioggia né rugiada! O folle Aragne, sì vedea io te già mezza ragna, trista in su li stracci de l’opera che mal per te si fé. O Roboàm, già non par che minacci quivi ‘l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci.
Mostrava ancor lo duro pavimento come Almeon a sua madre fé caro parer lo sventurato addornamento. Mostrava come i figli si gittaro sovra Sennacherìb dentro dal tempio, e come, morto lui, quivi il lasciaro. Mostrava la ruina e ‘l crudo scempio che fé Tamiri, quando disse a Ciro: “Sangue sitisti, e io di sangue t’empio”. Mostrava come in rotta si fuggiro li Assiri, poi che fu morto Oloferne, e anche le reliquie del martiro.
Vedeva Troia in cenere e in caverne; o Ilïón, come te basso e vile mostrava il segno che lì si discerne!
Qual di pennel fu maestro o di stile che ritraesse l’ombre e ‘ tratti ch’ivi mirar farieno uno ingegno sottile? Morti li morti e i vivi parean vivi: non vide mei di me chi vide il vero, quant’io calcai, fin che chinato givi. Or superbite, e via col viso altero, figliuoli d’Eva, e non chinate il volto sì che veggiate il vostro mal sentero! Più era già per noi del monte vòlto e del cammin del sole assai più speso che non stimava l’animo non sciolto, quando colui che sempre innanzi atteso andava, cominciò: “Drizza la testa; non è più tempo di gir sì sospeso. Vedi colà un angel che s’appresta per venir verso noi; vedi che torna dal servigio del dì l’ancella sesta. Di reverenza il viso e li atti addorna, sì che i diletti lo ‘nvïarci in suso; pensa che questo dì mai non raggiorna!”.
Io era ben del suo ammonir uso pur di non perder tempo, sì che ‘n quella materia non potea parlarmi chiuso. A noi venìa la creatura bella, biancovestito e ne la faccia quale par tremolando mattutina stella. Le braccia aperse, e indi aperse l’ale; disse: “Venite: qui son presso i gradi, e agevolemente omai si sale. A questo invito vegnon molto radi: o gente umana, per volar sù nata, perché a poco vento così cadi?”.
Menocci ove la roccia era tagliata; quivi mi batté l’ali per la fronte; poi mi promise sicura l’andata. Come a man destra, per salire al monte dove siede la chiesa che soggioga la ben guidata sopra Rubaconte, si rompe del montar l’ardita foga per le scalee che si fero ad etade ch’era sicuro il quaderno e la doga; così s’allenta la ripa che cade quivi ben ratta da l’altro girone; ma quinci e quindi l’alta pietra rade.
Noi volgendo ivi le nostre persone, ‘Beati pauperes spiritu!’ voci cantaron sì, che nol diria sermone. Ahi quanto son diverse quelle foci da l’infernali! ché quivi per canti s’entra, e là giù per lamenti feroci. Già montavam su per li scaglion santi, ed esser mi parea troppo più lieve che per lo pian non mi parea davanti.
Ond’io: “Maestro, dì, qual cosa greve levata s’è da me, che nulla quasi per me fatica, andando, si riceve?”.
Rispuose: “Quando i P che son rimasi ancor nel volto tuo presso che stinti, saranno, com’è l’un, del tutto rasi, fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, che non pur non fatica sentiranno, ma fia diletto loro esser sù pinti”.
Allor fec’io come color che vanno con cosa in capo non da lor saputa, se non che ‘ cenni altrui sospecciar fanno; per che la mano ad accertar s’aiuta, e cerca e truova e quello officio adempie che non si può fornir per la veduta; e con le dita de la destra scempie trovai pur sei le lettere che ‘ncise quel da le chiavi a me sovra le tempie: a che guardando, il mio duca sorrise…
Dunque: Io camminavo (procedevo) curvo (abbassato e affiancato) allineato (cioè, allo stesso livello, di pari passo, come quasi a condividere, con umiltà, la stessa pena) a quell’anima (di Oderisi) carica del suo enorme peso, proprio come procedono due buoi aggiogati (sotto il giogo) fino a quando (finchè) lo ha consentito (permesso, tollerato) il mio dolce (amorevole) pedagogo (maestro, cioè Virgilio). Ma quando (non appena) mi ha detto: Lascialo (stare, lascia le anime dei superbi) e vai oltre (oltrepassa); poiché qui è opportuno che con ali e remi (con ogni mezzo) ognuno proceda (vada avanti nel proprio cammino) speditamente (quanto più può, quanto più gli è possibile) per spingere la propria barca (insomma: bisogna affrettarsi se si vuole compiere il più presto possibile il viaggio, la salita per la purificazione e, quindi, per la salvezza e la beatitudine); (dunque, non appena…) mi sono raddrizzato (posto nella normale posizione eretta della persona) sebbene i miei pensieri continuassero a rimanere piegati per terra, disposti all’umiltà e privi (liberi da vana superbia, perché rifletteva ancora sulle parole di Oderisi). Io mi ero mosso (camminavo) e seguivo volentieri (con piacere) i passi del mio maestro, ed entrambi mostravamo di essere più leggeri (più spediti, in quanto ormai lontani dai lentissimi superbi che rallentavano il cammino e anche perché psicologicamente come sgravati da un forte peso spirituale); e Virgilio mi ha detto: Volgi gli occhi (lo sguardo) in basso (a terra): ti farà bene (ti gioverà, ti sarà utile) per rendere meno duro (meno pesante, meno faticoso) il cammino, poter vedere il terreno (il suolo) dove poggi i piedi.
(Segue una delle sempre calzanti similitudini, che servono a spiegare e rafforzare il discorso e il significato di quel che si vuol dire): Come sulle tombe scavate nella terra si vedono apposte le lapidi che immortalano con le iscrizioni (le effigi) i morti e ciò che essi sono stati in vita, affinchè se ne abbia memoria, per cui (i parenti e gli amici: si pensi al Foscolo e alla religione dei sepolcri) nel rivedere quelle scritte piangono nuovamente stimolati (punti) dal ricordo che solo punge (sprona, incita) gli animi più pietosi; così (allo stesso modo) io ho visto lì, ma di più bell’aspetto per la qualità dell’esecuzione (dell’abilità, della tecnica) artistica (non umana, ma divina) coperto di sculture (di bassorilievi) lungo tutto lo spazio (il terreno) che sporge dal monte (e si estende in piano e non in salita: insomma, si tratta del ripiano del monte).
Ho visto, da un lato, colui (Lucifero, il primo grande superbo nella storia della Creazione) che era stato creato come il più nobile (e più bello) di ogni altra creatura, precipitare dal cielo come un fulmine.
Ho visto, (il gigante) Briareo (l’omologo mitologico di Lucifero) dall’altro lato che, trafitto dal fulmine di Giove (che era stato sfidato da lui e dagli altri Titani) giaceva sulla terra con il suo corpo reso ancora più pesante dall’immobilità della morte.
Ho visto Timbreo (Apollo, dal suo tempio a Timbra), ho visto Pallade (Minerva) e Marte, con le armi in mano, intorno al loro padre (Giove, che li ha salvati dall’assalto dei Giganti, e ora gli stanno intorno come a volerlo proteggere e dargli manforte), guardare (osservare) le membra dei titani sparse (disseminate) per terra (dopo essere state colpite dai fulmini di Giove).
Ho visto Nembrot ai piedi della sua grande costruzione (la Torre di Babele) quasi come smarrito (confuso, di fronte al suo lavoro e alle sue conseguenze: la confusione delle lingue) e che guarda i suoi compagni, gli uomini che, nella piana di Sennaàr, erano stati superbi insieme a lui (nel voler erigere la Torre).
O Niobe (la mitologica donna madre di 14 figli, moglie di Anfione re di Tebe, che aveva osato, con molta superbia, sfidare la dea Latona in superiorità; costei si vendicò mandando i suoi due figli, Apollo e Diana, a uccidere tutti i suoi 14 figli), io ti ho vista raffigurata (scolpita sul pavimento della) mia strada con occhi pieni di dolore (qui è colto lo smarrimento degli occhi di chi soffre), in mezzo ai tuoi sette figli maschi e sette femmine (brutalmente massacrati).
O Saul (primo re d’Israele, tanto superbo da scatenare l’ira di Dio), come qui raffigurato sembravi (apparivi) così come sei morto a Gelboè (o Gilboe, sul monte di…), trafitto dalla tua stessa spada (sulla quale si era lasciato cadere per non finire nelle mani dei nemici Filistei in quella Gelboè) che poi (per una maledizione lanciata dal dolente David) non avrebbe sentito (scendere sul suo terreno) né pioggia e né rugiada!
O folle Aracne (la mitologica tessitrice della Lidia che, insuperbita, volle sfidare Minerva in quest’arte ma la dea le stracciò la tela e la trasformò in ragno), così ti ho vista già (si stava trasformando) per metà in ragno, triste (sofferente) tra i brandelli (i pezzi) della tua opera (la tela stracciata da Minerva) che, per tua stessa colpa, si era trasformata in danno per la tua vita (è stata la causa della tua rovina, o anche: che tu facesti, tessesti per il tuo danno; ti sei procurato il male con le tue stesse mani).
O Roboamo, la tua immagine (la tua figura) non sembra più che minacci (con superbia, come quando eri in vita); ma pieno di spavento la porta via un carro, senza che nessuno la insegua per cacciarla. (Il superbo re biblico, figlio di Salomone, rispose con disprezzo e violenza alle richieste delle tribù del nord di alleggerire il carico delle tasse imposto dal padre; pertanto, si ribellarono e lui, per paura di essere linciato, senza che nessuno lo inseguisse, si mise in fuga su un carro verso Gerusalemme, per salvare la propria vita).
Mostrava (rivelava) ancora il duro pavimento (perché di marmo) come (il mitologico) Almeone (figlio dell’indovino e re Anfiarao e di Erifile di Tebe) aveva fatto sembrare a sua madre di prezzo troppo alto la preziosa ma infausta (sciagurata) collana (avuta in dono dai Greci, in quanto lei aveva rivelato il nascondiglio del marito, che aveva previsto di morire nella guerra, inghiottito dalla terra; per vendicare il padre, Almeone uccise la superba madre).
Mostrava (rivelava) come i figli di Sennacherib (il biblico re dell’Assiria, che con superbia aveva irriso alla potenza di Dio) si erano gettati sul suo corpo dentro il tempio (in cui pregava), e come lo lasciarono lì morto, dopo averlo ucciso. (Dopo un matricidio, un parricidio…).
Mostrava (rivelava) la rovina (la strage dei Persiani) e il crudele scempio che aveva fatto Tamiri (la regina degli Sciti che, dopo aver sconfitto i Persiani, si vendicò del superbo re Ciro, uccidendolo spietatamente), quando ha detto a Ciro: Hai avuto sete di sangue, e (ora) io di sangue ti sazio, ti riempio (dopo averlo ucciso, gli tagliò la testa e la mise dentro a un otre pieno di sangue).
Mostrava (rivelava) come gli Assiri sono fuggiti in rotta (sconfitti dai Giudei), dopo che il (superbo) re Oloferne era stato ucciso (e decapitato dalla biblica Giuditta), e anche le stesse reliquie (i resti) del suo corpo dopo la sua orribile uccisione.
(Io) vedevo (potevo vedere la città di) Troia ridotta in cenere e spelonche per le macerie (dai Greci): o (superbo) Ilio, come ti mostrava umiliata e avvilita (spregiata, mal ridotta) la scena scolpita che (sul pavimento) ben si distingue!
Quale maestro di pittura o di disegno (incisione, scultura, è stato mai capace di) ritrarre in quel modo le figure (gli aspetti) e i loro volti (i loro tratti cioè, il chiaroscuro e i lineamenti) che qui (nel Purgatorio) farebbero stupire ogni più fine (sottile) ingegno (artista)? (Perché l’artista di quei bassorilievi è Dio, il quale non può avere rivali…).
I morti sembravano veri morti e i vivi veri vivi (morti e vivi reali): non ha visto meglio di me chi ha visto nella realtà (dal vivo) le cose che ho visto io, quando le ho calpestate (ci ho camminato sopra), finchè andavo, (procedevo) a capo chino (curvo, contemplando, guardando le sculture). (Ma se lui e noi possiamo vederle come reali, così com’erano nella realtà, questo lo dobbiamo al grande, spaventoso realismo dell’arte suprema, divina di Dante, alla sua divina mimesis, direbbe Pasolini).
(Segue una prevedibile apostrofe, piena di sarcasmo e di amarezza, contro gli eterni superbi figli di Eva, che aspirano e aspireranno sempre ad essere come Dio): Ora insuperbitevi (pure), e andate con la testa alta (con il viso pieno di superbia, di protervia, di presunzione), figli di Eva, e non piegate (non abbassate) il volto (lo sguardo) così che (in modo che) possiate vedere (riconoscere) la vostra cattiva strada! (Abbassarlo vorrebbe dire umiltà e riconoscere di seguire una via sbagliata, quella del peccato e, quindi, ravvedersi ed emendarsi).
Noi avevamo fatto (percorso) la via intorno al monte e trascorsa (spesa) della giornata assai più di quanto non ritenesse il mio animo, ancora inteso alla meditazione (che suscitava la visione di quelle sculture, e quindi non sciolto, non libero da poter badare al tempo e al cammino compiuto), quando colui (Virgilio) che procedeva (camminava) sempre davanti con attenzione, ha cominciato: Raddrizza la testa (tieni la testa in alto); non è più tempo di camminare (andare avanti) così assorto nei pensieri (e quindi distratto e senza attenzione per le altre cose). Vedi là un angelo che si affretta a venire verso di noi; vedi che la sesta ora torna dall’aver compiuto il suo ufficio (il suo servizio al giorno: vuol dire che sono dopo le 12, dopo mezzogiorno; le Ore, nella mitologia, erano rappresentate come delle ancelle al servizio del Sole, ovvero di Apollo). Cerca di rivestire il tuo volto e i tuoi atti (gesti) di riverenza (ovvero: cerca di assumere un atteggiamento riverente, atteggiati a riverente), di modo che (cosicchè) gli piaccia (gli faccia piacere, gradisca) di farci salire sopra (sulla seconda cornice); pensa che questo giorno non rispunterà più (non tornerà mai più)! (Non è la prima volta che Virgilio incalza Dante sul motivo, sul tema del tempo che scorre inesorabile per cui occorre muoversi, essere sempre attenti a non perderlo inutilmente, a saperlo utilizzare al meglio; sul tempo Virgilio ha lasciato scritto: Fugge frattanto, fugge il tempo irrecuperabile. Appunto questo vuol dire a Dante, il quale ci dice subito che ha ben compreso anche questo nuovo monito sull’importanza del tempo che, come ha scritto Antonio Gramsci è un semplice pseudonimo della vita stessa).
Io ero ben abituato ai suoi moniti (ai suoi ammonimenti, alle sue esortazioni) sulla necessità di non perdere tempo, tanto che su quell’argomento non poteva parlarmi in modo astruso (oscuro e cioè, le sue parole erano ben chiare, non c’era bisogno di usare un linguaggio arcano, simbolico).
Verso di noi veniva la bella creatura angelica (celestiale, il bell’angelo), vestita di bianco e con il volto spendente (raggiante) come una scintillante stella del mattino (che è Lucifer, che per la Chiesa è simbolo dell’inizio di una nuova vita dell’anima). Ha aperto le braccia, e poi ha aperto le ali; ha detto: Venite: qui vicino ci sono i gradini (della scala che porta alla seconda cornice), e ormai si sale agevolmente (facilmente, se si è liberi dal peso delle colpe). A questo invito vengono (rispondono) pochi uomini (persone e l’angelo, che è arrabbiato per questo fatto, lancia un’apostrofe, che è poi Dante a lanciare): o uomini nati (creati) per volare (per salire in alto, per salire in cielo, per elevarvi) perché subito cadete di fronte a un soffio di vento? (cioè: perché siete così deboli, facili a cadere in basso? e dunque: perché vi fate tentare dalla superbia, rinunciando a spiccare il volo verso il cielo e, quindi, verso la salvezza? Follia degli uomini! Potrebbero vivere da esseri buoni, volti al Bene e, invece, preferiscono il Male, si fanno facilmente tentare dal Male…).
Ci ha condotti dove la parete rocciosa presentava una spaccatura (un’apertura): qui mi ha battuto le ali sulla fronte (gli ha tolto la prima P); poi mi ha promesso che il cammino (la salita) sarebbe stata facile (sicura, senza ostacoli, impedimenti).
(Segue una similitudine in cui protagonista è Firenze – vera ossessione nella Commedia – definita ironicamente la ben guidata ma, in verità, vuol dire la malgovernata da un’élite scandalosa, degenerata, corrotta e disonesta, ben diversa dalla classe dirigente di una volta che pensava al bene comune e non al proprio meschino interesse; e anche questa volta, con il pretesto della similitudine, Dante lancia il suo pacato strale contro la Firenze corrotta e degenerata dei tempi del suo infame esilio, alla quale contrappone, con rimpianto, la Firenze onesta di una volta): Come sulla destra (dal lato destro) quando si sale per il Monte alle Croci, dove si trova la chiesa di S. Miniato, che domina (sovrasta) la ben governata città di Firenze aldisopra del ponte Rubaconte (oggi Ponte alle Grazie; fatto costruire sull’Arno dal podestà Rubaconte di Mandello di Milano nel 1237), l’ardito slancio della salita (cioè la ripidità della salita) si attenua (si interrompe ed è quindi resa più agevole) grazie alla scalinata (alla gradinata) di pietra che è stata costruita in un’epoca (in un tempo) in cui (c’era più onestà e senso del bene collettivo, pubblico) si era sicuri che i registri (gli atti) del Comune e le misure pubbliche (doga: misura inferiore allo staio) non venivano falsificati (non c’era, cioè, il rischio che cittadini o magistrati corrotti potessero manomettere e falsificare per il proprio tornaconto, commettendo frode: un po’ come i falsi in bilancio che vengono commessi ai nostri tempi…); così (allo stesso modo) si attenua la ripidità della parete (della costa) rocciosa che scende (cade) molto ripida dalla seconda cornice, quella di sopra; ma qui (il passaggio è così stretto) che da una parte e dall’altra (chi sale per quella stretta scala sente) la roccia radente (cioè la sfiora con i fianchi da una parte e dall’altra).
Mentre noi ci dirigevamo verso quella scala (stretta, abbiamo sentito una) voce (è quella dell’angelo) cantare Beati pauperes spiritu! così, (in un modo talmente) dolce (soave) che nessuna lingua (discorso, parola) sarebbe capace di spiegare (esprimere quella melodia, quel suono). (Beati i poveri di spirito è il celebre detto di Gesù, nel Discorso della Montagna, che è interpretabile come lode agli umili che sanno rinunciare ad onori, gloria e potenza umana). Ahi come (quanto) sono (ben) diverse quelle aperture (quegli ingressi) da quelli infernali (da quelli incontrati nell’Inferno)! Perché (infatti) qui si entra (si passa accompagnati da dolci) canti e laggiù da terribili (disumani) lamenti. (Insomma, il clima, l’atmosfera e la condizione spirituale del Purgatorio sono ben altra cosa da quelli dell’indimenticabile Inferno…).
Noi salivamo già su per gli scalini santi (perché portano alla salvezza), e mi sembrava di essere molto più leggero (nel salire) che non prima quando camminavo in pianura (lungo il piano, sul ripiano della cornice). Per cui io (ho detto a Virgilio; e qui Dante recita quasi la parte del finto tonto, vuol apparire come un ragazzo ingenuo a cui bisogna che gli si spieghi certe cose): Maestro, dimmi, quale cosa pesante (quale peso) mi è stato tolto, tanto che, camminando, non sento (non avverto) quasi nessuna fatica (stanchezza)? (Siccome, secondo l’Ecclesiaste, la superbia è la radice di tutti i mali, simbolicamente il poeta esprime questo improvviso senso di liberazione morale, che gli dà l’impressione di essere più leggero anche fisicamente, chiosano bene Fallani e Zennaro).
Virgilio ha risposto (così): Quando le P che sono rimaste ancora sul tuo volto, ormai pressoché scolorite (attenuate) saranno tutte completamente cancellate, com’è stata cancellata questa (la prima, del peccato di superbia), i tuoi piedi (le tue gambe) saranno così dominate (vinte) dalla volontà divenuta buona (cioè diretta al bene, quel bene che porta alla salvezza, verso cui ci spinge la volontà, la Grazia divina), tanto che non solo non sentiranno più la fatica (la stanchezza) ma sarà per loro un piacere essere sospinti (spinti) a salire su (in alto perché si va verso la salvezza e la beatitudine).
(Dante prosegue nella finzione dell’atteggiamento da ragazzino sempliciotto, e lo fa non a caso: vuol dimostrare che l’umiltà, l’assenza di superbia rende l’uomo un uomo buono, semplice, volto al bene e alla bontà, un idiota, direbbe Fedor Dostoevskij, un qualcosa, cioè, che nell’eterno mondo degli uomini-lupo – prima di Dante e dopo Dante – non è tenuto in nessun conto ed è assimilato al fesso, all’imbecille, all’idiota, appunto): Allora io ho fatto come coloro che camminano con qualcosa sulla testa senza che lo sappiano, se non che i cenni (gli ammiccamenti e anche i sorrisetti da sfottò…) degli altri fanno sospettare (mettono il sospetto che, cioè, è proprio vero che sulla testa c’è qualcosa); e per questo la mano si ingegna (si adopera per accertarsi, per vedere se è vero), e cerca e trova e adempie (compie) quella funzione (quel compito) che è della vista (che in quel momento non riesce, non può svolgere lei); e così, con le dita della mano destra aperte (disgiunte, separate, allargate per poter meglio agire) ho trovato solo sei lettere che aveva inciso (impresse) l’angelo portinaio (quello della porta del Purgatorio) sulla mia fronte: al che (di fronte alla qual cosa, cioè quel gesto della mano) guardando (osservando, ovvero: nel guardare, mentre guardava), la mia guida ha sorriso (e forse avrebbe voluto farsi una bella affettuosa risata…).
In merito a quest’ultima scena, oltre alle osservazioni già fatte, mi sembra giusto riportare (e le faccio mie) le parole scritte dalla già citata Chiavacci Leonardi: Il gesto fanciullesco compiuto qui da Dante – al quale Virgilio, come una madre, sorride – suggerisce in modo indiretto, e per questo più forte, come egli, vinta la superbia, vada riacquistando la semplicità che è propria degli umili. La figura del bambino è quella che il grande poeta sceglie consapevolmente per se stesso nel viaggio dell’oltremondo. E questo perché i veri grandi, i grandi uomini sono così: hanno una grande mente e il cuore di un bambino. Bisogna vivere con semplicità e pensare con grandezza, ha lasciato scritto William Wordsworth, che ha scritto pure che il bambino è il padre dell’Uomo. Del resto, si sa, tutti i poeti sono dei funciulli, sono come dei bambini, dentro di loro c’è un fanciullino, direbbe Giovanni Pascoli. E non c’è da aver nessuna vergogna ad essere come un bambino in un mondo così stupidamente adulto, in cui si puzza tanto di superbia da vivi più di quanto si è morti. Avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore. Parola di Ernest Hemingway.