Trebisacce-16/12/2024: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del tredicesimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonisti sono il peccato di Invidia e gli invidiosi. Dante incontra l’emblematica nobildonna senese Sapìa Salvani (zia del già incontrato Provenzan Salvani), grande invidiosa e anche superba. Ad essere esaltata sono l’umiltà e la carità, cioè l’amore per il nostro prossimo.
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del tredicesimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonisti sono il peccato di Invidia e gli invidiosi. Dante incontra l’emblematica nobildonna senese Sapìa Salvani (zia del già incontrato Provenzan Salvani), grande invidiosa e anche superba. Ad essere esaltata sono l’umiltà e la carità, cioè l’amore per il nostro prossimo.
Il canto-capitolo XIII ovvero il primo canto degli invidiosi. Seconda cornice. Alcune invisibili voci ricordano esempi di umiltà. Gli invidiosi cantano le Litanie dei santi. La loro punizione, la loro pena consiste nello stare seduti lungo la ripa, a ridosso della parete rocciosa del monte con gli occhi chiusi perché le loro palpebre sono cucite da un fildiferro; indossano, sono ricoperti da una sorta di vile mantello-cilicio color di pietra e si appoggiano l’uno alle spalle dell’altro, lungo la parete della cornice; inoltre, sono costretti a meditare su esempi di carità e di invidia punita. Dunque, appaiono come ciechi mendicanti (loro che in vita si lasciarono accecare dall’invidia), come quelli che stanno vicino alle porte delle chiese, l’uno addossato all’altro, l’uno sulla spalla dell’altro per impietosire di più i passanti. Il colore che prevale nel desolato e grigio paesaggio della cornice è quello della pietra, il color livido, che è anche quello delle anime espianti, penitenti (a simboleggiare il livore che ebbero in vita). La legge del contrappasso è applicata per contrasto: come in vita usarono i loro lividi occhi guardando di malocchio, con avversione il bene degli altri e desiderando il male del loro prossimo (con tutte le conseguenze possibili), adesso, nel Purgatorio, sono come i ciechi, con gli occhi ben serrati; e per analogia: come in vita furono invidiosi freddi e pieni di livore, non avvertirono l’impulso e l’ardore della carità verso il loro prossimo, adesso sono condannati a sentire e ad avvertire il freddo del ferro sugli occhi e sul corpo. Per Dante si tratta di uno dei peccati e dei mali più gravi e più terribili che possano colpire gli uomini (si pensi alla triade enunciata da Ciaccio nel VI canto-capitolo dell’Inferno: superbia, invidia e avarizia sono le tre faville ch’hanno i cuori accesi); perché l’invidia significa il contrario dell’amore, cioè egoismo, odio, avversione, desiderio di vedere la rovina e la distruzione fisica e morale dei propri simili o anche di un popolo e di una nazione. L’invidia significa Caino che uccide Abele, l’invidia può armare la mano, può condurre al delitto, allo spargimento di sangue, al complotto contro chi è oggetto di odio per vederne la rovina; l’invidia vuol dire distruttività. Incontro con l’emblematica nobildonna senese Sapìa Salvani (zia del già incontrato Provenzan Salvani), grande invidiosa (e superba), che chiede a Dante di essere ricordata nel mondo dei vivi e la cui storia riporta alle miserie del mondo terreno e alle divisioni, lacerazioni e lotte intestine e fratricide che dominavano la vita politica della Toscana e dell’Italia ai tempi del Poeta (ma anche dopo…). (Tutto si svolge il lunedì, dopo mezzogiorno, nel primissimo pomeriggio dell’11 aprile del 1300).
Che l’invidia, come la superbia, rechi in sé, racchiuda qualcosa di distruttivo, che non produce se non cose negative e malvagie, Dante ne era profondamente convinto. Nell’Inferno ne fa uno dei massimi peccati e mali del mondo, insieme alla superbia e all’avarizia, e le vede ben collegate, in sintonia. Lo abbiamo visto nel sesto canto-capitolo dei golosi attraverso Ciaccio che parla dei mali di Firenze (che sono, poi, anche quelli del mondo intero) e lo abbiamo visto anche in quello che racconta il dramma di Pier delle Vigne, vittima dell’invidia dei cortigiani che misero in moto la macchina del fango che lo avrebbe fatto cadere in disgrazia presso Federico II e lo avrebbe così sconvolto e travolto da indurlo a un suicidio di protesta, da uomo in rivolta che non vede altra via per riscattare se stesso ed urlare la propria innocenza contro accuse ingiuste, infami e infamanti. La meretrice che mai da l’ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio…: quella grande puttana dell’invidia che non ha mai distolto i suoi occhi puttani, disonesti, dalla corte di Cesare e che è male universale, ha tanto infiammato gli animi dei miei nemici (di chi mi invidiava e odiava) da condurmi a tragica fine… L’invidia, dunque, può condurre a utilizzare la sporca arma della calunnia per cercare di demolire la persona oggetto di invidia. L’invidia può condurre al delitto. E, infatti, Caino arma la propria mano contro il fratello Abele per invidia: era più ben voluto da Dio. Il primo delitto della storia (per chi crede al racconto biblico) è avvenuto per invidia, ed è stato un fratricidio.
Insomma, già etimologicamente, invidia e invidiare vengono da in+vidére cioè guardare sopra ma con astio, con mal occhio, con ostilità, di bieco e implica, appunto, il guardare male, biecamente, contro, in maniera obliqua, ostile e, quindi, con occhio cattivo, non benevolo. I vocabolari dicono che l’invidia è il sentimento negativo, di astio che si prova nel guardare, nel vedere (con avversione appunto…) il bene, la felicità, la fortuna, il successo, ecc. di qualcuno, degli altri e che, il più delle volte, questo sentimento si accompagna al desiderio che chi è oggetto dell’invidia perda ciò che lo rende invidiabile. I suoi sinonimi, le parole con cui ben si accorda sono: gelosia, superbia, livore, astio, bile, rancore, risentimento, malevolenza, rivalità nei confronti di qualcuno, odio, avversione, ecc. Cicerone definisce l’invidia il produrre la disgrazia altrui mediante il proprio malocchio e la vede come un sentimento (e anche una forza) così negativo e devastante che, quando infuria in tutta la sua violenza, contro di essa risulta impotente il singolo e persino un’intera istituzione (per es., il Senato di Roma). Per sant’Agostino essa è peccato diabolico per eccellenza tanto da indurre (è il diavolo che induce all’invidia) Caino al fratricidio. Anche per Ovidio l’invidia ha qualcosa di diabolico: L’invidia, il peggiore dei vizi, si insinua in terra come un serpente. Se invidiare è dell’uomo, compiacersi del male altrui, del diavolo, sembra pure essere d’accordo Arthur Schopenhauer. Nella mitologia c’era anche l’invidia degli dèi, che portava spesso alla hybris, cioè alla superbia, alla tracotanza, alla volontà e al desiderio di sfidare la divinità, sfida che veniva duramente punita, anche con la morte (la nèmesis, la vendetta degli dèi). Freud, dal canto suo, parlerebbe di complessi di inferiorità per gli invidiosi, visto che esiste anche l’invidia del pene…Ci può essere, però, anche un’invidia positiva, che non fa danni e cioè quando essa si fa volontà di migliorare emulando, ovvero diventa sana competizione: per es., se un alunno, a scuola, ha preso 9 in Matematica, farò di tutto per prendere anch’io un voto così gratificante, invece di provare una frustrante passiva e distruttiva invidia…
In verità, l’invidia è, in genere, un sentimento distruttivo anche per chi ne è afflitto e fa stare male. Il solo pensare che qualcuno ha tutto, nella vita, e noi niente o pochissimo, fa venire rabbia e fa crepare dall’invidia. Per Socrate, infatti, l’invidia è l’ulcera dell’anima, e solo la miseria non è invidiata da nessuno. Ma l’invidia può esercitarsi anche in maniera silenziosamente distruttiva, e tuttora nel Sud dell’Italia (parlo per diretta conoscenza) si crede nel malocchio e nell’oscura invidia di chi augura il male, per cui si dice che il piccio spiccio (picciare vuol dire, appunto, invidiare fortemente, prendere di mira qualcuno, puntarlo con occhi cattivi fino a fargli accadere qualcosa di negativo): cioè quando si è continuamente invidiati e presi di mira da chi ci invidia, finisce che quel malocchio, quel cattivo occhio abbia la meglio e, prima o poi, qualcosa di negativo e di brutto accadrà. Il silenzio dell’invidioso fa molto rumore, cioè si fa reamente sentire, è devastante, potremmo concludere con Khalil Gibran e, in verità, l’invidia, che ben si allea alla gelosia e che, come la gelosia, acceca, può serpeggiare come serpeggia attraverso il malvagio Jago (l’onesto Jago) nell’Otello di Shakespeare, provocando il suo molto rumore: un inutile femminicidio, e un inutile suicidio del femminicida… Sangue che si poteva evitare, ma l’uomo è portato più al Male che al Bene, e Dante lo sa benissimo e per questo sta facendo il suo straordinario folle-viaggio–volo nell’Oltremondo (sorretto, diversamente da Ulisse, dalla Grazia divina): vorrebbe riportare quel legno storto dell’uomo, quel malnato sulla diritta via, sulla retta via, sulla giusta strada. Ma, ora, andiamo a vedere come Dante ci introduce, con ampia premessa, al miserabile mondo dei malati di invidia, di queste anime nere che hanno vissuto desiderando il male del loro prossimo e che solo all’orlo della vita, solo verso la fine si sono ravveduti e hanno mutato vita, mettendosi nelle mani della Misericordia divina che è stata generosa con loro promettendo, dopo la dovuta soddisfazione (penitenza), la salvezza dell’anima:
Noi eravamo al sommo de la scala, dove secondamente si risega lo monte che salendo altrui dismala. Ivi così una cornice lega dintorno il poggio, come la primaia; se non che l’arco suo più tosto piega. Ombra non lì è né segno che si paia; parsi la ripa e parsi la via schietta
col livido color de la petraia.
“Se qui per dimandar gente s’aspetta”, ragionava il poeta, “io temo forse che troppo avrà d’indugio nostra eletta”. Poi fisamente al sole li occhi porse; fece del destro lato a muover centro, e la sinistra parte di sé torse.
“O dolce lume a cui fidanza i’ entro per lo novo cammin, tu ne conduci”, dicea, “come condur si vuol quinc’entro. Tu scaldi il mondo, tu sovr’esso luci; s’altra ragione in contrario non ponta, esser dien sempre li tuoi raggi duci”.
Quanto di qua per un migliaio si conta, tanto di là eravam noi già iti, con poco tempo, per la voglia pronta; e verso noi volar furon sentiti, non però visti, spiriti parlando a la mensa d’amor cortesi inviti. La prima voce che passò volando ‘Vinum non habent’ altamente disse, e dietro a noi l’andò reïterando. E prima che del tutto non si udisse per allungarsi, un’altra ‘I’ sono Oreste’ passò gridando, e anco non s’affisse. “Oh!”, diss’ io, “padre, che voci son queste?”. E com’io domandai, ecco la terza dicendo: ‘Amate da cui male aveste’.
E ‘l buon maestro: “Questo cinghio sferza la colpa de la invidia, e però sono tratte d’amor le corde de la ferza. Lo fren vuol esser del contrario suono; credo che l’udirai, per mio avviso, prima che giunghi al passo del perdono. Ma ficca li occhi per l’aere ben fiso, e vedrai gente innanzi a noi sedersi, e ciascun è lungo la grotta assiso”.
Allora più che prima li occhi apersi; guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti al color de la pietra non diversi. E poi che fummo un poco più avanti, udia gridar: ‘Maria, òra per noi’: gridar ‘Michele’ e ‘Pietro’ e ‘Tutti santi’.
Non credo che per terra vada ancoi omo sì duro, che non fosse punto per compassion di quel ch’i’ vidi poi; ché, quando fui sì presso di lor giunto, che li atti loro a me venivan certi, per li occhi fui di grave dolor munto. Di vil ciliccio mi parean coperti, e l’un sofferia l’altro con la spalla, e tutti da la ripa eran sofferti. Così li ciechi a cui la roba falla, stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna, e l’uno il capo sopra l’altro avvalla, perché ‘n altrui pietà tosto si pogna, non pur per lo sonar de le parole, ma per la vista che non meno agogna. E come a li orbi non approda il sole, così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora, luce del ciel di sé largir non vole; ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra e cusce sì, come a sparvier selvaggio si fa però che queto non dimora.
A me pareva, andando, fare oltraggio, veggendo altrui, non essendo veduto: per ch’io mi volsi al mio consiglio saggio. Ben sapev’ei che volea dir lo muto; e però non attese mia dimanda, ma disse: “Parla, e sie breve e arguto”.
Virgilio mi venìa da quella banda de la cornice onde cader si puote, perché da nulla sponda s’inghirlanda; da l’altra parte m’eran le divote ombre, che per l’orribile costura premevan sì, che bagnavan le gote.
Proviamo a tradurre: Noi eravamo (ci trovavamo) alla sommità (alla cima) della scala dove il monte è tagliato per la seconda volta (tutto intorno, nel fianco, tanto da creare un secondo ripiano o cornice) e dove, nel salire (man mano che si sale) le anime si purificano (dismalare: neologismo dantesco per dire che ci si purga, libera dal male): qui, di fatti, una cornice, nello stesso modo della prima, fascia (cinge, recinge, circonda, avvolge) intorno il monte; ma il suo arco si piega (si incurva) più presto (prima, perché è più stretta, di minor circonferenza: la forma è conica e le cornici concentriche si restringono man mano che si sale). Qui non c’è nessuna anima né alcuna figura (immagine, raffigurazione, scultura) che possa apparire (che si possa vedere): sia la parete rocciosa che la via appaiono lisce e spoglie del colore livido (grigio) della pietra (una sorta di deserto, di paesaggio grigio e desolato, emblematico del grigiore della vita morale e spirituale degli invidiosi). Virgilio pensava: Se qui (in questo deserto…) aspettiamo gente (qualcuno) per chiedere (sulla via da tenere, da fare), temo che la nostra scelta della strada da seguire tarderà molto (cioè: ci vorrà molto tempo per decidere). Poi ha voltato (rivolto) fissamente gli occhi (lo sguardo) verso il sole; facendo perno sul piede e sul fianco destro, si è girato (ha fatto ruotare il corpo) verso sinistra (la parte sinistra del corpo: il sole colpisce i due pellegrini da destra, da nord, in quanto è da poco passato mezzogiorno). Virgilio diceva (e sembra un’invocazione, una preghiera, una supplica): O dolce luce (il sole, simbolo di Dio, o forse meglio della Ragione umana, alla quale, tavolta occorre il soccorso della Grazia divina), di cui avendo fiducia (o: avendo fiducia nella quale) io mi avvio per il nuovo (ignoto) cammino (mai prima percorso, cioè quello del Purgatorio), conducici (guidaci) tu nel modo in cui è necessario (opportuno, giusto) in questo regno. Tu riscaldi il mondo, tu risplendi su di esso (lo illumini: il sole ancora metafora della Ragione ma anche della forza dell’amore, verso cui deve far tendere gli uomini, in contrapposizione al grigiore e alla freddezza dell’invidia): se un’altra ragione (quella di Dio) non spinge al contrario (non si oppone a questo) i tuoi raggi devono essere sempre la nostra guida (il nostro faro: la Ragione che illumina e guida).
Noi avevamo percorso (camminato, nella seconda cornice) per uno spazio che sulla Terra è calcolato, (valutato) un miglio, in poco (breve) tempo per la volontà (il forte, vivo, alacre desiderio di procedere, di proseguire lungo il cammino della purificazione); quand’ecco che (quando a un tratto) abbiamo sentito volare verso di noi, ma non li abbiamo visti, spiriti (anime; cioè le voci degli invisibili spiriti che echeggiano, aleggiano, sorvolano la zona dove sono i due Poeti) che rivolgevano inviti cortesi alla mensa d’amore (invitavano cioè a seguire, tramite gli esempi, la via della virtù, della carità, della generosità, cioè il contrario dell’invidia). (Seguono, una dopo l’altra, tre voci che vogliono essere tre esempi di carità, virtù e generosità): La prima voce che è passata volando (sopra di noi) ha detto con tono alto e forte Vinum non habent, e andava ripetendo la stessa frase dietro di noi (alle nostre spalle). (Non hanno vino, disse Maria alle nozze di Cana e fu la frase che indusse Gesù a compiere il suo primo miracolo, trasformando l’acqua in vino e togliendo, così, gli sposi dall’imbarazzo).
E prima che svanisse completamente, che non si udisse più per via del fatto che si allontanava, un’altra (voce) è passata gridando: Io sono Oreste, e neanche questa si è fermata. (Il mitologico Oreste, figlio di Agamennone e di Clitennestra, fu spinto dalla sorella Elettra a vendicare il padre assassinato da Egisto e da Clitennestra, sua amante. Divenuto grande amico di Pilade, figlio del re della Focide, tornò insieme a questi a Micene per attuare la vendetta, uccidendo anche la propria madre; fu, però, arrestato e condannato a morte. Il suo amico, per salvarlo, si spacciò per lui, dicendo e ripetendo, appunto, di essere lui Oreste. Insomma, un grande esempio di amicizia, di generosità e di amore fino al sacrificio della vita).
Io ho detto (Dante non sa mai nulla…): Oh padre (mio; Virgilio, chiama Dante figlio e Dante lo ricambia con padre), che cosa sono (cosa significano) queste voci? E mentre io domandovo, ecco (arrivare, sopraggiungere) la terza voce che diveva: Amate coloro da cui avete ricevuto del male (amate coloro che vi hanno fatto il male; sono le parole di Gesù nel celebre Discorso della Montagna: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi perseguitano: un invito a non odiare i nemici, chi ci fa del male e ad amarli tuttavia).
A questo punto, Virgilio, buon maestro, spiega al discepolo quale peccato, quale colpa è punita nel secondo girone del Purgatorio e, subito dopo, Dante descrive la terribile e miserabile scena della condizione (umana…) spirituale (che è, allo stesso tempo, morale) delle anime degli invidiosi: Questo cerchio (o cornice) punisce la colpa dell’invidia, e perciò (e per questo) sono tratti (derivano) dall’amore gli esempi che servono da stimolo alla virtù (ferza: sferza, frusta: la frusta dello stimolo, dell’incitamento a ben fare, a ben operare, a ben agire secondo virtù, secondo il Bene, che sono il contrario dell’invidia). Il freno (contro il peccato di invidia, cioè i rimproveri-esempi) dev’essere di significato contrario (opposto a quelli che si sono visti prima, cioè di carità, che fungono da stimolo, mentre gli esempi di invidia puniti da freno; ma, siccome nel Purgatorio non può essere commesso il peccato, essi serviranno soltanto come riflessione e meditazione per i penitenti, gli espianti): credo (a mio avviso, secondo il mio parere) che lo ascolterai (il diverso suono) prima che tu giunga al passaggio del perdono (dove avviene il perdono del peccato dell’invidia, cioè verso la scala che porta alla terza cornice, dove l’angelo cancellerà dalla tua fronte la seconda P). Ma (adesso viene il bello! vedrai una scena inedita, mai vista, che ti riempierà di orrore e di turbamento interiore…) fissa ben attentamente lo sguardo (gli occhi) attraverso l’aria (intorno allo spazio in cui siamo, guardati bene intorno), e vedrai (potrai vedere) un po’ più avanti di noi anime sedute, e ciascuna è seduta (addossata, appoggiata) alla parete rocciosa (del monte).
Allora ho aperto gli occhi (Dante vuole marcare la forte tensione della vista, nonostante non ci sia buio: vuol sottolineare come i corpi degli invidiosi fossero un tutt’uno con la parete rocciosa, un continuum di grigiore e lividore), ho osservato ancor più di prima; ho guardato davanti a me, e ho visto anime ricoperte (rivestite) di mantelli dello stesso colore livido della pietra (della roccia: il colore grigio dell’invidia). E dopo esser giunti un po’ più avanti, ho sentito gridare (gli invidiosi cantano, recitano le litanie dei santi): Maria prega per noi (peccatori…), ho sentito invocare Michele e Pietro, e Tutti i santi.
L’empatico Dante, a quella vista, prova un forte turbamento interiore e anche una forte compassione per la terrificante e miserabile condizione morale e spirituale in cui versano gli invidiosi e che verrà man mano descritta in tutti gli sconvolgenti dettagli: Non credo che sulla Terra (sul mondo) oggi (ci sia, si trovi ancora) un uomo così duro (di cuore), che non fosse (da non essere) punto (trafitto, toccato profondamente e interiormente) dalla compassione (dalla pietà) per quello che io ho visto dopo (che avrei visto tra non molto); infatti, quando sono arrivato (giunto) così vicino a loro, tanto che i loro atti (i loro gesti, il loro atteggiamento) mi apparivano (mi risultavano) ben distinti (cioè, li distinguevo con chiarezza), (ebbene) dagli occhi mi sono uscite lacrime spremute da un forte (profondo, terribile) dolore. (Quelle anime) mi sembravano rivestite (ricoperte) di un rozzo (ruvido e pungente e, quindi, fastidioso tessuto) cilicio (simbolo di umiltà e penitenza), e ognuna di esse sosteneva l’altra con la propria spalla, e tutte erano sostenute (sorrette) dalla parete (cioè, si appoggiavano alla parere del monte). (Segue calzante similitudine): Stavano proprio come i ciechi a cui manca il necessario per vivere (cioè, quelli che sono poveri, bisognosi) e stanno davanti alle (porte delle) chiese (i perdoni) per chiedere ciò che è loro necessario per vivere (cioè l’elemosina, la carità), e l’uno sta con la testa sulla spalla dell’altro, affinchè (in modo che) negli altri sorga (nasca) subito (presto un forte sentimento di) pietà (di compassione) non soltanto per le parole lamentose, ma (anche) per l’aspetto che esprime (più delle parole) la brama (il desiderio intenso, cioè la pressante richiesta di aiuto, di elemosina). (Nota: i perdoni sono le solennità religiose e anche i luoghi, cioè i santuari e altro, dove si lucrano indulgenze).
(Altra ben calzante similitudine): E come ai ciechi la luce del sole non giova (o, forse meglio: non giunge, non arriva e quindi non giova; il sole, la luce di Dio, arriverà solo dopo che gli invidiosi avranno espiato e, pertanto, gioverà solo dopo), così (allo stesso modo) a queste anime, di cui io sto parlando, la luce del cielo non vuol concedersi a loro (non vuole elargire, dare a loro la sua luce in quanto gli invidiosi avevano usato la vista per rattristarsi della fortuna o della felicità degli altri e avevano fortemente goduto delle sventure e dei mali altrui); perché (infatti) a tutte (loro) un fildiferro cuce le palpebre degli occhi così come si usa fare con lo sparviero (o falcone) selvatico perchè non sta fermo (si agita e, quindi, per addomesticarlo meglio, viene reso temporaneamente cieco; della tecnica o operazione dell’accigliatura parla Federico II di Svevia nel suo De arte venandi cum avibus). A me sembrava, camminando, di offendere (essere scortese, far torto a) quelle anime, vedendole senza esser visto da loro (già la loro condizione è così miserabile, per cui Dante, così sensibile e umano, pensa di oltraggiare quelle anime che in vita furono così moralmente cieche): per cui io mi sono (ri)volto al mio saggio consigliere (cioè a Virgilio). Egli ben sapeva cosa volesse dire il mio cenno muto (senza parole; quello che volevo dire senza parlare: non è la prima volta che Virgilio intuisce i pensieri di Dante); e per questo (perciò) non ha atteso la mia domanda, ma ha detto: Parla (pure, con quelle anime), ma sii (breve) conciso e chiaro (usa le parole giuste, opportune). Virgilio procedeva (camminava con me, sulla destra) da quella parte (lato) della cornice da dove si può cadere (nel vuoto), perché (in quanto) non è protetta (cinta, circondata) da nessuna sponda (da nessun riparo: c’è uno strapiombo); dall’altra parte (sulla sinistra) c’erano le anime devote (i penitenti che pregavano devotamente), che attraverso l’orribile cucitura facevano uscire (spingevano con forza, premevano tanto le lacrime), da far(le) scorrere e bagnare (così) i loro volti, (le guance. La pena degli invidiosi fa tornare alla mente quella dei traditori degli ospiti nella Tolomea del Cocito, che avevano gli occhi serrati dal ghiaccio incrostato, da visiere di cristallo che impediva loro di piangere, di sfogare il proprio dolore con le lacrime).
A questo punto, avviene l’incontro con Sapìa di Siena, con la quale il canto-capitolo prosegue e si chiude. Ma prima di vedere la storia di questa terribile invidiosa, corre l’obbligo di far notare che il dolore di Dante di fronte alla miserabile condizione di questi espianti è soprattutto dolore e tormento al pensiero di come l’uomo tenda al Male, come possa ridursi ad essere così infimo e abietto fino a godere, a provare piacere per le disgrazie altrui. Si tratta di un sentimento già altre volte provato nell’Inferno, di fronte a particolari forme di cattiveria e di peccato per cui non poteva rivelarsi alcun sentimento di simpatia o di empatia. Pertanto, conveniamo con il Sapegno in merito al fatto che quella del Poeta verso gli invidiosi è una pietà senza simpatia e il suo è un atteggiamento, appunto, tra pietoso e distaccato. E adesso vediamo cosa Dante ci fa sapere della senese Sapìa e come ne tratteggia la personalità di invidiosa da morire ma soprattutto da far morire gli altri: Volsimi a loro e: “O gente sicura”, incominciai, “di veder l’alto lume che ‘l disio vostro solo ha in sua cura, se tosto grazia resolva le schiume di vostra coscïenza sì che chiaro per essa scenda de la mente il fiume, ditemi, ché mi fia grazioso e caro, s’anima è qui tra voi che sia latina; e forse lei sarà buon s’i’ l’apparo”.
“O frate mio, ciascuna è cittadina d’una vera città; ma tu vuo’ dire che vivesse in Italia peregrina”. Questo mi parve per risposta udire più innanzi alquanto che là dov’io stava, ond’io mi feci ancor più là sentire.
Tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava in vista; e se volesse alcun dir ‘Come?’, lo mento a guisa d’orbo in sù levava. “Spirto”, diss’io, “che per salir ti dome, se tu se’ quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome”.
“Io fui sanese”, rispuose, “e con questi altri rimendo qui la vita ria, lagrimando a colui che sé ne presti. Savia non fui, avvegna che Sapìa fossi chiamata, e fui de li altrui danni più lieta assai che di ventura mia. E perché tu non creda ch’io t’inganni, odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle, già discendendo l’arco d’i miei anni. Eran li cittadin miei presso a Colle in campo giunti co’ loro avversari, e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle. Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari passi di fuga; e veggendo la caccia, letizia presi a tutte altre dispari, tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia, gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”, come fé ‘l merlo per poca bonaccia. Pace volli con Dio in su lo stremo de la mia vita; e ancor non sarebbe lo mio dover per penitenza scemo, se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe Pier Pettinaio in sue sante orazioni, a cui di me per caritate increbbe. Ma tu chi se’, che nostre condizioni vai dimandando, e porti li occhi sciolti, sì com’io credo, e spirando ragioni?”.
“Li occhi”, diss’io, “mi fieno ancor qui tolti, ma picciol tempo, ché poca è l’offesa fatta per esser con invidia vòlti. Troppa è più la paura ond’è sospesa l’anima mia del tormento di sotto, che già lo ‘ncarco di là giù mi pesa”.
Ed ella a me: “Chi t’ha dunque condotto qua sù tra noi, se giù ritornar credi?”.
E io: “Costui ch’è meco e non fa motto. E vivo sono; e però mi richiedi, spirito eletto, se tu vuo’ ch’i’ mova di là per te ancor li mortai piedi”.
“Oh, questa è a udir sì cosa nuova”, rispuose, “che gran segno è che Dio t’ami; però col priego tuo talor mi giova. E cheggioti, per quel che tu più brami, se mai calchi la terra di Toscana, che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami. Tu li vedrai tra quella gente vana che spera in Talamone, e perderagli più di speranza ch’a trovar la Diana; ma più vi perderanno li ammiragli”…
Dunque: Io mi sono voltato (girato, rivolto) verso di loro e ho incominciato (con captatio benevolentiae, affinchè qualcuno si faccia avanti e vuoti il sacco): O anime (ormai) sicure di raggiungere (di vedere la luce di) Dio che è (che costituisce) l’unico vostro desiderio (che adesso è l’unico vero oggetto del vostro desiderio), possa presto la Grazia divina liberare (sciogliere) le impurità (le scorie, le macchie) della vostra coscienza, così che (in modo che) attraverso di essa scenda (scorra, fluisca) limpido (puro) il fiume del ricordo (della memoria, che ora è ancora torbido per il ricordo del peccato che poi, nel Paradiso Terrestre, il fiume Lete cancellerà ridando l’innocenza e avviando a beatitudine), ditemi, perchè questo mi sarà cosa gradita e cara (preziosa), se qui tra di voi c’è qualche anima italiana; e forse le gioverà (le sarà utile, perché poi, sulla Terra, potrà chiedere preghiere per la sua anima) se io lo vengo a sapere (apparare: imparare, apprendere, conoscere).
O fratello mio, (qui) ciascuna di noi è cittadina di una sola vera patria (la città di Dio, la città celeste, la Gerusalemme celeste), ma tu vuoi dire se qui c’è un’anima che era vissuta in Italia, nella vita terrena (quando era come esule rispetto alla patria celeste, spirituale). Questo mi pare sia stata la risposta che ho sentito un po’ più avanti del posto (del luogo) dove mi trovavo io, per cui (per questo) io mi sono avvicinato di più (verso quell’anima, anche per farmi sentire di più: Dante si sposta, si muove verso Sapìa). Tra le altre, ho visto un’anima che dall’aspetto (dall’apparenza) sembrava che stesse in attesa (che aspettava) qualcuno; e se qualcuno mi chiedesse (volesse sapere) Come? (In che modo stava?), (risponderei che) stava con il mento (il viso) rivolto verso l’alto, a mo’ (a guisa) dei ciechi (come fanno, come sono soliti fare i ciechi).
Io le ho detto: (O) anima che per salire al cielo (per salvarti ti sottoponi alla dura pena, alla terribile penitenza), se tu sei quella che mi ha risposto, fatti conoscere o attraverso il luogo in cui sei nata o dal tuo nome (o dalla tua patria o da come ti chiami).
Rispose, scrive Dante, e a rispondere è la senese Sapìa Salvani, zia del già incontrato Provenzan Salvani, grande presuntuoso politico; aveva sposato Ghinibaldo Saracini, signore di Castiglioncello presso Monteriggioni, che aveva fondato l’ospizio di Santa Maria per i Pellegrini. Rimasta vedova e sola nel castello del marito, prese a invidiare-odiare a morte sia il nipote che i suoi concittadini non si sa bene per quale profonda ragione, forse per partigianeria, per le divisioni di parte che erano fonti di tanti mali per le città toscane come per quelle di quasi tutta l’Italia. Lei era di parte guelfa e il nipote ghibellino e, pertanto, un po’ per ragioni politiche un po’ perché la donna doveva essere molto cattiva e acida per sua natura di fondo, sta di fatto che augurò a nipote e senesi di uscire sconfitti dalla battaglia combattuta presso Colle di Valdelsa contro la guelfa Firenze (8 giugno 1269) e poi di esultare, di fare salti gioia di fronte alla notizia della sconfitta. Al termine della sua esistenza, Sapìa cambiò vita e si rimise nella mani misericordiose di Dio che la accolse anche grazie alle pie preghiere di un uomo in odore di santità chiamato Pier Pettinaio, appunto perché vendeva pettini ma che era stato anche terziario francescano (morì a Siena nel 1289). Certamente, il caso di Sapìa è servito a Dante per proporlo come ennesimo esempio, come ulteriore caso emblematico delle divisioni politiche, delle lotte fratricide che imperversavano nella Toscana e che era causa di lacerazioni profonde del tessuto civile, sociale e di grande spargimento di sangue che chiedeva altro sangue, altra vendetta, altra rivalsa e altro odio. Inoltre, Sapìa offre a Dante una nuova stoccata ironica, sarcastica contro i Senesi, il loro poco senno e anche la loro vana megalomania (la prima stoccata Dante l’aveva fatta nel canto-capitolo XXIX dell’Inferno).
E adesso vediamo la risposta di Sapìa che, con tono pacato, incomincia autocriticamente a dire che lei è lì, con tutte le altre anime a pagare il conto per salvarsi e poter vedere la luce di Dio e, subito dopo, che il suo nome, che dal latino sapere significa, appunto, avere sapienza, saggezza, lei lo ha smentito in quanto, in effetti, di saggezza ne ha avuta ben poca; quindi prosegue raccontando la sua storia: Io fui di Siena e con questi altri (spiriti) purifico (rimendare: emendare, correggere) la mia vita malvagia (peccaminosa) pregando Dio con lacrime (di vera contrizione) affinchè, poi, si conceda a noi (ci offra la possibilità di vederlo, di poter essere beati nella sua Grazia). Non sono stata saggia, sebbene (benché) fossi stata chiamata Sapìa, e sono stata più lieta (felice, cioè ho gioito di più) per i danni (la cattiva sorte) degli altri che del mio destino (della mia fortuna). E affinchè tu non pensi che io ti inganni, ascolta se io sono stata, come ora ti dico (racconto) una folle (stolta, insipiente, senza testa, senza freni, tanto temeraria da apparire senza cervello), già quando avevo passato il punto centrale della mia vita (nell’ultima parte della mia vita, cioè, in età abbastanza matura, quando si dovrebbe essere presi meno dalle passioni e più raccolti in se stessi, cercando di pensare a come meglio spendere gli ultimi anni della nostra vita). I mie concittadini erano giunti (venuti) a battaglia con i loro avversari (Fiorentini) in un campo presso a Colle (di Valdelsa) e io ho pregato Dio di quel che Lui ha voluto (cioè della sconfitta dei Senesi). (I miei concittadini) erano stati (duramente) sconfitti e messi in fuga amaramente (con umiliazione); e vedendo (dall’alto del mio castello) l’inseguimento (la caccia che veniva loro data), ne ho avuto una grande (intensa) gioia (piacere) come mai prima avevo avuto (superiore a ogni altra) tanto che (presa dal delirio di onnipotenza…) io ho rivolto il mio temerario sguardo (viso) verso il cielo, urlando a Dio (in tono di sfida; e qui viene in mente la bestiale tracotanza, superbia di Vanni Fucci, XXV dell’Inferno, e il suo togli, Dio, ch’a te le squadro…): Ormai io non ti temo più! (dopo quello che ho visto, ormai non temo più nulla da parte tua, non mi fai paura!…), (proprio) come ha fatto il merlo (che, secondo la favola, dopo il lungo inverno e tanto freddo), si era illuso di poter uscire dal nido dopo un po’ di bel tempo (sfidando Dio e mostrando di non temerlo). (Insomma: invidia e superbia, due grandi peccati che spesso si ritrovano come grandi alleati nel fare il male, e non solo in persone diverse ma nella stessa persona). Alla fine della mia vita ho voluto rappacificarmi (riconciliarmi) con Dio (si è pentita di tutto); e ancora non sarebbe venuto meno (diminuito) il mio debito verso Dio soltanto con la mia penitenza, se non fosse stato che Pier Pettinaio mi ha ricordato nelle sue sante preghiere, in quanto, per spirito di carità, (caritatevole) si è dispiaciuto della mia sorte. (Io ti ho raccontato tutto di me): Ma tu chi sei che vai chiedendo (facendo domande) sulla nostra condizione, e hai gli occhi liberi (dal fildiferro), e parli respirando (come persona viva), così come io credo (intuisco) che tu sia?
Ho risposto: Anche a me, qui (un giorno), sarà impedita la vista (saranno chiusi gli occhi) ma per poco tempo, perché l’offesa fatta (a Dio) con gli occhi dell’invidia verso gli altri è poca (è leggera, non è molta: poche volte i miei occhi hanno peccato di invidia volgendosi verso gli altri). Molto di più, molto più grande è la paura dell’anima mia che è come sospesa (turbata, trepidante, in ansia) per il tormento (la punizione) che si deve espiare nella cornice sottostante (quella dei superbi), tanto che già sento (avverto) il peso (il pesante carico) che mi toccherà portare.
(Nella sua grandezza di mente e di cuore, Dante è così onesto da ripetere, ribadire ancora una volta che lui si sente colpevole del peccato di superbia, ma non è così e lo si è già visto. E chiosa bene la Chiavacci Leonardi quando scrive che nonostante Dante faccia notare la grandezza del suo ingegno, tutto il poema testimonia il deliberato rifiuto di quell’atteggiamento dell’animo [cioè del sentimento della superbia intellettuale], e la figura del fanciullo sempre guidato, ammonito, confortato, che il poeta ha scelto per se stesso, è chiaro segno della sua ultima e consapevole scelta).
E lei a me: Chi ti ha dunque guidato quassù tra di noi, se tu credi di ritornare giù (nella cornice dei superbi, violando la legge del Purgatorio, per cui si può solo salire)? (Sapìa ha capito che una volontà superiore, cioè Dio, sta dietro al viaggio di Dante).
E io: Costui (Virgilio) che è con me e non parla (è lui che mi guida, anche se voi non lo vedete). E io sono vivo; e perciò richiedimi, spirito destinato alla salvezza (al cielo) se tu vuoi (desideri) che io muova i miei mortali piedi sulla Terra in tuo favore (per aiutarti, per esserti utile, rinnovando la tua memoria e chiedendo a qualcuno di pregare per te).
Lei ha risposto: Oh, questa è proprio una cosa così nuova (inedita, straordinaria) da sentire, che è grande segno (una grande prova) che Dio ti ama (ti predilige, ti ha scelto); perciò ogni tanto aiutami (cerca di giovarmi) con le tue preghiere. E ti chiedo, per quello (in nome di quello) che tu più desideri più intensamente (cioè la salvezza e la beatitudine eterna), se mai dovessi calpestare la terra di Toscana, che tu ben mi riabiliti presso i miei parenti (consanguinei; rinfamare: è neologismo dantesco e vuol dire: rimettere, ridare buona fama, riabilitare: Sapìa chiede, infatti, a Dante di dire ai suoi parenti che non si trova tra i sommersi in Inferno ma è tra i salvati, direbbe Primo Levi, e pertanto, loro potranno pregare per lei affinchè possa avere uno sconto di pena). Tu potrai vederli tra (in mezzo a) quella gente vana (sciocca, senza senno, cioè i senesi) che spera (scioccamente e follemente…) di costruire un porto a Talamone, e vi perderà più speranza di quanta ne abbia perduta quando sperava di trovare la Diana (cioè un fiume che si credeva scorresse sotto la città e che si sperava di poter utilizzare per l’approvvigionamento idrico della popolazione: ma fu tutto inutile e inutilmente costoso…); ma ancora di più vi perderanno le loro speranze gli ammiragli…
(Che speravano, inutilmente, di poter diventare, un giorno, capitani di flotta che sarebbe salpata dal porto di Talamone. Talamone era un borgo presso Orbetello che apparteneva all’abate di San Salvatore sul Monte Amiata e che fu acquistato dal Comune di Siena nel 1303 per ben ottomila fiorini d’oro, al fine di poter avere uno sbocco marittimo e commerciale sul Tirreno e poter diventare magari una potenza marinara come Pisa, Genova o Venezia; ma questa volontà di potenza, questa megalomania costò ai Senesi soltanto dispendio di molti soldi senza alcuna utilità…).
Insomma, l’ex grande malvagia invidiosa di Siena, ora che sta in Purgatorio e può sperare nella città di Dio, riesce a parlare di sé, della sua follia, della sua pericolosa invidia avuta sulla Terra e della stessa stoltezza e follia dei suoi concittadini (entrambe proverbiali), con alquanto distacco, con capacità di autocritica e anche di autoironia, lei che in vita era stata così dura, aspra e moralmente cieca. E Dante ce la fa immaginare con un sorriso sulle labbra, con un’espressione tale da sembrare pronunciare una delle grandi frasi di Shakespeare: Che sciocchi sono questi mortali!… E pensare che secondo Kant non è mai troppo tardi per diventare saggi e ragionevoli, e Sapìa, alla fine, ha capito questo e ha dato una svolta alla sua vita, riuscendo a salvare la propria anima. Forse ha capito anche che l’uomo è una cosa così piccola nell’universo che, se ci riflettessimo un po’ su, non commetteremmo le cattiverie, i peccati e i delitti, più o meno gravi, che commettiamo. Scrive Pirandello ne Il fu Mattia Pascal che: Dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci ed ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci per certe cose che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili…