Trebisacce-23/01/2025: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del quattordicesimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonista è l’invidioso Guido del Duca, che lancia un durissimo atto di accusa contro l’emblematica corruzione e violenza delle classi dirigenti della Toscana e della Romagna, alle quali vengono contrapposte quelle sane e oneste di altri tempi. Ad essere esaltata sono l’umiltà e la carità, mentre si fanno esempi di invidia punita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del quattordicesimo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonista è l’invidioso Guido del Duca, che lancia un durissimo atto di accusa contro l’emblematica corruzione e violenza delle classi dirigenti della Toscana e della Romagna, alle quali vengono contrapposte quelle sane e oneste di altri tempi. Ad essere esaltata sono l’umiltà e la carità, mentre si fanno esempi di invidia punita.

 Il canto-capitolo XIV ovvero il canto di DanteGuido-del-Duca e della sua durissima invettiva-urlo-j’accuse contro l’emblematica corruzione e degenerazione delle classi dirigenti della Toscana e della Romagna. Seconda cornice. Gli invidiosi. Incontro con altri emblematici illustri personaggi (due romagnoli) le cui storie riportano, appunto, ancora una volta e più duramente e più polemicamente, alle miserie del mondo terreno e alle divisioni, lacerazioni e lotte fratricide che dominavano la vita politica della Toscana e dell’Italia ai tempi del Poeta (ma anche di dopo). Si tratta di una denuncia, di un atto di accusa che vuol essere di carattere universale. Guido del Duca (portavoce, alter ego e doppio di Dante) lancia, tra le lacrime, la sua durissima invettiva-denuncia contro i potenti toscani e romagnoli di allora, corrotti e in irreversibile mutazione antropologica, a cui contrappone, con rimpianto e nostalgia, gli uomini del buon tempo antico e predice, profetizza la rovina ignominiosa e sanguinosa della sciagurata Firenze sotto il podestà Fulcieri da Calboli. Rinieri da Calboli (zio buono di quest’ultimo) ascolta e resta in pensieroso, malinconico e amareggiato silenzio, quasi mera, anche se dolente, comparsa sulla scena. Alcune invisibili voci esortano e invitano alla carità, riferendo alcuni esempi di invidia punita. (Tutto si svolge nel primo pomeriggio dalle ore 2 alle 3 del lunedì dell’11 aprile del 1300).

Con tecnica narrativa proprio da romanzo, Dante fa iniziare il canto-capitolo XIV con l’entrata in scena di due anime romagnole, due invidiosi di alto bordo, altri due esemplari ed emblematici personaggi delle classi dominanti, appartenenti alle élites e all’establishment dei tempi di Dante, i cui nomi saranno rivelati verso la fine del racconto. Si tratta di Guido del Duca (dell’altolocata, nobile e ricca famiglia degli Onesti di Ravenna, possessori di beni a Bertinoro e con legami di parentela con le casate dei Mainardi e dei Traversari; di parte ghibellina, era stato giudice in più di un comune della Romagna; morì dopo il 1249) e di  Rinieri da Calboli (zio buono e onesto del podestà di Firenze Fulcieri da Calboli, uomo politico corrotto, spregiudicato, sanguinario, insomma un vero e proprio criminale, un delinquente politico; Rinieri apparteneva alla potente e nobile famiglia guelfa dei Paolucci di Forlì, signori di Calboli; fu tra i protagonisti delle lotte politiche svoltesi in Romagna; più volte podestà a Faenza, poi a Parma e quindi a Ravenna; nel comune di Forlì fu sia sconfitto che vittorioso, ma nel 1296 venne ucciso in battaglia dall’esercito di Scarpetta degli Ordelaffi). Dei due personaggi, quello che parla, si sfoga e urla è Guido del Duca, di cui Dante si serve come suo doppio, come alter ego e portavoce al quale affidare le parole che lui vuole dire e gridare sui mali che affliggono due regioni (ma che sono, poi, mali universali) a lui così care, la Toscana (che gli ha dato i natali) e la Romagna (dove troverà accoglienza nel suo lungo e doloroso esilio).

Si tratta di uno dei canti-capitoli più politici di tutta la Commedia, uno di quelli in cui l’invettiva e la polemica, durissima, piena di indignazione sulla politica odierna, sulle vicende della storia contemporanea, sono tra le più dure e più aspre. Naturalmente, non si tratta di una invettiva-j’accuse nei confronti della politica locale o regionale, ma di una denuncia, di un atto di accusa che vuol essere di carattere universale in quanto sottolinea e fa risaltare una crisi di valori e di ideali che era generale, certamente non circoscritta alle mura della Toscana o della Romagna (entrambe, infatti, così bene emblematiche di una situazione universale); alla quale crisi non avrebbe potuto che porre rimedio (utopisticamente, in quel momento…) la salvifica monarchia universale, in collaborazione con una Chiesa e un Papato non più politicizzato e solo dedito allo spirito e, quindi, non più avara, cioè con il pensiero rivolto ai beni temporali, materiali che conducono alla corruzione e alla degenerazione e finiscono, anche, per non scaldare più i cuori dei credenti, dei fedeli e, quindi, per renderli sempre più perplessi e scettici fino a farli allontanare dai luoghi di culto.

Se Sapìa aveva chiuso il canto-capitolo XIII facendo pacata ma pesante ironia sulla stoltezza, sulla follia e, insomma, sul poco senno dei Senesi, quello successivo continua con la storia contemporanea e si apre con la violenta, durissima polemica di Guido del Duca contro le classi dirigenti, contro i potenti della Toscana e della Romagna che appare un proseguimento della polemica (sotto forma di ironia e sarcasmo) contro Siena, adesso rivolta contro tutta la Toscana, contro tutte le sue città-stato e i loro uomini di Potere, assimilati ad animali: brutti porci (in quanto lussuriosi), quelli del Casentino; cani ringhiosi (perché arroganti) gli Aretini; lupi feroci e pieni di brama (perché avari e violenti), i Fiorentini; volpi maestre di inganni (in quanto astuti e fraudolenti), i Pisani. Grande amarezza e grande malinconia dominano la scena e fanno da sottofondo alle indignate e dure note di Guido-Dante, e fa giustamente notare la già citata Chiavacci Leonardi che due erano i sentimenti profondi del Poeta, che sono anche dei leimotif nella Commedia: l’indignazione per l’iniquità che domina nella realtà politica del suo tempo, e il doloroso vagheggiamento di un felice passato, che è anche il modello di uno sperato futuro. E aggiunge anche che: Il profondo pessimismo storico che traspare nel poema, fondato su una realtà oggettivamente oscura – la corruzione e la fine di Impero, Chiesa, e comuni, travolti questi ultimi dalle faide di quella che oggi è la partitocrazia –, si solleva sempre infatti nell’aspirazione a una “renovatio” che è infine una speranza escatologica, il cui termine è – come nella Scrittura – il ricupero dell’innocenza e giustizia primigenia. In verità, la nostra malata e conflittuale partitocrazia (sorta nel Secondo Dopoguerra) somiglia molto al potere delle fazioni, dei partiti (guelfi e ghibellini, guelfi bianchi e guelfi neri…) e anche la loro contrapposizione, il loro pensare più al proprio particulare, agli interessi del partito che non a quello pubblico, comune, collettivo appare incredibilmente simile. Se poi pensiamo che in Italia questa contrapposizione è stata resa più aspra dalla presenza sulla scena politica del più grande Partito Comunista (il PCI) dell’Occidente si comprende ancora meglio come la lotta politica sia stata così duramente combattuta fino a giungere a mettere in atto (a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale fin quasi alla fine del Novecento) delitti e stragi al fine di sbarrare la via del potere al partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer e cercare di porre un argine allo sviluppo del movimento operario e sindacale, nonché allo sviluppo del Movimento giovanile di Contestazione, in Italia più forte che altrove. E tutto questo, poi, nel delicato contesto mondiale dei Blocchi contrapposti, della Guerra Fredda tra Usa e Urss, Stati Uniti d’America e Russia sovietica…Quanto sangue, quante stragi, quanta lotta fratricida in nome dell’anticomunismo…

Ma torniamo a Dante e alla scena da Inferno piuttosto che da Purgatorio che vede protagonista Guido-Dante: Dante gli mette in bocca anche le parole di rimpianto della passata classe dirigente e dei grandi valori (come l’amore, la cortesia, la virtù, il valore, l’onestà, la rettitudine) che sembrano ormai scomparsi e perduti per sempre e alla cui ricerca (quasi proustiana) va il nostro Poeta e non perché sia (come qualcuno vorrebbe) un becero conservatore, un laudator temporis acti (espressione coniata da Orazio), uno che loda il tempo andato, passato, perché gli piace, perché è tradizionalista, un esaltatore del passato fine a se stesso. No: Dante rimpiange il passato, il mondo di una volta con tutti i suoi valori e vorrebbe andare alla ricerca del tempo (di quel tempo…) perduto, per il semplice fatto che quello presente non lo entusiasma e per quello futuro non riesce ad intravedere nulla di buono: davanti ai suoi profondi occhi, davanti al suo profondo sguardo non vede che la deriva, l’abisso, la rovina, la catastrofe generale, alla quale soltanto le due istituzioni universali (ora in grave crisi), l’Impero, la Monarchia e il Papato, la Chiesa, in perfetta collaborazione per il bene dell’umanità, potrebbero fare da barriera, da diga e, insomma, da rimedio universale. Anche noi italiani di oggi di fronte alla crisi dei valori e a tempi che appaiono andare come verso il baratro, rimpiangiamo i tempi migliori che pure ci sono stati e, addirittura, abbiamo coniato la frase (attribuita a Mussolini, lui che per gli italiani è stato il peggio…) si stava meglio quando si stava peggio, tanto il peggio di oggi è così insopportabile rispetto a quello di ieri…

Dunque, la scena si apre con l’improvviso e inaspettato suono della voce di Guido che domanda a Rinieri chi sia quella persona che se ne va in giro per il secondo girone del Purgatorio da vivo e apre e chiude gli occhi come gli pare (avrà ascoltato il colloquio tra Dante e Sapìa oppure ha intuito da sé la presenza fisica di Dante in quel luogo). Rinieri replica di non sapere chi sia, sa solo che è insieme ad un altro e chiede a Guido di parlare lui con Dante per appurare chi sia costui che passeggia per il Purgatorio. Dante non dice il suo nome, si mantiene nel vago, dice che il suo nome ancora non è molto conosciuto e accenna all’Arno senza nominarlo; quindi prende a parlare Guido che, tra uno sfogo e un altro, finisce per rivelare la sua identità e quella di Rinieri, da lui esaltato insieme alla vecchia e onesta classe dirigente, a confronto della quale le nuove generazioni, gli eredi, i nuovi signori e signorotti non sono che mezze cartucce, uomini di scarso e anche di nessun valore:

“Chi è costui che ‘l nostro monte cerchia prima che morte li abbia dato il volo, e apre li occhi a sua voglia e coverchia?”.

“Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo; domandal tu che più li t’avvicini, e dolcemente, sì che parli, acco’lo”.

Così due spirti, l’uno a l’altro chini, ragionavan di me ivi a man dritta; poi fer li visi, per dirmi, supini; e disse l’uno: “O anima che fitta nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai, per carità ne consola e ne ditta onde vieni e chi se’; ché tu ne fai tanto maravigliar de la tua grazia, quanto vuol cosa che non fu più mai”.

E io: “Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia. Di sovr’esso rech’io questa persona: dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno, ché ‘l nome mio ancor molto non suona”.

“Se ben lo ‘ntendimento tuo accarno con lo ‘ntelletto”, allora mi rispuose quei che diceva pria, “tu parli d’Arno”.

E l’altro disse lui: “Perché nascose questi il vocabol di quella riviera, pur com’om fa de l’orribili cose?”.

E l’ombra che di ciò domandata era, si sdebitò così: “Non so; ma degno ben è che ‘l nome di tal valle pèra; ché dal principio suo, ov’è sì pregno l’alpestro monte ond’è tronco Peloro, che ‘n pochi luoghi passa oltra quel segno, infin là ‘ve si rende per ristoro di quel che ‘l ciel de la marina asciuga, ond’hanno i fiumi ciò che va con loro, vertù così per nimica si fuga da tutti come biscia, o per sventura del luogo, o per mal uso che li fruga: ond’hanno sì mutata lor natura li abitator de la misera valle, che par che Circe li avesse in pastura. Tra brutti porci, più degni di galle che d’altro cibo fatto in uman uso, dirizza prima il suo povero calle. Botoli trova poi, venendo giuso, ringhiosi più che non chiede lor possa, e da lor disdegnosa torce il muso. Vassi caggendo; e quant’ella più ‘ngrossa, tanto più trova di can farsi lupi la maladetta e sventurata fossa. Discesa poi per più pelaghi cupi, trova le volpi sì piene di froda, che non temono ingegno che le occùpi. Né lascerò di dir perch’altri m’oda; e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta di ciò che vero spirto mi disnoda. Io veggio tuo nepote che diventa cacciator di quei lupi in su la riva del fiero fiume, e tutti li sgomenta. Vende la carne loro essendo viva; poscia li ancide come antica belva; molti di vita e sé di pregio priva. Sanguinoso esce de la trista selva; lasciala tal, che di qui a mille anni ne lo stato primaio non si rinselva”.

Com’a l’annunzio di dogliosi danni si turba il viso di colui ch’ascolta, da qual che parte il periglio l’assanni, così vid’io l’altr’anima, che volta stava a udir, turbarsi e farsi trista, poi ch’ebbe la parola a sé raccolta. Lo dir de l’una e de l’altra la vista mi fer voglioso di saper lor nomi, e dimanda ne fei con prieghi mista; per che lo spirto che di pria parlòmi ricominciò: “Tu vuo’ ch’io mi deduca nel fare a te ciò che tu far non vuo’mi. Ma da che Dio in te vuol che traluca tanto sua grazia, non ti sarò scarso; però sappi ch’io fui Guido del Duca. Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso, che se veduto avesse uom farsi lieto, visto m’avresti di livore sparso. Di mia semente cotal paglia mieto; o gente umana, perché poni ‘l core là ‘v’è mestier di consorte divieto? Questi è Rinier; questi è ‘l pregio e l’onore de la casa da Calboli, ove nullo fatto s’è reda poi del suo valore. E non pur lo suo sangue è fatto brullo, tra ‘l Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno, del ben richesto al vero e al trastullo; ché dentro a questi termini è ripieno di venenosi sterpi, sì che tardi per coltivare omai verrebber meno. Ov’è ‘l buon Lizio e Arrigo Mainardi? Pier Traversaro e Guido di Carpigna? Oh Romagnuoli tornati in bastardi! Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? quando in Faenza un Bernardin di Fosco, verga gentil di picciola gramigna? Non ti maravigliar s’io piango, Tosco, quando rimembro, con Guido da Prata, Ugolin d’Azzo che vivette nosco, Federigo Tignoso e sua brigata, la casa Traversara e li Anastagi (e l’una gente e l’altra è diretata), le donne e ‘ cavalier, li affanni e li agi che ne ‘nvogliava amore e cortesia là dove i cuor son fatti sì malvagi. O Bretinoro, ché non fuggi via, poi che gita se n’è la tua famiglia e molta gente per non esser ria? Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, che di figliar tai conti più s’impiglia. Ben faranno i Pagan, da che ‘l demonio lor sen girà; ma non però che puro già mai rimagna d’essi testimonio. O Ugolin de’ Fantolin, sicuro è ‘l nome tuo, da che più non s’aspetta chi far lo possa, tralignando, scuro. Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta troppo di pianger più che di parlare, sì m’ha nostra ragion la mente stretta”

Dunque: Chi è costui che gira (sale, cammina) intorno al monte (del Purgatorio) prima che la morte gli abbia consentito (concesso) di volare fin qui, e apre e chiude gli occhi a suo piacere (liberamente, mentre noi li abbiamo chiusi)?

Non so chi sia, ma so che non è solo; chiediglielo tu (chi egli sia, visto) che gli sei più vicino, e accoglilo in maniera dolce (cortese, gentile) in modo che (così che) egli parli (sia più disposto a parlare con noi, dice Rinieri al suo vicino e compagno di sventura).

Così due anime, l’una appoggiata (chinata) sull’altra, parlavano di me lì, in quel posto, alla mia destra; poi hanno alzato i loro visi verso l’alto (facendo andare indietro le loro teste, come fanno i ciechi), per parlarmi, e uno (di loro, cioè Guido) ha detto: O anima che confitta (ben chiusa, rinchiusa) nel tuo corpo (cioè, da vivo, in carne ed ossa) te ne vai (cammini, ti dirigi) verso il cielo, per carità (ti chiediamo di) consolarci (confortarci) e di dirci da dove vieni e chi sei; poiché tu ci fai tanto stupire del tuo stato di grazia (per l’eccezionale grazia che hai ricevuto da Dio, cioè per il fatto di essere lì da vivo), come fa stupire (meravigliare) una cosa che non si è mai verificata prima (che non è mai accaduta prima).

E io (ho risposto così): Attraverso la Toscana si distende (scorre) un fiume (l’Arno) che nasce (sorge) presso, dal (monte) Falterona, e non gli bastano cento miglia di corso (infatti, ne ha 120!). Da una località (bagnata da questo fiume) ho portato la mia persona (il mio corpo fin qui): dirvi chi io sia, sarebbe come parlare inutilmente (non avrebbe senso), perché (in quanto) il mio nome ancora non è molto noto (non è ancora molto famoso sulla Terra, ma lo sarà, sembra voler far capire Dante; intanto, ben più famosi, anzi famigerati, sono i Toscani, come si capirà per bocca di GuidoDante…).

Allora, quello che aveva parlato prima ha risposto così: Se ben afferro (accarnare: neologismo dantesco: penetrare coi denti nella carne, come fa un cane; qui: penetrare con i metaforici denti della mente) con la mia intelligenza il tuo discorso (quello che hai voluto dire), tu parli dell’Arno.

E l’altro spirito gli ha detto (a Guido): Perché (costui) ha nascosto (ha omesso) di dire il nome di quel fiume, proprio come fa l’uomo quando parla di cose orribili (terribili e, sottinteso, vuole nascondere qualcosa)?

E l’anima a cui è stata rivolta questa domanda, ha accontentato l’altra replicando così (a GuidoDante non importa quello che non ha chiaramente detto il Poeta: gli basta quel cenno sull’Arno per lanciare la sua terribile, biblica invettiva-j’accuse contro l’intera Toscana una volta così bella e oggi ridotta moralmente a poco o nulla, tanto che potrebbe anche andare in malora): Non lo so; ma è ben giusto che il nome di quella valle (tutto il bacino in cui scorre l’Arno) perisca (si estingua, non se ne abbia più memoria); perché dalla sua sorgente (dell’Arno), dove l’Appennino, dal quale si è staccato il monte Peloro (capo Faro, in Sicilia, che una volta si riteneva essere unita all’Italia), è tanto gonfio (elevato, ingrossato, rigonfio formando il massiccio del Falterona), rispetto al piano su cui si innalza, da superare in pochi luoghi quell’altezza, fino alla foce, (cioè) là dove il fiume si getta nel mare e, quindi, restituisce a compensazione, quelle acque evaporate per il calore del sole (piogge e nevi disciolte, che alimentano i fiumi; insomma, Dante vuol indicare, con questa perifrasi, tutto il corso del fiume dalla sorgente alla foce, da dove nasce a dove sfocia nel mare e, quindi, che la virtù, il vivere secondo i buoni valori, l’onestà, ecc. è cosa che è evitata da tutti i Toscani…), (ebbene) la virtù è evitata da tutti come una nemica, come se fosse una biscia, una serpe, (e ciò avviene) o per mala (cattiva) sorte di quel luogo (come fosse una terra disgraziata per un cattivo influsso degli astri) o per un’abitudine malvagia (cattiva) che li incalza (spinge) al male (insomma: c’è come una sorta di maledizione sulla Toscana); per cui gli abitanti della miserabile (sventurata) valle (dell’Arno) hanno talmente mutato (cambiato) la loro natura (la mutazione antropologica, direbbe Pasolini…), che sembra che (la maga) Circe (che aveva trasformato i compagni di Ulisse in porci, con le sue pozioni e i suoi filtri magici) li abbia con sé (sotto il suo potere, che li governi, li nutra e li alimenti lei con i suoi cibi magici). (E qui inizia il bestiario toscano, con ironia e anzi sarcasmo davvero pesante, spietato…): Tra brutti (sudici, schifosi) porci (cioè tra gli abitanti del Casentino: lussuriosi), più degni di mangiare ghiande che altro cibo fatto per uso umano, (l’Arno) volge (indirizza) subito il suo cammino (il suo corso) povero (scarso) di acque. Scendendo giù (a valle), trova poi botoli (piccoli cani: gli Aretini) più ringhiosi di quanto non comporti (non consenta) la loro effettiva potenza (sono dei piccoli presuntuosi e arroganti…), e (la valle dell’Arno) con (grande) sdegno compie una curva (come torcendo il muso…) verso nord-ovest, verso ponente (cambiando direzione: non vuol toccare quella citta!…). (Intanto) prosegue, (continua) il suo corso in discesa (verso il mare); e quant’essa più grossa (ampia) diventa tanto più trova (sulla sua via) i cani mutarsi (trasformarsi) in lupi (feroci, cioè i Fiorentini, famosi per la loro avarizia, per la loro cupidigia di ricchezze, da ottenere anche con la violenza e le ruberie) questa maledetta (da Dio…) e sventurata (misera, disgraziata) valle. Discesa poi per strette e profonde gole (gorghi, strettoie) dalle acque molto oscure, trova le volpi così piene di frode (i Pisani, la cui astuzia, malizia e fraudolenza erano proverbiali), tanto che non temono di essere catturate (prese in inganno) da nessun congegno (meccanismo ingegnoso messo in atto, come trappole e simili). Né smetterò di parlare per il fatto che altri (qualcuno: Rinieri) mi ascolti (per il fatto che nella sua visione, nella sua profezia parlerà male del sanguinario nipote podestà di Firenze); e sarà utile (sarà bene per costui, per Dante che è vivo e potrà riferirne sulla Terra), se in futuro si ricorderà (se avrà memoria, se terrà a mente: ammentarsi: neologismo dantesco) quello che lo spirito della verità (un’ispirazione alla verità, che gli viene da Dio) mi spinge (induce) a rivelare (disnodare: altro neologismo dantesco: sciogliere i nodi, liberare, far uscire un pensiero e, quindi rivelare).

Qui segue la triste e sanguinosa profezia su Fulcieri da Calboli, nipote di Rinieri e sulla sciagurata Firenze. Fulcieri da Calboli, più volte podestà a Milano, Parma, Modena, poi a Firenze nel 1303, infine capitano del popolo a Bologna nel 1309; aveva fama di essere un violento e sanguinario uomo politico, facile a far tagliare le teste, anche dopo aver preso denaro dai familiari della vittima e capace anche di compiere delle stragi; uomo politico spregiudicato, corrotto e assetato di potere e di ricchezze; insomma, una belva umana, un uomo di grande cinismo, di straordinaria ferocia e bestialità, capace anche di fare strage di uomini, che non fece che fomentare le divisioni, le lacerazioni e gli odi di parte destinati a prolungarsi nel tempo con tutte le consenguenze del caso, come scriveva Dino Compagni nella sua Cronica.

Dunque (rivolto verso Rinieri): Io vedo tuo nipote che si fa (che diventa) cacciatore (persecutore) di quei lupi (i Fiorentini di parte Bianca, contro i quali attuò le vendette dei Neri, in cambio di potere e denaro ) sulla riva del feroce fiume, e li terrorizza tutti; vende la loro carne (i loro corpi) quando ancora sono vivi, poi, come una belva antica, li fa uccidere; così toglie a tanti la vita e a se stesso l’onore (perché avrà per sempre il marchio dell’infamia impresso sul suo nome). (Poi) grondante di sangue (sporco di sangue) esce dalla malvagia selva (Firenze); (e, finito il suo sanguinoso mandato politico), la lascia così (in questo stato di desolazione, di devastazione, spopolata e dolente), che neppure tra mille anni ritornerà come una volta (nella condizione di prima, nel primitivo stato di floridezza. Rinselvarsi: neologismo dantesco: di un bosco, rivestirsi di alberi; quindi, fuor di metafora, vuol dire che ci vorranno più di mille anni affinchè Firenze possa ritornare come quella di una volta, nell’antica floridezza, ecc. perché le persecuzioni e le bestialità compiute da Fulcieri avevano reso impossibile ogni rappacificazione tra Bianchi e Neri e i danni irreparabili e di lunga durata, sia per la città che per i suoi abitanti).

Dopo tutto questo triste racconto, dopo tutta questa sconvolgente profezia in stile piuttosto comico, da Inferno, segue una similitudine, di quelle, come al solito, molto azzeccate e calzanti: Come di fronte all’annuncio di danni dolorosi (di dolorose sventure), il viso (il volto) di chi ascolta si turba, da qualunque parte il pericolo lo minacci, così (allo stesso modo) io ho visto l’altra anima (quella di Rinieri), che stava attenta ad ascoltare, turbarsi e farsi triste (rattristarsi) dopo aver ben compreso dentro di sé (il significato del)le parole (pronunciate da Guido, la sua profezia). Le parole dell’una e l’aspetto dell’altra (anima) mi hanno reso desideroso di conoscere i loro nomi, e (così) glieli ho chiesti insieme alla preghiera (che la mia richiesta venisse esaudita); per cui lo spirito che prima mi aveva parlato ha (così) ricominciato (a dire): Tu vuoi che io sia indotto (che acconsenti) a dirti (rivelarti) ciò che tu non vuoi fare (rivelare) a me. (Sottinteso: Non dovrei) ma dal momento che Dio vuole che su te brilli (risplenda, si rifletta) tanto (in così grande misura) la Sua Grazia, non sarò avaro (di gentilezza, cioè non mi rifiuterò di darti notizie, ti accontenterò); perciò sappi che io fui Guido del Duca. (A questo punto, Guido passa all’autocritica sul suo peccato e, con un’apostrofe tipicamente dantesca, vuota il sacco sulla follia umana e sulla vanità dell’invidia e dei beni terreni nel mondo, dove) il mio sangue è stato così ardente d’invidia (bruciato, infiammato dall’invidia) che se avessi visto un uomo diventare lieto (felice) mi avresti visto pieno di livore (cosparso del colore del lividore proprio degli invidiosi e, quindi, come bruciato, consumato dall’invidia). Di quel che ho seminato adesso raccolgo questa paglia (cioè: adesso raccolgo quello che ho seminato e, quindi, pago qui per quel peccato, quella colpa che ho avuto in vita): o uomini (umana gente), perché concentrate il cuore (l’animo, il desiderio) sulle cose (terrene, sui beni materiali) che non possono essere (con)divisi con gli altri (cioè su quei beni che può possedere uno solo e agli altri è impedito, vietato di possedere)? (Gli altri in genere o anche della propria famiglia. Consorti: secondo il diritto, ogni cosa posseduta limita il diritto di altri, fa divieto, a componenti della stessa famiglia a parteciparne: i beni di uno non possono essere allo stesso tempo di un altro; invece, i beni spirituali, ultraterreni possono essere condivisi: come dire che la condivisione non è di questo mondo, cioè di quello terreno… Fa notare bene lo Steiner che…all’invidioso…il bene altrui pare sottratto a lui e che chi ama dunque troppo i beni terreni è portato a guardar con sospetto e con astio il suo simile e, pure bene il Sapegno, che l’invidia, che è un aspetto della cupidigia esclusiva dei beni terreni, è una delle principali cause della corruzione degli ordini politici e del costume. Sulla frase di Guido, Dante ritornerà nel canto-capitolo XV: vuole che il suo alter ego Virgilio gliela spieghi meglio, ovvero che la spieghi meglio a noi per farci ulteriormente riflettere su questo male che ne tira altri e procura grandi guasti nella società come nel mondo intero).

(Guido presenta poi Rinieri, uomo buono, retto e cortese, uomo, insomma, di altri tempi, ma non così tutti i suoi parenti e affini, che non onorano certo il buon nome dei Calboli): Questi è Rinieri; questi è colui che rappresenta il vanto e l’onore della casata dei Calboli, in cui nessuno (dei discendenti), dopo di lui, si è fatto erede della sua virtù (del suo valore).

(Ma quella della virtù e dei grandi valori per il ben operare di una classe dirigente, non è problema che riguarda soltanto la casata dei Calboli, magari!… È un problema che tocca un po’ tutte le casate, le grandi famiglie che governano la Romagna. E, così, dopo gli strali e le stoccate contro la Toscana, adesso tocca alla Romagna e ai suoi Signori, alle sue classi dirigenti passati in impietosa rassegna, secondo il modello del sirventese…): E non solamente il suo sangue (la sua famiglia) è diventata, tra il Po, l’Appennino, l’Adriatico e il fiume Reno (cioè in Romagna), spoglia (priva) di quelle virtù (morali e intellettuali) necessarie per il ben operare e anche per un equilibrato (divertimento) piacere della vita basato sui bei costumi, la cortesia e le arti gentili (insomma: che sono utili sia per la vita civile che per quella mondana, legata alla tradizione cavalleresca); perché in tutto questo spazio (territorio appena descritto, dentro questi confini della Romagna), vi è una così grande quantità di sterpi velenosi (le tante famiglie che hanno deviato dalle antiche virtù dei padri), che per quanto si volesse coltivare (e bonificare il terreno) si impiegherebbe troppo tempo per estirparli (per eliminare la gramigna delle degenerazioni delle classi dirigenti).

(Infatti:) dove sono il buon Livio (Signore di Valbona, guelfo e gran cavaliere, persona molto per bene, generosa e di ottimi costumi) e Arrigo Mainardi? (di Bertinoro, grande amico di Guido del Duca e anch’egli uomo saggio e liberale). Pier Traversaro (della nobile famiglia ravennate dei Traversari, ghibellino e Signore di Ravenna dal 1212 al 1225, anno della sua morte) e  Guido di Carpigna? (conte di Carpegna, nel Montefeltro; fu di parte guelfa; morì nel 1283). O Romagnoli diventati (trasformati in) bastardi! (imbastarditi, degenerati, irriconoscibili sia civilmente che moralmente, indegni dei vostri padri e delle vostre nobili origini  e, quindi, tali da sembrare figli illegittimi). Quando nascerà di nuovo (o rinascerà) a Bologna un (uomo come) Fabbro? (dei Lambertazzi, capo dei ghibellini romagnoli intorno alla metà del 1200; uomo politico molto avveduto e valoroso in guerra; aveva reso Bologna la principale città della Romagna; morì nel 1259), (e) quando in Faenza un uomo come Bernardin di Fosco (di umili origini poi, però, diventato personaggio importante; nel 1240 aveva difeso Faenza contro Federico II ed era stato podestà di Pisa e di Siena), nobile rampollo (virgulto, esponente) nato da modesta famiglia? (Picciola gramigna, che è un’erba molto comune e vile: dalle origini modeste). (O) toscano, non meravigliarti se io piango (piange e rimpiange, perché prova una struggente nostalgia per un mondo e per una civiltà ormai perduti) quando ricordo (insieme) con Guido da Prata (nobile di Prata, presso Faenza), Ugolin d’Azzo (della nobile famiglia degli Ubaldini di Toscana) che (però) ha vissuto nel nostro paese (la Romagna), Federigo Tignoso (riminese, dai bei capelli biondi, sempre in buona compagnia e generoso con i buoni e gli onesti) e la sua compagnia (il gruppo di amici, le casate entrambe di Ravenna) dei Traversara e quella degli Anastagi (e sia l’una che l’altra famiglia sono ormai estinte), le donne e i cavalieri (l’armi e gli amori, proseguirà un po’ più in là Ludovico Ariosto, all’inizio del suo Orlando Furioso), gli affanni (la stanchezza dovuta alle dure imprese belliche) e gli agi (le comodità, il giusto e lieto riposo, le liete occupazioni, in tempi di pace) presso le corti, ai quali ci invogliavano (ci inducevano due grandi valori-sentimenti forti come) l’amore e la cortesia, là dove (in Romagna) adesso i cuori (gli animi) sono diventati così malvagi.

(Segue invettiva con ironia su Bertinoro, castello tra Forlì e Cesena, i cui Signori rivaleggiavano in cortesia, tanto erano cortesi): O Bertinoro, perché non scompari dalla faccia della Terra, poiché (visto che) la tua famiglia si è estinta insieme a tanta altra nobile gente per non essere (per evitare di essere) malvagia (corrotta, colpevole; per non farsi corrompere)? Fa bene (la famiglia dei Malvicini, conti di) Bagnocavallo (cittadina tra Lugo e Ravenna) che non mette al mondo figli maschi (per continuare la casata); invece fanno male (i conti di) Castrocaro, e ancor di più quelli di Conio, che si affannano (si danno pena, si ostinano a figliare: come le bestie…) a mettere al mondo (a generare) tali discendenti (degeneri, corrotti). Bene faranno i Pagani (Signori di Faenza, a non figliare), poiché (dato che) il loro demonio morirà (il capo della famiglia, cioè quel Maghinardo Pagani di Susinana, grande voltagabbana della politica, che si è già visto nel XXVII dell’Inferno, e che morì nel 1302, senza lasciare eredi maschi); ma non riusciranno tuttavia (anche se non lasciano eredi) a lasciare di essi un buon ricordo (una buona fama, tanto sono stati negativi…). O Ugolino dei Fantolini (di Faenza, signore di vari castelli nelle valli del Lemone e del Senio, che ebbe due figli maschi che non lasciarono eredi per la continuità della casata, e per questo…), il tuo nome è sicuro (dal disonore), dal momento che non c’è più chi possa farlo (cioè, con un discendente che), degenerando (tralignando) lo oscuri (lo possa oscurare, il buon nome).

Ma Guido, che piange per l’amaro destino della Toscana e della Romagna, che è poi l’amaro destino del mondo intero in piena mutazione antropologica, con crisi di leadership, senza più una guida sicura con sicuri valori, Guido non ce la fa più ad andare avanti nella sua accorata denuncia della malattia morale e mortale che ha colpito le classi dirigenti del suo tempo – noi, oggi, lamentiamo la crisi di leadership, la crisi dei valori e la crisi dell’etica in politica sia in Italia che in Europa – e così, come un po’ bruscamente, improvvisamente si era presentato sulla scena della seconda cornice, adesso alquanto bruscamente, e anche inaspettatamente, invita l’innominato Dante, il tosco, ad andarsene, a proseguire nel suo viaggio verso la salvezza, perché lui non ce la fa più a reggere il suo discorso sulla povera patria (direbbero Pasolini e Battiato), tanto si sente angosciato, triste e interiormente oppresso): Ma, ormai, va via (vattene, o) Toscano; che adesso (preferisco di più) ho un forte desiderio di piangere più che di parlare, tanto il nostro discorso (colloquio) mi ha angustiato (oppresso l’animo, rattristato e amareggiato)…

Così, i due Poeti riprendono il cammino allontanandosi dalle care anime romagnole (che Dante avverte fraterne, vicine, simili nella visione sui mali della Toscana e della Romagna, che erano, poi, dell’Italia e del mondo). Ad un tratto (cambio di scena!) sentono delle voci invisibili che si manifestano con la velocità del fulmine, che aleggiano e sorvolano nell’atmosfera della seconda cornice, e che sono esempi di invidia punita. I casi esemplari sono uno di stampo biblico (Caino, il primo caso di invidia punita nella storia dell’umanità: dopo aver ucciso Abele, Dio lo punì facendolo sentire ovunque braccato per essere ucciso) e l’altro di stampo mitologico (Aglauro: figlia del re di Atene; invidiosa dell’amore di Mercurio per la sorella Erse, volle impedire al dio di entrare nella stanza di lei, e così Mercurio la trasformò in una pietra).

I due emblematici esempi sono messi a bella posta lì nella chiusura del canto-capitolo per far dire a VirgilioDante parole accorate sulla inutilità di tanta cattiveria e invidia che genera odio, vendette e ingiustizie sulla Terra a fronte della Bellezza e Bontà delle cose eterne, celesti, spirituali create da Dio e che costituiscono una ben diversa dimensione, un’alternativa alla Bruttezza e al Male che regnano nel mondo. Ma l’uomo guarda e mira ad altro, il suo sguardo, i suoi occhi sono rivolti inesorabilmente alle cose, ai beni terreni, e per questo, poi, Colui che tutto vede e discerne, li punisce: Noi sapavam che quell’anime care ci sentivano andar; però, tacendo, facëan noi del cammin confidare. Poi fummo fatti soli procedendo, folgore parve quando l’aere fende, voce che giunse di contra dicendo: ‘Anciderammi qualunque m’apprende’; e fuggì come tuon che si dilegua, se sùbito la nuvola scoscende. Come da lei l’udir nostro ebbe triegua, ed ecco l’altra con sì gran fracasso, che somigliò tonar che tosto segua: “Io sono Aglauro che divenni sasso”; e allor, per ristrignermi al poeta, in destro feci, e non innanzi, il passo.

Già era l’aura d’ogne parte queta; ed el mi disse: “Quel fu ‘l duro camo che dovria l’uom tener dentro a sua meta. Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo de l’antico avversaro a sé vi tira; e però poco val freno o richiamo. Chiamavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira, mostrandovi le sue bellezze etterne, e l’occhio vostro pur a terra mira; onde vi batte chi tutto discerne”

Noi sapevamo che quelle anime care (buone; care: vuole esprimere un sentimento di affetto e di amicizia) ci sentivano camminare (allontanarci da loro); perciò (dal momento che, proprio perché) tacevano, ci rendevano sicuri di (pro)seguire (per) la giusta strada. Dopo che procedendo (camminando) ci siamo ritrovati soli, (ad un tratto, veloce) come una folgore (un fulmine, un lampo) che fende (taglia) con violenza l’aria, è apparsa una voce di contro a noi (opposta a noi) dicendo (che diceva, gridava): Mi ucciderà chiunque mi troverà; ed è fuggito (si è allontanato) come fugge (si dilegua) un lampo, quando d’un tratto (improvvisamente) squarcia la nuvola. Non appena noi non abbiamo più sentito quella voce, ecco che un’altra con grande fracasso (frastuono) da sembrare simile a un tuono che scoppia subito dopo un altro (ha detto): Io sono Aglauro, colei che è diventata una pietra (un sasso); e così (e allora) per avvicinarmi di più a Virgilio (Dante ha paura), ho fatto un passo indietro (sulla destra, dove era lui), invece di farlo in avanti.

Già l’aria si era tutta calmata (fatta quieta, rasserenata); e Virgilio mi ha detto: Quelle voci che hai sentito (udito) sono (rappresentano, simboleggiano) il duro freno che dovrebbe mantenere l’uomo dentro i limiti (imposti, fissati da Dio, impedendogli di provare feroce invidia del bene e dei beni altrui). Ma voi (uomini) vi lasciate attrarre (sedurre, adescare dalle tentazioni e dal Male), tanto che l’amo del diavolo (di Satana, del Demonio: l’antico avversaro) vi tira a sé (cioè: tanto che cadete nella sua trappola, abboccate); e perciò a poco vale ogni freno (ogni esempio di peccato punito) e ogni richiamo (ogni esempio di virtù premiata). Il Cielo vi chiama (vi invita) e (sembra) girare intorno a voi per mostrarvi le sue eterne bellezze, ma il vostro sguardo è rivolto (sempre e) soltanto ai beni terreni (siete sordi, indifferenti a quelli celesti, spirituali); perciò (per questo) Colui che tutto vede (Dio, che è onniveggente, che sa tutto e sa giudicare, poi) vi punisce (castiga)

Commenta bene la Chiavacci Leonardi sulla chiusura malinconica di questo canto, in cui l’utopista Dante appare come decisamente pessimista e senza alcuna speranza su quel legno storto che è l’uomo: La mestizia di questa sequenza finale, oltre a raccogliere ed elevare il tema della perversità umana che percorre tutto il canto, si accorda con il tono di altri interventi ammonitori e profetici dissemnati via via per la cantica, più spesso affidati alla voce fuori campo del poeta stesso, talvolta, come qui, a quella di Virgilio […]. E ha scritto pure bene il Sapegno nel far notare che quella che abbiamo letto è una delle pagine di più feroce polemica di tutto il poema e una di quelle in cui meglio si riflette la cruda diagnosi dantesca dei vizi e dei disordini dell’ordinamento comunale  e che nella risposta di Guido a un Dante che definisce volutamente l’Arno (che abbraccia quasi tutta la Toscana) un fiumicel, è tutta un’amara e cupa considerazione della corrotta realtà sociale, dove la polemica nasce da un profondo accoramento e si risolve in lacrime, che sono, poi, le lacrime di Dante, così profondamente toccato da vicende che riguardano la sua biografia di pellegrino, di esule. E proprio da questo accostarsi violento e tormentato ai temi di un’esperienza reale e personalmente sofferta, onde raffiorano le note più dolenti e acri del sentimento e della polemica dantesca, prenderà maggior rilievo e un respiro più ampio e solenne l’anelito alla liberazione e alla pace. […]

Intanto, noi umili lettori, abbiamo già dimenticato che Guido e Rinieri uomini di valore, uomini di altri tempi stanno espiando la loro pena nel secondo girone degli invidiosi, tra i peggiori peccatori e pensiamo a quanta amarezza ci dovesse essere nel cuore di Dante che da tutta quella storia a lui contemporanea era segnato: non poteva non riflettere, ogni giorno del suo esilio, a quello che uomini malvagi avevano ingiustamente deciso sul suo destino e anche su quello della sua famiglia, dei suoi figli: non poteva dimenticare il passato, anche perché era un passato che non passava mai. Del resto: Dimenticare sofferenze passate significa dimenticare le forze che le provocarono, senza sconfiggerle. Le ferite che guariscono col passare del tempo sono anche ferite, che contengono il veleno. Contro questo fatto di arrendersi al tempo, il restaurare i diritti del ricordo, quale veicolo di liberazione, è uno dei compiti più nobili del pensiero. Così ha lasciato scritto il grande Herbert Marcuse in Eros e civiltà e le sue parole ci sembrano quelle tra le più appropriate e azzeccate per riferirle al caso di Dante e alla sua particolare esperienza di vita, alla sua particolare vicenda umana. Siamo sicuri che lui le avrebbe sottoscritte.