Trebisacce-20/01/2024: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del terzo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022.  Protagonista è Manfredi, figlio del grande Federico II di Svevia che, secondo Dante, era stato l’ultimo grande Imperatore di stampo Romano.

 

La-Moglie
Manfredi di Svevia-

La battaglia-benevento

Incoronazione di Manfredi
Canto-3-Purgatorio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del terzo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022.  Protagonista è Manfredi, figlio del grande Federico II di Svevia che, secondo Dante, era stato l’ultimo grande Imperatore di stampo Romano.

 

Il canto-capitolo III ovvero il canto di Manfredi e dell’immensa misericordia divina dei suoi orribili peccati (da Dio perdonati, esempio, appunto, estremo di questa misericordia e della possibilità di salvezza per l’uomo), ma anche il canto della dichiarazione dei limiti della Ragione. Spiaggia dell’Antipurgatorio. Prima schiera di anime negligenti e di scomunicati che si pentirono, si convertirono in extremis, in punto di morte (erano stati scomunicati in contumacia, cioè erano fuori della comunione con la Santa Chiesa e, per superba disobbedienza, per non piegarsi, non avevano cercato di riparare). Il contrappasso è per analogia: come in vita hanno tardato a pentirsi così, adesso, ritarderanno il tempo della purificazione e (per contrasto), siccome, si sono ribellati alla Chiesa con superbia, sono costretti a procedere lenti e mansueti. Pertanto, la loro pena consiste nel rimanere ai piedi del monte, cioè sulla spiaggia dell’Antipurgatorio, trenta volte il tempo vissuto nella scomunica (salvo che venga fatto uno sconto di pena in seguito alle preghiere dei vivi per le loro anime). Virgilio (la Ragione) spiega a Dante l’insufficienza e i limiti della filosofia, della ragione umana di fronte a certi arcani della vita e soprattutto di fronte ai misteri della Divina Provvidenza e ai suoi disegni per l’umanità, per cui occorre stare contenti al quia. Il canto-capitolo si chiude con il racconto di un sereno e sorridente Manfredi e l’esaltazione dell’immenso Amore, dell’immensa Misericordia di Dio. Manfredi, grande peccatore, offre a Dante, inviato speciale di Dio, uno scoop giornalistico: fai sapere al mondo che io non sono dannato all’Inferno, ma sono in Purgatorio e destinato da Dio alla  salvezza! Gli dice di essere stato vittima di un’ingiustizia operata dagli uomini di chiesa ma, Dio, che ha accolto il suo sincero pentimento, lo ha perdonato. Dante lo vuole riabilitare per l’eternità: egli rappresenta pur sempre l’Impero e l’ideale imperiale del Poeta e, quindi, Manfredi non poteva non essere assolto e destinato alla salvezza. Del resto, di Federico II e di Manfredi aveva parlato benissimo nel De vulgari eloquentia, elogiandone nobiltà d’animo e rettitudine. Il caso Manfredi serve a Dante come occasione per polemizzare, ancora una volta, seppur attraverso il racconto pacato del protagonista, contro una Chiesa e uomini di chiesa tanto politicizzati e politicamente potenti da usare male il loro enorme potere temporale e spirituale allo stesso tempo: la scomunica come comoda e anche estrema arma di lotta politica, di braccio di ferro tra Papato e Impero. E c’è anche l’accusa all’arcivescovo di Cosenza di aver reso offesa ai resti di Manfredi, dietro ordine di papa Clemente IV, grande alleato di Carlo d’Angiò contro il sovrano svevo. Ma a fronte di una Chiesa così politicizzata, corrotta e degenerata, per fortuna, c’è Dio e la sua Giustizia, la sua infinità bontà e misericordia con le quali ripara ai torti, ai soprusi, alle ingiustizie e alle violenze dei papi, dei cardinali, dei vescovi e anche di ogni altro che li commette. Anche questa volta, il Tribunale Morale della Letteratura si assume il compito di stabilire la verità e di farla trionfare. (Tutto si svolge alle 6 e mezza del 10 aprile del 1300).

 Sono le 6.30 del 10 aprile del 1300. È la domenica di Pasqua. Siamo ancora sulla spiaggia dell’Antipurgatorio. Le anime lì presenti, dopo il forte richiamo di Catone, si sono disperse e anche i due Poeti si sono allontanati e sul volto dell’onesto Virgilio, alta coscienza morale, limpida lingua e limpida ragione (direbbe Pasolini), si può leggere il segno del rimorso e della vergogna provata per quel rimprovero severo uscito, improvvisamente, dalla bocca di Catone. Dante, questo segno, lo sa leggere e lo esalta come indice di grandezza di coscienza: quando un uomo è di così alta levatura morale, di così alta coscienza, ebbene, anche quando commette un piccolissimo fallo, si sente in colpa, prova vergogna, sente il morso della coscienza. Ma, contemporaneamente alla lettura del volto onesto del maestro, Dante (dopo il fuggi-fuggi delle anime) riconferma la sua grande ed estrema fiducia in Virgilio, cioè nella sua fidata guida, cioè nella Ragione umana, alla quale l’uomo deve affidarsi senza avere la superbia, la presunzione che essa possa conoscere ogni cosa, anche i misteri divini e, invece, nella consapevolezza che, per quanto concerne l’imperscrutabile disegno della divina Provvidenza, le verità della Fede, le verità rivelate, essa è insufficiente, ha i suoi limiti e, per questo, occorre l’ausilio della Fede, della Teologia e, insomma, il soccorso della Grazia divina. Intanto, Virgilio mostra di rimpiangere la vita terrena e di provare rammarico per l’impossibilità della felicità eterna, che gli è negata e, dunque, vediamo come Dante ci introduce al terzo canto-capitolo e come il maestro spiega al discepolo i limiti della ragione e della filosofia, che l’uomo deve accettare se non vuole smarrirsi e se vuole procedere sulla via della felicità e della salvezza dell’anima: Avvegna che la subitana fuga dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga, i’ mi ristrinsi a la fida compagna: e come sare’ io sanza lui corso? chi m’avria tratto su per la montagna? El mi parea da sé stesso rimorso: o dignitosa coscïenza e netta, come t’è picciol fallo amaro morso! Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l’onestade ad ogn’atto dismaga, la mente mia, che prima era ristretta, lo ‘ntento rallargò, sì come vaga, e diedi ‘l viso mio incontr’al poggio che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga. Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, rotto m’era dinanzi a la figura, ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio. Io mi volsi dallato con paura d’essere abbandonato, quand’io vidi solo dinanzi a me la terra oscura; e ‘l mio conforto: “Perché pur  diffidi?”, a dir mi cominciò tutto rivolto; “non credi tu me teco e ch’io ti guidi? Vespero è già colà dov’ è sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra; Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto. Ora, se innanzi a me nulla s’aombra, non ti maravigliar più che d’i cieli che l’uno a l’altro raggio non ingombra. A sofferir tormenti, caldi e geli simili corpi la Virtù dispone che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli. Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria; e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto: io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’altri”; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato. Noi divenimmo intanto a piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, che ‘ndarno  vi sarien le gambe pronte. Tra Lerice e Turbìa la più diserta, la più rotta ruina è una scala, verso di quella, agevole e aperta. “Or chi sa da qual man la costa cala”, disse ‘l maestro mio fermando ‘l passo, “sì che possa salir chi va sanz’ala?”. E mentre ch’e’ tenendo ‘l viso basso essaminava del cammin la mente, e io mirava suso intorno al sasso, da man sinistra m’apparì una gente d’anime, che movìeno i piè ver’ noi, e non pareva, sì venïan lente: Sebbene (nonostante) l’improvvisa fuga abbia fatto disperdere (sparpagliare) quelle anime per la campagna verso il (in direzione del) monte del Purgatorio, dove la giustizia di Dio ci stimola al bene (attraverso le pene purificatrici), io mi sono avvicinato (accostato) di più al mio fidato (fedele) compagno di viaggio (cioè a Virgilio): e come avrei potuto percorrere (quei luoghi dell’Oltremondo) senza il suo aiuto? Chi mi avrebbe potuto condurre su quella montagna (del Purgatorio)?

Mi è sembrato che egli sentisse il rimorso della coscienza da se stesso (per aver indugiato anche lui nel sentire il dolce canto di Casella): o coscienza limpida (pulita) e piena di dignità, come anche un piccolo errore finisce per costituire per te un grave rimorso! (Dante conferma la sua grande ammirazione per Virgilio). Quando i suoi passi hanno abbandonato la fretta che toglie (fa diminuire) il decoro ad ogni nostro movimento, la mia mente, che poco prima era diretta verso il solo pensiero (di quanto era accaduto), si è aperta ad accoglierne altri, piena di desiderio di cose nuove, e ho alzato gli occhi verso il monte che dalle acque (si dislaga: neologismo dantesco che, alla lettera vuol dire: esce dal lago, si solleva dal lago) si eleva verso il cielo più alto (di tutti).

Il sole, che alle nostre spalle risplendeva rosso (e non era ancora alto), proiettava i suoi raggi interrotti davanti alla mia figura, in quanto essi hanno trovato in me un ostacolo (la persona di Dante fermava i raggi del sole). Quando ho visto l’ombra soltanto davanti a me, mi sono voltato da una parte in quanto preso dalla paura di essere stato abbandonato (da Virgilio-Ragione); e Virgilio, che è il mio conforto (e che ha ben compreso la paura di Dante), rivolgendosi a me con tutto se stesso (con tutta la sua persona) ha cominciato a dirmi: Perché continui a diffidare? (Oppure: Perché ancora dubiti?) Non credi che io sono con te e che sono la tua guida? Là dove (nel luogo dove) è sepolto il corpo dentro il quale (in cui) è racchiusa la mia anima, è l’ora del tramonto: Napoli lo custodisce (il suo corpo), dopo che è stato trasportato da Brindisi. Adesso, se davanti a me non si forma  nessuna ombra, non devi meravigliarti più di quanto non ti deve meravigliare il fatto che i cieli non ostacolano, reciprocamente, il passaggio dei raggi luminosi, solari. La Virtù (la potenza) di Dio dispone (rende) adatti tali corpi a soffrire il caldo, il freddo e gli altri tormenti, ma non consente che sia rivelato a noi il modo del Suo operare (Dio è imperscrutabile). È folle (stolto, irrazionale) chi spera che il nostro intelletto (la ragione umana) possa comprendere (i procedimenti, la modalità) la via infinita (incommensurabile e inconmprensibile, perché concerne la dimensione trascendente di Dio), per cui una sostanza (essenza, cioè Dio) può essere una e trina (cioè il mistero della Trinità, che è il mistero dei misteri: Padre, Figlio e Spirito Santo). Accontentavi, o uomini (gente umana), di sapere che le cose sono come sono (e non come si generano, producono, cioè cercare a tutti i costi di andare al fondo delle cose, di voler sapere il come e il perché di tutto ciò che solo Dio conosce e può spiegare), poiché se aveste potuto comprendere tutto, non sarebbe stato necessario che Maria partorisse (desse alla luce Cristo il Rivelatore); e vanamente (senza alcun risultato) avete visto desiderare di conoscere l’essenza (il perchè delle cose), uomini tali che, per la loro intelligenza, avrebbero potuto soddisfare il loro desiderio di sapienza, il quale, invece, è dato loro affinchè ne abbiano motivo di dolore (di sofferenza, di pena) per l’eternità (lui stesso, Virgilio, e gli altri spiriti magni del Limbo hanno come eterna condizione spirituale il desiderio come pena, cioè l’impossibilità di conoscere e di vedere Dio, il desiderio impossibile di Dio); mi riferisco ad Aristotele e a Platone e a molti altri (antichi sapienti).

E, a questo punto, ha abbassato (chinato) la testa, e non ha detto altro, ed è rimasto turbato. (Riflettendo ancora su quello che aveva appena affermato: cioè aver riconosciuto i limiti della Ragione, che è sì segno di umiltà di fronte a Dio ma è pur sempre una dichiarazione di sconfitta).

Intanto, siamo arrivati ai piedi della montagna: qui abbiamo trovato il pendio, la parete della montagna così ripida che invano le gambe avrebbero provato a salirla. Tra Lerici (nel Golfo di La Spezia) e Turbia (nel territorio di Nizza) si trovano rovine solitarie delle quali la più inaccessibile si presenta, a confronto di quella parete, come una scala comoda e larga. Virgilio, fermandosi, ha detto: Adesso chissà da quale parte la costa (la parete) del monte diventa meno ripida, in modo che vi possa salire chi non è munito (fornito) di ali? (Oppure: chi non ha la possibilità di volare?).

(Mentre Virgilio, con testa bassa, medita e riflette sul possibile cammino da seguire, e mentre Dante guarda verso la parte alta del monte, ecco che, sulla sinistra, appare un gruppo di anime che avanzano lentamente, tanto lentamente che sembrano non muovere i piedi): E mentre egli, tenendo gli occhi abbassati in atteggiamento riflessivo, interrogava la propria mente su come meglio salire il monte, e mentre io guardavo verso l’alto intorno alla roccia (per vedere se c’era un passaggio facile, ecco che) dalla parte sinistra ho visto apparire una schiera (un gruppo) di anime, che procedevano con i piedi verso di noi, ma sembrava che non li muovessero (che stessero ferme), tanto si avvicinavano lentamente.

A questo punto, la finzione letteraria della schiera di anime che avanza con incredibile lentezza (la pigrizia dei negligenti a procedere verso la purgazione), serve a Dante per introdurre il personaggio principale del canto-capitolo ed esaltarne la figura (l’aveva già esaltata nel De vulgari eloquentia), nonostante orribili siano stati i suoi delitti: Manfredi, figlio naturale di Federico II di Svevia, della casata degli Hohenstaufen, re di Sicilia, morto eroicamente con colpi di arma da taglio nella battaglia di Benevento, il 26 febbraio del 1266, dove a vincere fu il francese Carlo d’Angiò, appoggiato dal papa Urbano IV (che, dopo Innocenzo IV e Alessandro IV, anche lui scomunicò). Non si dimentichi che Manfredi simboleggia il ghibellinismo e, quindi, la figura dell’Imperatore molto cara a Dante per quanto concerne la sua teoria e dottrina politica elaborata nella Monarchia e confermata anche nella Commedia più volte. Il racconto che Dante fa degli ultimi momenti di Manfredi è alquanto da romanzo, appunto, e serve anche per introdurre la polemica con la Chiesa e il papa di allora (Clemente IV) che non si attenne ai dettami divini e ordinò (da papa politico più che spirituale) all’arcivescovo di Cosenza (il cardinale Bartolomeo Pignatelli) di disseppellire Manfredi e abbandonarne i resti sulla terra, esposti alla pioggia, al vento e a tutto il resto. Dante ne ammirava il valore, l’eroismo oltre che la cultura. Aveva tradotto dall’ebraico il Liber de pomo sive de morte Aristotilis e aveva commentato il trattato paterno De arte venandi cum avibus. La Scuola Poetica Siciliana era stata sostenuta dagli Hohenstaufen e, infatti, dopo la morte di Manfredi si sciolse. Come il padre, anche lui era biondo, bello, lussurioso e, all’occorrenza, anche molto spietato. Eppure, nonostante i suoi orribili peccati, la imperscrutabile Grazia divina (che conosce il cuore degli uomini) ha accolto la sua conversione, il suo pentimento in extremis, in punto di morte, sconfessando il comportamento politico-burocratico degli uomini di chiesa, del vicario di Cristo in persona primo fra tutti. E Dante (aldilà della evidente simpatia che prova per la figura di Manfredi) vuole sottolineare, polemicamente, proprio il diverso comportamento di Dio, da contrapporre a quello di papi e cardinali che agivano da uomini politici anziché da ministri spirituali. Dio oppone ai suoi ministri sulla Terra la sua grande misericordia, quella per cui il Manzoni fa dire alla semplice Lucia prigioniera presso l’Innominato, grande appaltatore di delitti, che Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Frase semplice e potente che spinge l’Innominato a una decisa conversione, che lo porterà a un cambiamento totale e ad operare per il Bene e non più per il Male.

Un’ultima nota. Il pentimento, anche in extremis, delle anime del Purgatorio, anche di quelle criminali come Manfredi, non deve far pensare al pentitismo dei mafiosi e dei terroristi nostrani che hanno insanguinato le nostre città e poi, opportunisticamente, si sono dissociati e pentiti per evitare anni e anni di galera (fenomeno soprattutto degli anni Ottanta-Novanta del ‘900). No, non si tratta (lo voglio sottolineare ancora una volta) di un pentitismo come quello perché farebbe pensare al solito tipo umano dell’italiano medio, di quello del tengo famiglia, ecc. e, quindi, finirebbe per avere una valenza decisamente negativa, cosa, questa, lontana dalla visione di Dante. Il pentimento delle anime espianti del Purgatorio è un pentimento sincero, profondo e totale in cui l’anima mostra ravvedimento, contrizione e piena accettazione della durissima pena, della penitenza (la soddisfazione) a cui è condannato per il suo peccato, anzi si mostra desideroso e felice di espiare per riparare e riscattarsi in vista della salvezza eterna con il finale approdo alla visione di Dio e, quindi, alla felicità celeste.

Dunque, dopo che Virgilio ha parlamentato con le anime-pecorelle (sublime è la similitudine) per chiedere la via più semplice da seguire per salire sul monte senza perdere tanto tempo nell’indicarla (chè perder tempo a chi più sa più spiace) e dopo aver spiegato loro che Dante è in carne ed ossa e non devono meravigliarsi perché il suo viaggio è voluto da Dio, ecco che sulla scena si presenta Manfredi per raccontare la sua storia e per dare la sua versione in merito alle ultime vicende della propria vita, che è, poi, la versione che ha voluto consegnare Dante ai posteri, in quanto la ritiene sostanzialmente veritiera e credibile; il tono delle parole del rasserenato e sorridente Manfredi è pacato, non vi è traccia di rancore, di odio, di astio nei confronti di chi lo ha perseguitato fino a dopo la morte e, invece, vi si avverte una certa commiserazione per chi gli ha fatto del male deviando dalla Parola di Dio: “Leva”, diss’io, “maestro, li occhi tuoi: ecco di qua chi ne darà consiglio, se tu da te medesmo aver nol puoi”.

Guardò allora, e con libero piglio rispuose: “Andiamo in là, ch’ei vegnon piano; e tu ferma la spene, dolce figlio”.

Ancora era quel popol di lontano, i’ dico dopo i nostri mille passi, quanto un buon gittator trarria con mano, quando si strinser tutti ai duri massi de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti com’a guardar,  chi va dubbiando, stassi. “O ben finiti, o già spiriti eletti”, Virgilio incominciò, “per quella pace ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti, ditene dove la montagna giace, sì che possibil sia l’andare in suso; ché perder tempo a chi più sa più spiace”.

Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l’altre stanno timidette atterrando l’occhio e ‘l muso; e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta, semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno; sì vid’ io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta, pudica in faccia e ne l’andare onesta. Come color dinanzi  vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, sì che l’ombra era da me a la grotta, restaro, e trasser sé in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, non sappiendo  ‘l  perché,  fenno altrettanto.

“Sanza vostra domanda io vi confesso che questo è corpo uman che voi vedete; per che ‘l lume del sole in terra è fesso. Non vi maravigliate, ma credete che non sanza virtù che da ciel vegna cerchi di soverchiar questa parete”.

Così ‘l maestro; e quella gente degna “Tornate”, disse, “intrate innanzi dunque”, coi dossi de le man faccendo insegna. E un di loro incominciò: “Chiunque tu se’, così andando, volgi ‘l viso: pon mente se di là mi vedesti unque”.

Io mi volsi ver’ lui e guardail  fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. Quand’io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: “Or vedi”; e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto. Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’ io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice. Poscia ch’io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona. Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita  ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei. Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, l’ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora. Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde, dov’e’ le trasmutò a lume spento. Per lor maladizion sì non si perde, che non possa tornar, l’etterno amore, mentre che la speranza ha fior del verde. Vero è che quale in contumacia more di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta, star li convien da questa ripa in fore, per ognun tempo ch’elli è stato, trenta, in sua presunzïon, se tal decreto più corto per buon prieghi non diventa. Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza come m’hai visto, e anco esto divieto; ché qui per quei di là molto s’avanza”

Dunque: Dante dice al maestro che teneva la testa bassa: Alza i tuoi occhi, guarda: ecco, da questa parte, chi ci potrà dare dei consigli (sulla via da seguire), se tu non puoi, non riesci a trovare da solo la soluzione (visto che si è parlato dei limiti della Ragione; ma le parole di Dante non vogliono avere alcuna valenza negativa). Allora ha guardato e con fare spigliato, perché rinfrancato, ritornato sicuro, ha risposto: Andiamo verso di loro, poiché esse vengono adagio (piano); e tu, figlio caro, rafforza (tieni ben salda) la tua speranza (rassicurati).

Dopo che noi abbiamo fatto circa mille passi (come dire parecchi), quella schiera (di anime) si presentava ancora a una tale distanza come è quella necessaria a un buon tiratore per lanciare un sasso con la mano, quando (li abbiamo visti) che si sono appoggiati tutti a ridosso della superficie rocciosa della parete, e sono rimasti fermi e stretti fra di loro così come sta a guardare chi vede una cosa che metta in condizione di esitare (perché preso dal timore e dal dubbio). (Qui c’è captatio benevolentiae): O morti bene, nella grazia di Dio, o Spiriti già eletti (in quanto destinati al regno e alla visione di Dio), ha incominciato a dire Virgilio, per (in nome di) quella pace che credo sia da voi tutti attesa (e di cui siete certi), diteci da che parte la montagna è meno ripida (meno disagevole) per salirla; (ditecelo subito, senza starci tanto a pensare su:) perché a chi più sa (a chi è saggio) dispiace perdere tempo. (Il tempo è prezioso per il vero saggio, per chi ama il Sapere, la Cultura; esso ha un valore inestimabile e occorre saperlo spendere, utilizzare; il borghese Beniamino Franklin dirà, secoli dopo, che il tempo è denaro, ma per colui che ama la cultura è davvero prezioso: non c’è denaro che basti per acquistarne un po’! Per l’uomo di cultura, per il saggio il tempo non è che sinonimo di vita e, pertanto, la vita-tempo va saputa spendere al meglio e non in cose vane, effimere e inconsistenti).

(Segue la similitudine stupenda delle pecorelle): Come le pecorelle escono dall’ovile (dal recinto) per una, per due, per tre, e le altre se ne stanno timorose (timide) abbassando gli occhi e il muso (cioè la testa); e quello che fa la prima, fanno pure le altre andandole addosso se si ferma, in maniera semplice e tranquilla (perchè docili e miti), senza conoscerne il motivo (il perché) così (allo stesso modo) ho visto allora staccarsi dal gruppo per muoversi (per venire) verso di noi i primi di quella schiera fortunata (perché salva, destinata al Paradiso), con volti timidi (umili) e nei movimenti (nel portamento) composti (dignitosi). Non appena hanno visto  per terra, davanti a loro, alla mia destra, la luce del sole interrotta, in maniera tale che l’ombra proiettata dal mio corpo si stendeva fino alla parete rocciosa, (sono rimasti stupiti e) si sono fermati indietreggiando un po’, e tutte le altre anime che venivano dietro a loro (che le seguivano) hanno fatto la stessa cosa, pur non conoscendone la causa.

Senza che voi me lo chiediate, io vi rivelo (vi dico, senza girarci tanto intorno) che costui che voi vedete è un uomo vivo; per questo (cioè per il fatto che Dante è corpo umano) i raggi del sole che si riflettono per terra sono interrotti (oppure: la luce del sole è interrotta sul suolo, e il corpo proietta la sua ombra). Non vi meravigliate; ma state certi che egli cerca di salire questa parete con l’aiuto della Grazia che scende (proviene) dal Cielo. Così ha detto il maestro; e quelle anime elette (perché destinate al Paradiso) hanno risposto, indicandoci la direzione con i dorsi delle mani: Tornate indietro e, quindi, procedete (camminate) davanti a noi (cioè: seguiteci, venite nella stessa nostra direzione). E uno di loro ha incominciato a dire: Chiunque tu sia, pur camminando (senza perdere tempo), rivolgi a me lo sguardo (il tuo viso): cerca di ricordare se non mi hai visto mai nel mondo dei vivi (nella vita terrena).

Io mi sono voltato verso di lui e l’ho guardato attentamente, fissamente: era biondo, bello e di nobile aspetto, ma una ferita aveva spaccato uno dei due sopraccigli (deturpando il bel volto). Quando ho cortesemente negato, con riverenza (con umiltà) di averlo mai visto (con umiltà: perché ha capito di aver di fronte un personaggio importante, che finge di non aver riconosciuto e che, invece, ben conosce), egli ha detto: Ora guarda; e mi ha mostrato una ferita nella parte superiore del petto (cioè al cuore). Poi, sorridendo, ha detto: Io sono Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza (d’Altavilla, madre di Federico II); per questo (perciò) ti prego affinchè, quando ritornerai sulla Terra, tu vada dalla mia bella figlia (Costanza, come la nonna), madre di Federico, signore di Sicilia, e di Giacomo, signore d’Aragona, e le dica la verità, se (è vero che) sul mio conto si riferiscono cose diverse da quelle che ti dirò (si diceva che fosse all’Inferno in quanto scomunicato, invece si deve sapere che lui si è pentito e che si trova in Purgatorio).

Dopo che il mio corpo è stato ferito da due colpi mortali, io con contrizione (forte pentimento, piangendo), mi sono affidato a Colui (Dio) che perdona volentieri (chi si pente, chi è capace di umile ravvedimento). I miei peccati sono stati orribili; ma l’infinita bontà (del Signore) ha braccia così grandi, che accoglie chiunque si rivolge a lei. Se il vescovo di Cosenza, che allora (al tempo della lotta tra Svevi e Angioini) si è messo alla caccia (alla ricerca) del mio cadavere per ordine e incarico di Clemente IV, avesse considerato bene questo aspetto misericordioso di Dio, le ossa del mio corpo starebbero ancora all’estremità del ponte (sul fiume Calore), presso Benevento, custodite dal pesante cumulo di pietre (fatto costruire da Carlo d’Angiò, come segno di rispetto per il suo eroismo). Adesso la pioggia le bagna e il vento le disperde fuori del regno che fu mio, nei pressi del Verde (il fiume Liri, oggi Garigliano), dove egli le ha trasportate con ceri spenti (e capovolti e in luogo non consacrato, come s’era solito fare per gli eretici e gli scomunicati).

Per colpa della scomunica (con anatema, maledizione) dei pontefici non si perde l’amore di Dio a tal punto che non si possa riacquistare fino a che la speranza è ancora viva (come dire: anche in extremis possiamo sempre riabilitarci, riscattarci, avere un’occasione di ravvedimento e di pentimento e, quindi, di salvezza). (Manfredi spiega il contrappasso): La verità è che chi muore fuori della comunità (e comunione) della Santa Chiesa, anche se si pente all’ultimo momento (della sua vita), deve stare ai piedi della montagna (del Purgatorio, nell’Antipurgatorio), trenta volte il tempo che egli è stato fuori della Chiesa perchè scomunicato (e contumace, cioè ostinatamente fuori dalla comunità della Chiesa, rifiutando orgogliosamente di riparare), se (a meno che) questo decreto divino non viene modificato per le preghiere dei viventi che sono nella grazia di Dio (solo così possono essere efficaci).

Ormai vedi se puoi rendermi felice, rivelando alla mia buona (di animo buono) Costanza la condizione in cui mi hai visto (ristabilendo la verità dei fatti sul mio conto) e (facendole sapere) anche (di) questo divieto di entrare subito in Purgatorio; poiché in questo regno si progredisce molto nella purificazione con i suffragi, con il soccorso delle preghiere dei vivi

 

 

Sulla figura di Manfredi, Natalino Sapegno, nel suo commento, ha scritto alcune cose che meritano di essere riportate. Egli scrive che tutta la sua storia, collocata nell’atmosfera sospesa e trepidante di questa fase iniziale del processo di liberazione e purificazione di Dante e in una posizione di forte rilievo, deve essere accolta ed intesa appunto nella sua funzione pregnante di exemplum e valutata  nella complessità dei suoi significati, che tutti si riconducono e si assommano in una lezione profonda di umiltà. (…) Nella figura del re svevo illumina il trapasso dalla superbia della regalità (…) alla consapevolezza della sua umana miseria (…); dalla folle presunzione del peccatore ostinato e ribelle, al tono dimesso del penitente; dalla polemica acerba alla rasserenata considerazione degli errori suoi ed altrui, cui ora guarda da lontano e dall’alto con l’animo di chi è stato perdonato e a sua volta perdona, giustifica e compatisce. Un’alta ragione morale si dispiega in una pagina di cronaca, e insieme la tempera e la raddolcisce; risolve la situazione drammatica in un ritmo di pacata elegia; distanzia nella serenità della memoria placata da una superiore consapevolezza l’atrocità delle vicende cruente e dei rancori terrestri; attenua in un giudizio oggettivo le punte più acri della polemica antiecclesiastica e le scioglie nell’umile e serena accettazione di una severa disciplina.

Volendo fare, invece, una riflessione sulla frase messa in bocca da Dante a Virgilio, cioè alla Ragione umana, state contenti, umana gente, al quia, ebbene, vuol dire riconoscere i limiti della Ragione e affermare l’importanza che essa si appoggi, cerchi il sostegno della Grazia divina, cosa che è, in verità, una dichiarazione di resa, di sconfitta, di abdicazione: con termine moderno, si potrebbe parlare di pensiero debole. Dante pensa che Dio, la Natura e il Mondo sono infiniti, immensi e l’uomo è piccolo, è solo un punto in questa immensità e, quindi, la sua Intelligenza, la sua Ragione e la sua Filosofia non sono in grado di spiegare tutto ciò che li riguarda e i misteri e le verità della Divina Provvidenza. La presa di posizione di Dante fa venire in mente uno dei tanti pensieri su Dio, la Natura e l’uomo di Blaise Pascal, che tante affinità ha con il genio fiorentino: Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano. È ben debole, se non giunge a riconoscerlo. Se le cose naturali la trascendono, che dire di quelle soprannaturali? Lo stesso Immanuel Kant, che tanto si era occupato della Ragione, ha lasciato scritto che: La ragione è condannata a porsi degli interrogativi ai quali sa di non poter rispondere, tuttavia, nella seconda metà dell’Ottocento, il movimento Positivista, sulla scia dell’Illuminismo, appariva del tutto sicuro della forza della Ragione, della Scienza e della Tecnica nonché della capacità dell’uomo di razionalizzare tutto, per cui si prevedeva un progresso illimitato e, quindi, si potevano esaltare le magnifiche sorti e progressive (su cui ironizzava alquanto in anticipo il Leopardi). In quelgli anni, poi, Charles Darwin con la sua teoria dell’evoluzione era andato oltre le Colonne d’Ercole del sapere umano, oltre quel quia di cui parla Dante, creando non poco scompiglio: il racconto della Bibbia sulla Creazione non era che una bellissima fiaba: dopo Copernico (che aveva ribaltato la teoria del sistema geocentrico o aristotelico-tolemaico in cui credeva anche Dante, e non poteva essere diversamente) quello di Darwin rappresentava il secondo grande scossone contro il racconto biblico, contro la favola bella che illude (direbbe D’Annunzio). Dopo la guerra al copernicanesimo, la Chiesa iniziò quella al darwinismo, e così la lunga contrapposizione tra pensiero laico evoluzionista e pensiero religioso creazionista dura tuttora. Quando il Positivismo entrò in crisi (sul finire dell’Ottocento) per lasciare il posto alla filosofia e alla letteratura della crisi (della crisi della ragione) si diceva che la Scienza aveva distrutto il Sogno e la Fede dicendo agli uomini le sue crude verità e che la Ragione su certi aspetti della nostra esistenza era impotente e che non riusciva a spiegare tutti i misteri della vita. Di questi anni (anni in cui la Modernità era deflagrata con tutte le conseguenze che ci furono) è la teoria del disincanto del mondo elaborata dal grande sociologo Max Weber.

Ritornando al quia, al che di cui parla Dante, esso era una formula della filosofia della Scolastica (che Dante segue, anche se talvolta non si trova in accordo con essa) per indicare la realtà delle cose, dei fatti, il dato di fatto (quia est a cui si oppone il quid est cioè che cosa è) e al quia, ai fatti, all’essenziale, alla sostanza delle cose bisogna fermarsi senza pretendere di andare oltre, di ricercare, con la sola Ragione, le cause più profonde, ecc. intraprendendo una sfida con Dio e i suoi imperscrutabili disegni e fini. Per Dante dove non arriva la Ragione deve arrivare la Fede: la Ragione e la Filosofia umane non possono spiegare tutto, ma l’uomo occidentale e il suo spirito prometeico, incarnato da Ulisse (esaltato da Dante, nell’Inferno, appunto per il suo spirito di curiosità, di conoscenza e di scoperta), quante volte è andato oltre le Colonne d’Ercole, quante volte ha sfidato, più o meno apertamente, nel corso dei secoli, i limiti posti dalla Fede, da Dio e dalla Religione fino ad andare sulla Luna, cioè a fare il suo folle volo da estrema hybris, da estrema tracotante e presuntuosa sfida in quel cielo dove si dice, da millenni, che si trova il Regno di Dio? Per non parlare delle sperimentazioni più ardite, più folli nel campo dell’ingegneria genetica che consentono la clonazione degli esseri animali e umani e la riproduzione della specie in laboratorio, cioè fuori dalla natura e quindi fuori dai dettami biblici e religiosi.

Il rapporto difficile tra Scienza e Fede, Scienza e Religione è antico. Dante è uomo di grande fede e ha accettato di farsi sorreggere dalla Grazia divina, ma nei secoli l’uomo-odisseo occidentale è andato avanti come un treno sfidando Dio e le forze della Natura. Senza il senso della hybris, della sfida dell’uomo occidentale, il mondo sarebbe stato alquanto fermo. Questo non vuol dire che tutte le sfide realizzate o tentate non presentino aspetti negativi o comunque discutibili.  Naturalmente, lo scontro tra Scienza e Religione, tra le possibilità della Ragione e i limiti che pone la Fede è sempre attuale perché il nocciolo è che o si crede nella potenza della Scienza e della Tecnica, e nella loro capacità di razionalizzare il mondo, o a quella di Dio. Dante, pur così moderno per tanti aspetti, non poteva non accettare la Potenza di Dio e, infatti, il suo folle-viaggio-volo, diversamente da quello di Ulisse, lo ha fatto sotto l’egida della divina Provvidenza, sorretto dalla Grazia divina, anzi Dio in persona lo ha voluto, ha voluto inviarlo in missione speciale nell’Aldilà. Del resto, il pagano Ulisse non conosceva il nostro Dio e non poteva affidarsi a Lui e per questo Dante lo punisce solo come consigliere fraudolento. Inoltre, c’è da notare e sottolineare che, dopo la fase giovanile e del traviamento morale, intellettuale e spirituale, Dante sembra aver ormai definitivamente abbandonato l’averroismo, ovvero l’adesione al cosiddetto aristotelismo radicale che dava alla Ragione e alla Filosofia umane la preminenza nella conoscenza, nella spiegazione della realtà e di ogni ogni altro fenomeno. Adesso Dante, con la maturità degli anni, appare più vicino alla filosofia Scolastica, per cui Ragione e Fede procedono in sintonia, ma è la Fede, ovvero la Teologia e i suoi lumi gli unici capaci di spiegare le cose che non sono di questo mondo, le cose soprannaturali, spirituali, le verità rivelate, i dogmi della fede e via discorrendo. Non dimentichiamo che il Dante più maturo non sta comodamente seduto a casa propria ma è in esilio, è un perseguitato, su di lui e anche sui suoi cari pende una durissima sentenza di morte e la sua sopravvivenza la deve alla generosa ospitalità dei tanti signori e prìncipi che hanno capito il suo valore di scrittore, di persona di cultura e di uomo onesto e di grande levatura morale. La sua amarezza, durante l’esilio, è grande e questa sua particolare condizione ha certamente influito, in parte, sulla sua visione per cui, restando sempre ferma l’idea che la Ragione umana debba essere il nostro primo e fondamentale lume, la Fede deve essere vista come quell’àncora di salvezza e quella luce di cui non possiamo fare  a meno per comprendere le cose che la Ragione non capisce e per essere più pienamente felici, per raggiungere la piena perfezione e la piena felicità. Il Dante di una volta, eccessivamente fiducioso nella potenza della Ragione non è comunque morto, resta sempre il Dante (direbbe Pasolini) ancora troppo eretico e corsaro che, pur essendo cattolico e uomo di grande e sincera fede, ha il coraggio di dire la sua, di contestare, di fare le sue durissime e corrosive critiche contro Chiesa, papi ed ecclesiastici politicizzati, mondanizzati, corrotti e degenerati tanto da finire, infatti, qualche secolo dopo, nell’Indice dei libri proibiti sia con la Commedia che con la Monarchia, proprio per le sue coraggiose, posizioni politico-ideologiche ritenute, appunto, eretiche. La Chiesa della Controriforma e del nuovo Tribunale dell’Inquisizione, quella uscita dal Concilio di Trento, non perdonava gli eretici, cioè chi dissentiva, la contestava e la contraddiceva e, certamente, Dante sarebbe finito torturato e messo sul rogo come Giordano Bruno. Il Poeta c’è andato, giustamente, pesante con la Chiesa e la sua corruzione e, infatti, soltanto nel ‘900, con Benedetto XV, si incomincia ad avere (opportunisticamente o meno) un buon rapporto con il Sommo Poeta e la Commedia fino a fare del primo un poetateologo e della seconda un quinto evangelo, affermando che Dante è poeta nostro per un diritto speciale (Paolo VI, nel 1965). Non più anticlericale e nemico della Chiesa ma profeta di speranza (papa Francesco). Indubbiamente, una Chiesa che nel XX secolo avesse mostrato di avere ancora paura dell’eretico Dante e del pericoloso libro della Commedia sarebbe apparsa troppo meschina e troppo conservatrice e reazionaria e, pertanto, si è scelto di fare proprio il nostro più grande Poeta, troppo grande e universale per averlo ancora come temibile avversario. Va rilevato, però, il fatto che, finora, si è sempre sottolineata la grande fede di Dante cercando di nascondere e di far dimenticare il Dante grande accusatore di papi e cardinali e della Chiesa-puttana troppo mondanizzata e poco spirituale e, questo, in verità, fa risaltare un atteggiamento che non può non essere definito ambiguo e ipocrita, dell’ipocrisia di chi non sa fare autocritica e mea culpa e dimostrare di voler cambiare, proprio come chiedeva e chiede Dante nel romanzo della Commedia.

Se il primo canto-capitolo introduttivo sembra essere un vero e proprio manifesto della libertà, una vera e propria dichiarazione di poetica, cioè di visione, concezione globale della vita e del mondo, il canto-capitolo terzo sembra essere il manifesto della dichiarazione dei limiti della ragione e, allo stesso tempo, il manifesto della immensa misericordia divina che sempre riesce ad ergersi vittoriosa e superiore alle piccole miserie umane, alle insufficienze e agli errori degli uomini, alla loro malvagità, al loro operare il Male anziché il Bene. Si tratta di una visione (che è visione Provvidenzialistica della Storia) simile a quella che, nell’Ottocento, avrà Alessandro Manzoni, e bisogna dire che il suo terribile Innominato presenta qualche somiglianza con il Manfredi di Dante: entrambi hanno compiuto orribili delitti, entrambi hanno fatto il Male ma, alla fine, anche il Male può avere una sua grandezza e trasformarsi addirittura in Bene, e le loro vite possono apparire addirittura come esemplari, come esempi, come modelli; come pure esemplare, in entrambi i casi, è la manifestazione dell’immenso Amore e dell’immensa Misericordia di Dio. Sono le misteriose vie della Provvidenza, il cui operato è imperscrutabile, tanto che da millenni, nella Storia Dio e il Diavolo continuano a convivere e non sappiamo fino a quando. Forse, fino alla fine dei tempi.