Trebisacce-17/07/2024: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi dell’ottavo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo nel 2022

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La Moglie
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Pubblichiamo qui di seguito l’analisi dell’ottavo canto del Purgatorio di Dante, del quale
Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro
pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo nel 2022. Protagonisti sono la struggente
nostalgia e la speranza di Dante (Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio…), il Serpente-Satana-Tentatore che non prevale, il
giudice Nino Visconti (amico di Dante) e Corrado Malaspina, signore della Lunigiana, che
predice a Dante l’esilio (durante l’esilio i Malaspina sarebbero stati generosi con Dante).
Il canto-capitolo VIII ovvero
il canto del duplice esilio (quello celeste e quello che si vive sullaTerra) e della struggente nostalgia. Antipurgatorio. Secondo balzo. Valletta dei prìncipi negligenti. Dante, Virgilio e Sordello scendono nell’amena valletta fiorita dei prìncipi negligenti.
È il tramonto, l’ora che volge il disio ai navicanti , e fa venire tristemente la nostalgia della patria
lontana; le anime cantano il Te lucis ante terminum (Prima del tramonto della luce), ovvero ilprimo verso dell’inno dell’ora della Compieta (ultima delle ore canoniche) contro le tentazioni
notturne (canto che costituisce la seconda colonna sonora alla nuova scena, felliniana, nella
valletta); infatti, un Serpente (Satana) si aggira tra di loro, ma due angeli guardiani, inviati
dalla Madonna, dalla Grazia divina, lo metteranno in fuga. Dante incontra il giudice Nino
Visconti (nipote del conte Ugolino, ma non quello della Torre della fame) che lo riconosce. Nel
cielo splendono tre stelle, che simboleggiano le tre virtù teologali (Fede, Speranza e Carità).
Incontro con Corrado Malaspina, signore della Lunigiana, che predice a Dante l’esilio e la
generosa ospitalità che riceverà da esule dalla sua famiglia. (Tutto si svolge al calar della notte
del 10 aprile del 1300, intorno alle ore 7 e mezza circa).
Ha scritto magistralmente, in un suo commento, Attilio Momigliano che sull’esordio del canto
aleggia una nostalgia insieme terrena e celeste, che unisce in una medesima malinconia le anime che
aspirano alla patria celeste e il pellegrino che ha in cuore la lontana patria terrena
e, altrettanto magistralmente, Natalino Sapegno così commenta uno degli incipit più belli e più celebri della Commedia che fanno pensare ad una sorta di rêverie e di sehnsucht romantiche ante littera:
[…]
Il tema dell’esilio si arricchisce di molteplici significati e si dilata a configurare tutta l’atmosfera
religiosa e morale di una situazione di attesa e d’inquietudine, che coinvolge ad un tempo
l’atteggiamento delle anime dell’Antipurgatorio e i sentimenti del pellegrino dell’oltremondo: è
dolcezza e tristezza di ricordi, su cui indugia il cuore che vorrebbe e ancor non sa staccarsi appieno
dalle cose della terra; è timore di oscure e malvage insidie, che si placa nella certezza di un soccorso
trascendente; è inquieta nostalgia di pace e di felicità che si tempera nella penitenza e si raffina
nella preghiera. In questa atmosfera si collocano e prendono tutto il loro significato sia il dramma
liturgico, che costituisce la nota di fondo del canto, sia i colloqui con Nino Visconti e con Corrado
Malaspina. E, dunque, il romantico Dante inizia così il canto-capitolo dell’esilio, aggiungendo che
viene svegliato e distratto da questa fantasticheria e da quel momento di struggente nostalgia da una
delle anime che si mette a cantare, a intonare il Te lucis ante , nuova malinconica e speranzosa
colonna sonora di questa nuova felliniana, onirica e quasi surreale scena nella valletta:
Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si
more; quand’io incominciai a render vano l’udire e a mirare una de l’alme surta, che l’ascoltar
chiedea con mano. Ella giunse e levò ambo le palme, ficcando li occhi verso l’orïente, come dicesse a
Dio: ‘D’altro non calme’. ‘
Te lucis ante’ sì devotamente le uscìo di bocca e con sì dolci note, che fece me a me uscir di mente; e l’altre poi dolcemente e devote seguitar lei per tutto l’inno intero, avendo li occhi a le superne
rote: Era già l’ora in cui (il ricordo) fa rivolgere (indietro con la mente) i naviganti
(marinai e mercanti, che sono partiti, si sono messi in viaggio con le loro navi e forte diventa) e
suscita il desiderio (la nostalgia struggente delle cose care lasciate sulla terra: la patria, la casa, gli
affetti, la famiglia, gli amici più cari) e intenerisce (commuove) il loro cuore (per i sentimenti dolci,
malinconici, tristi che provano) nel giorno della partenza, in cui hanno dato l’addio ai loro amici; e
che fa sentire il dolore (punge) dell’amore (per la patria e gli affetti più cari) a chi si è messo in
viaggio da poco (pellegrino è colui che è fuori della sua patria, spiega Dante nella Vita Nuova; per il
quale pellegrino la lontananza è, dunque, come una spina nel cuore che punge sempre), se ascolta da
lontano una campana che suonando (squillando) sembra piangere la fine del giorno (del giorno che
sta morendo, che volge al tramonto); (tutto questo) quando io ho incominciato a non sentire più nulla
con l’udito (cioè: ho smesso di ascoltare Sordello) e mi sono messo a guardare (ad osservare) una
delle anime alzatasi in piedi, che, con un gesto della mano, chiedeva di essere ascoltata (chiedeva,
invitava al silenzio). Essa ha giunto (unito) le mani e le ha alzate (verso il cielo), rivolgendo lo
sguardo (gli occhi) fissamente verso l’oriente (cioè da dove sorge il sole), come se dicesse a Dio:
Non m’importa d’altro (se non di te). Te lucis ante (Prima della fine del giorno, noi t’invochiamo, o
creatore del mondo, perché per la tua clemenza sii nostro presidio e difesa) così devotamente le è
(poi) uscito dalla bocca e con suono (note) così dolci, armoniose, tanto da farmi andare in estasi (in
quanto mi ha fatto dimenticare di me stesso: Dante è come rapito dal quella soave preghiera), e le
altre (anime) poi, dolcemente e devotamente, si sono messe a cantare con lei per tutto il resto
dell’inno (fino alla fine), tenendo sempre gli occhi fissi (diretti) verso le sfere celesti (verso il cielo; i
cieli ruotanti).
Quindi, Dante si rivolge al lettore pregandolo di leggere bene quello che lui sta per dire, di andare
oltre la lettera e cogliere il significato simbolico, allegorico, che non è cosa da poco. Dante ci
annuncia la scena dell’apparizione dei due angeli muniti di spada fiammeggiante, inviati dalla Grazia
divina, dalla Madonna per allontanare il Serpente (cioè Satana, il Male tentatore che, più in là, farà la
sua diabolica apparizione: scena destinata a ripetersi ogni sera). Dopo questa scena, Sordello invita i
due Poeti a vedere se c’è qualche anima che possono conoscere e con cui parlare:
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, ché ‘l velo è ora ben tanto sottile, certo che ‘l trapassar dentro
è leggero. Io vidi quello essercito gentile tacito poscia riguardare in sùe, quasi aspettando, palido e
umìle; e vidi uscir de l’alto e scender giùe due angeli con due spade affocate, tronche e private de le
punte sue. Verdi come fogliette pur mo nate erano in veste, che da verdi penne percosse traean dietro
e ventilate. L’un poco sovra noi a star si venne, e l’altro scese in l’opposita sponda, sì che la gente in
mezzo si contenne. Ben discernëa in lor la testa bionda; ma ne la faccia l’occhio si smarria, come
virtù ch’a troppo si confonda. “Ambo vegnon del grembo di Maria”, disse Sordello, “a guardia de la
valle, per lo serpente che verrà vie via”. Ond’io, che non sapeva per qual calle, mi volsi intorno, e
stretto m’accostai, tutto gelato, a le fidate spalle. E Sordello anco: “Or avvalliamo omai tra le grandi
ombre, e parleremo ad esse; grazïoso fia lor vedervi assai”:
O lettore, qui (adesso) acuisci (cerca di acuire) bene il tuo ingegno (concentra bene l’attenzione) per
vedere (scorgere) la verità, perché il velo (dell’allegoria) è ora così ben sottile (trasparente) che
riuscire a penetrare in esso per comprenderla non è cosa tanto difficile (non costerà molta fatica
intendere l’allegoria).
Insomma, Dante ci prepara ad una sorta di sacra rappresentazione dove i protagonisti sono il
Serpente che cerca di mimetizzarsi tra i fiori e gli angeli che lo sconfiggono e allontanano; però, il
rito non riguarda tanto le anime del Purgatorio, perché esse non sono più soggette alla tentazione;
pertanto, pregano e svolgono il rito non per la loro attuale condizione ma per ricordare,
allegoricamente, la passata condizione, sulla Terra, di peccatori, del loro possibile cedimento al Male,
alla tentazione del diavolo, che ci prova sempre a tirare gli uomini dalla sua parte. Quindi, così
prosegue nel racconto:
Io ho visto quella nobile schiera (di anime), dopo aver terminato il canto, guardare in alto (verso il
cielo, in atteggiamento) quasi di attesa (di qualcosa, cioè degli angeli), pallide (in volto, per
l’angoscia, il timore) e (piene di) umiltà (in quanto consapevoli che solo il soccorso divino può
liberarle dall’angoscia); e ho visto uscire, apparire dall’alto (dal cielo) e scendere giù (dirigersi verso
il basso) due angeli muniti di due (bibliche) spade fiammeggianti (di fuoco, infuocate) tronche e
prive delle loro punte (questo perché dopo la morte di Gesù il Serpente è stato sconfitto per sempre e,

pertanto, bastano anche due simboliche spade della giustizia e della misericordia divina spuntate a mettere in fuga l’avversario, la diabolica tentazione). Essi indossavano vesti color verde (simbolo della speranza) come le foglioline appena nate, che si traevano (portavano) dietro mosse (agitate e ventilate e quindi ondeggianti, svolazzanti) dal (movimento delle) loro verdi ali. Uno di essi è venuto a collocarsi (posizionarsi) quasi vicino a noi (ma un po’ più in alto), sul fianco della valletta dove eravamo noi, mentre l’altro si è posizionato sull’orlo, sulla parete opposta (proprio come attenti guardiani, pronti a scacciare il demonio tentatore), cosicchè (di modo che) le anime si sono trovate in mezzo (al centro, e come da loro ben protette). Io vedevo bene (riuscivo a distinguere) la loro capigliatura bionda; ma i miei occhi si confondevano (si smarrivano) di fronte allo splendore del loro volto (che non riesce a vedere bene, tanto il loro volto è pieno di luce), (proprio) come una (nostra) facoltà si smarrisce (si confonde) di fronte a una forza, di fronte a qualcosa troppo grande per le sue capacità.

Sordello ha detto: Vengono entrambi dall’Empireo, sede di Maria, a guardia (a difesa) della valle, a causa del serpente che verrà presto (subito, tra poco, oppure: che sta per arrivare).

Per cui io, che non sapevo (ignoravo) da dove (da quale parte, via) sarebbe arrivato (il serpente), mi sono guardato intorno e, tutto gelido (freddo) per la paura, mi sono stretto vicino alle fidate spalle (alla sicura protezione di Virgilio, cioè della Ragione). E Sordello ha detto ancora (ha aggiunto): Ormai scendiamo a valle tra quelle grandi anime (nobili e illustri), e parleremo con loro; vedervi sarà cosa a loro molto gradita.

Segue la scena dell’incontro affettuoso, fatto di abbracci e baci, con Nino Visconti, vecchio amico di Dante, con un accenno alla presenza di Corrado Malaspina, che sarà protagonista nella parte terminale del canto-capitolo: Solo tre passi credo ch’i’ scendesse, e fui di sotto, e vidi un che mirava pur me, come conoscer mi volesse. Temp’era già che l’aere s’annerava, ma non sì che tra li occhi suoi e ‘ miei non dichiarisse ciò che pria serrava. Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei: giudice Nin gentil, quanto mi piacque quando ti vidi non esser tra ‘ rei! Nullo bel salutar tra noi si tacque; poi dimandò: “Quant’è che tu venisti a piè del monte per le lontane acque?”.

“Oh!”, diss’io lui, “per entro i luoghi tristi venni stamane, e sono in prima vita, ancor che l’altra, sì andando, acquisti”.

E come fu la mia risposta udita, Sordello ed elli in dietro si raccolse come gente di sùbito smarrita. L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse che sedea lì, gridando: “Sù, Currado! vieni a veder che Dio per grazia volse”. Poi, vòlto a me: “Per quel singular grado che tu dei a colui che sì nasconde lo suo primo perché, che non lì è guado, quando sarai di là da le larghe onde, dì a Giovanna mia che per me chiami là dove a li ‘nnocenti si risponde. Non credo che la sua madre più m’ami, poscia che trasmutò le bianche bende, le quai convien che, misera!, ancor brami. Per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina foco d’amor dura, se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende. Non le farà sì bella sepultura la vipera che Melanesi accampa, com’avria fatto il gallo di Gallura”.

Così dicea, segnato de la stampa, nel suo aspetto, di quel dritto zelo che misuratamente in core avvampa.

Dunque: Credo di essere sceso solo di tre passi (perché la valletta era poco profonda), e mi sono trovato giù, e ho visto (mi sono accorto) che una di quelle anime mi osservava fissamente (guardava soltanto me con insistenza), come se mi volesse riconoscere (e, infatti, lo ha riconosciuto). Era già l’ora in cui si fa buio, ma non così tanto che tra i suoi occhi e i miei non lasciasse vedere chiaramente ciò che prima nascondeva (impediva)  di vedere (per la distanza). Lei si è avvicinata a me e io a lei (si è mossa verso di me e io verso di lei): (o) nobile giudice Nino (Visconti), quanto mi ha fatto piacere (come sono stato felice) vedere che non eri tra i malvagi (i dannati)! Ci siamo scambiati ogni tipo di cortese saluto (nessun saluto cortese è stato taciuto tra noi due); poi (mi) ha chiesto: Quando sei arrivato qui ai piedi del monte, dopo aver attraversato il vasto mare? (che separa la foce del Tevere, dove si raccolgono le anime destinate alla salvezza, dalla spiaggia del Purgatorio).

E Dante. Oh, sono arrivato questa mattina attraverso i luoghi tristi (dolorosi) dell’inferno, e sono ancora vivo (sto vivendo la prima vita, quella terrena), sebbene compiendo questo viaggio posso acquistare la vita spirituale della beatitudine (la vita eterna, la seconda vita). E non appena la mia risposta è stata ascoltata (sentita) Sordello (che ancora non si è avveduto del fatto che Dante è in carne ed ossa) e lui si sono (istintivamente…) fatti indietro, si sono ritratti come persone colte da…, come fa chi si smarrisce per un improvviso stupore (e/o un’improvvisa paura). Sordello si è voltato verso Virgilio (come per dire: Ma che succede? Cos’è quello che vedo?…) e Nino verso un’anima che stava seduta lì vicino, gridando: Su, Corrado! Vieni a vedere quale prodigio (quale cosa miracolosa) la Grazia di Dio ha voluto fare. Poi, si è voltato (rivolto) verso di me (e ha detto): Per (in nome di) quella particolare (singolare) gratitudine che tu devi a Dio che tiene così (ben) nascoste le (imperscrutabili) prime ragioni del suo operare, a tal punto che noi non abbiamo una via, una possibilità per conoscerle, (oppure: tanto che l’intelligenza umana non riesce a penetrarle e, quindi, conoscerle e comprenderle, ebbene) quando sarai di nuovo sulla Terra, aldilà delle grandi onde (del vasto mare, dell’Oceano), devi dire (devi raccomandare) a mia figlia Giovanna (di 9 anni nel 1300) di pregare per me il cielo (Dio) che sempre esaudisce le preghiere degli innocenti (cioè delle anime in grazia). Non credo che sua madre (Beatrice d’Este, rimasta vedova di Nino nel 1296 e che si sarebbe risposata…) mi ami ancora, dopo che (visto che) ha cambiato le bende bianche (ha tolto dal capo le bende bianche segno di lutto e ha messo quelle nere…: cioè, si è risposata, è passata a seconde nozze), che, però, un giorno, infelice (sventurata) donna!, rimpiangerà (pentendosi, desidererà lo stato vedovile, piuttosto che unirsi, come ha fatto, con Galeazzo Visconti di Milano che, sarebbe poi caduto in disgrazia politica e che, pare, la maltrattasse). Dal suo esempio, si comprende facilmente come nella donna (femmina) duri poco la passione (il sentimento) d’amore (la donna è mobile, è volubile, incostante e, insomma, non sa rinunciare al sesso: un topos, un luogo comune della letteratura medievale ma anche di scrittori come Ovidio, Virgilio stesso e dei Padri della Chiesa), se non è tenuta accesa (viva) dagli occhi (dalla vista) e dalla vicinanza della persona amata (cioè con gli sguardi, con le carezze, ecc. ecc.). Ma la vipera (il biscione con fanciullo nella bocca) che si trova sullo stemma dei Visconti di Milano non onorerà e non sarà un bell’ornamento per la sua sepoltura, come avrebbe fatto, invece, il gallo dello stemma dei Visconti di Gallura (casata, famiglia di ben più nobili origini e con titolo ottenuto dall’Imperatore e non con la violenza come i Visconti di Milano. Comunque, Beatrice, morta nel 1334, aveva disposto che sulla sua tomba fossero apposti entrambi gli stemmi, forse anche per smentire la versione di Dante, che si poteva leggere già allora).

Così aveva parlato (Nino), mostrando nel volto il segno di quel giusto risentimento (sdegno, zelo), dell’onesto sentimento dell’amore che arde nel cuore in modo misurato (e che fa sì che più che la condanna prevalga la comprensione delle debolezze e della fragilità umana).

A questo punto fermiamoci e vediamo le biografie di Nino e di Corrado, in modo da avere le idee più chiare su di loro.  Ugolino Visconti, detto Nino (che Dante conobbe certamente di persona) era figlio di Giovanni, capo dei guelfi pisani, e di una figlia del conte Ugolino della Gherardesca. Ebbe il giudicato della Gallura (in Sardegna) e per questo lo stemma gentilizio aveva impresso sopra un gallo. Ebbe una vita politica alquanto movimentata e romanzesca; fu Signore di Pisa insieme al conte Ugolino e negli ultimi anni visse da fuoriuscito. Aveva sposato Beatrice d’Este, figlia di Obizzo II, dalla quale ebbe una figlia, Giovanna. Fu lui a denunciare presso il papa l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini per la spietata morte inflitta al conte Ugolino e ai suoi figli e nipoti. Morì nel 1296.

Più breve e meno romanzesca è la biografia di Corrado Malaspina. Figlio di Federico I, marchese di Villafranca in Val di Magra (o Valdimagra), e nipote di Corrado I il Vecchio, capostipite dei Malaspina di Mulazzo, signori della Lunigiana, detti “dello Spino secco”. Morì nel 1294. Dante fu ospite dei Malaspina nel 1306 (e forse anche altre volte) e nella Commedia ne esalta la grande generosità e la loro rispettosa accoglienza verso il Poeta, e, in genere, la loro liberalità verso tutti i poeti. Dante (che era dotato di ottime capacità di mediazione e di trattativa) fu incaricato, con procura di un notaio di Sarzana, di mediare per la rappacificazione tra i marchesi Malaspina (Francesco, Moroello e Corradino) e il vescovo di Luni, Antonio de’ Camilla.

Dante non ha mai interrotto l’amico Nino, lo ha lasciato parlare mostrando di essere molto discreto, perché la sfera dei sentimenti, della vita privata, quella che oggi chiamiamo privacy, merita il dovuto rispetto. Lo sfogo di Nino è stato un misto di pacato risentimento, rimpianto e struggente nostalgia per un amore perduto, per una donna che aveva tanto amato ma che non avrebbe creduta così pronta a sostituirlo nel talamo, dopo la sua morte e, per questo duplice sentimento, alterna parole di cruccio, di risentimento e parole di commiserazione e di affetto verso colei che aveva scelto come donna della sua vita ma che, come tutte le donne, si era dimostrata volubile e un po’ leggera nel sentimento verso di lui: avrebbe voluto che non fosse dimenticato così presto, che fosse rimasta ancora per molto nei pensieri della sua Beatrice. E qualcuno parla di misoginia, di antifemminismo (ante litteram…) di Dante per le sue parole sulla poco fedele Beatrice, incapace di mantenere il lutto. Un’accusa che è una stupidaggine: Dante, in ogni circostanza e situazione, non fa che rilevare e mostrarci i difetti, i vizi e le debolezze degli esseri umani e, pertanto, come c’è la persona coerente capace di pagare (come lui) anche un prezzo altissimo per le sue idee e la sua verità, così ci sono persone opportuniste e incoerenti che, pur di non pagare alcun prezzo, si barcamenano e si piegano ai più vili compromessi, agendo da italiano medio “alla Alberto Sordi”, ovvero tutto il contrario di Dante, perfetto antitaliano, cioè un tipo umano davvero molto ma molto raro a trovarsi.

Intanto, Dante, così ansioso e avido di conoscenza e di cose nuove, si mette a guardare fissamente il cielo e le tre stelle (le tre virtù teologali), parla un po’ con Virgilio e, poi, questi con Sordello che lo attira verso di sé e gli indica (probabilmente con un gesto della mano e un movimento degli occhi) il luogo dove si è posizionato il Serpente-Lucifero, sempre pronto nella sua missione di tentatore, dai tempi di Adamo ed Eva. Ma i due vigili e solerti angeli divini riescono presto a metterlo in fuga e, quindi, a mettere in sicurezza noi poveri peccatori, facili alle tentazioni. Intanto, dopo questa sequenza cinematografica e da romanzo giallo, ecco che la scena finale è tutta per Corrado Malaspina che, come  Nino, esalta il suo casato, la sua famiglia e il suo valore, la sua grandezza d’animo, la sua generosità e, insomma, le sue virtù e la sua nobiltà di sentimenti. Autoesaltazione, si badi, che è poi l’esaltazione che Dante vuole fare dei Malaspina come segno di riconoscenza e di gratitudine per la loro generosa ospitalità. Nei versi finali Dante gli mette in bocca la profezia dell’amaro calice dell’esilio:

Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur là dove le stelle son più tarde, sì come rota più presso a lo stelo. E ‘l duca mio: “Figliuol, che là sù guarde?”.

E io a lui: “A quelle tre facelle di che ‘l polo di qua tutto quanto arde”. Ond’elli a me: “Le quattro chiare stelle che vedevi staman, son di là basse, e queste son salite ov’eran quelle”.

Com’ ei parlava, e Sordello a sé il trasse dicendo: “Vedi là ‘l nostro avversaro”; e drizzò il dito perché ‘n là guardasse. Da quella parte onde non ha riparo la picciola vallea, era una biscia, forse qual diede ad Eva il cibo amaro. Tra l’erba e ‘ fior venìa la mala striscia, volgendo ad ora ad or la testa, e ‘l dosso leccando come bestia che si liscia. Io non vidi, e però dicer non posso, come mosser li astor celestïali; ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso. Sentendo fender l’aere a le verdi ali, fuggì ‘l serpente, e li angeli dier volta, suso a le poste rivolando iguali.

L’ombra che s’era al giudice raccolta quando chiamò, per tutto quello assalto punto non fu da me guardare sciolta. “Se la lucerna che ti mena in alto truovi nel tuo arbitrio tanta cera quant’è mestiere infino al sommo smalto”, cominciò ella, “se novella vera di Val di Magra o di parte vicina sai, dillo a me, che già grande là era. Fui chiamato Currado Malaspina; non son l’antico, ma di lui discesi; a’ miei portai l’amor che qui raffina”.

“Oh!”, diss’io lui, “per li vostri paesi già mai non fui; ma dove si dimora per tutta Europa ch’ei non sien palesi? La fama che la vostra casa onora, grida i segnori e grida la contrada, sì che ne sa chi non vi fu ancora; e io vi giuro, s’io di sopra vada, che vostra gente onrata non si sfregia del pregio de la borsa e de la spada. Uso e natura sì la privilegia, che, perché il capo reo il mondo torca, sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia”.

Ed elli: “Or va; che ‘l sol non si ricorca sette volte nel letto che ‘l Montone con tutti e quattro i piè cuopre e inforca, che cotesta cortese oppinïone ti fia chiavata in mezzo de la testa con maggior chiovi che d’altrui sermone, se corso di giudicio non s’arresta”

Dunque: I miei occhi avidi (di conoscenza, di vedere cose nuove) si dirigevano verso il cielo, soltanto là (verso il polo antartico, australe) dove le stelle si muovono più lentamente, proprio come in una ruota si muovono con più lentezza le parti vicine all’asse. E Virgilio: Figliolo, che cosa guardi lassù? E io ho risposto: Quelle tre luci (fiaccole, stelle, le tre virtù teologali o della vita contemplativa), che illuminano tutto l’emisfero meridionale (il polo antartico).

Per cui, allora Virgilio a me (così ha replicato): Le quattro stelle luminose (le quattro virtù cardinali o della vita attiva) che hai visto questa mattina, sono discese (calate) all’orizzonte (dall’altra parte del monte e, quindi, non sono più a noi visivili), e queste sono salite al loro posto.

Ma attenzione: non ci si può distrarre, non possiamo permetterci il lusso di fantasticare sulle stelle e la bellezza del cielo, perché il Male, il demonio è sempre in agguato e bisogna essere sempre vigili e attenti. E così, mentre (Virgilio) stava parlando, il più attento Sordello (che qui sembra sostituirsi a Virgilio come simbolo della Ragione che illumina, guida e protegge dalle insidie e dai pericoli) lo ha attirato a sé (lo ha fatto voltare verso di lui) dicendo: Vedi là (guarda là) il nostro avversario (il demonio, il biblico avversario di Dio e dell’uomo per antonomasia); e ha puntato il dito ben dritto affinchè guardasse nella direzione (nel luogo) da lui indicato. Da quella parte (da quel lato) da cui la piccola valle non ha riparo (dalla parte bassa dove la via era aperta e senza protezione; il Male cerca sempre di tentare e di colpire l’uomo nella sua parte più debole e dove ha meno difese, ebbene) lì stava un serpente, forse lo stesso (nell’aspetto sembrava simile a quello…) che ha tentato Eva (nel Paradiso Terrestre, nell’Eden, quando le disse: eritis sicut Deus, sarai come Dio) offrendole il frutto proibito (vietato e che è stato) tanto amaro per gli uomini (causa di tanto male, gravido di tante conseguenze: il destino di morte e ogni altro male su questa Terra. Dio aveva proibito di cibarsi del frutto dell’albero della scienza del bene e del male).

Il malvagio rettile (serpente, la mala striscia) avanzava strisciando tra l’erba e i fiori (tra bella apparenza), voltando la testa ora da una parte e ora da un’altra (guardava a destra e a manca, pronta a sedurre e colpire…), e si leccava il dorso come fa una bestia quando si liscia il corpo (per apparire bella e onesta, per sedurre meglio e far cadere in trappola la vittima). Io non ho visto (la scena, perché intento a guardare il serpente), e per questo non posso dire come i due uccelli divini (cioè, gli angeli: gli astori sono uccelli rapaci, cacciatori di serpenti) si sono mossi (Dante finge di essersi perso il momento in cui è scattata l’azione repressiva nei confronti del Male); ma certo ho ben visto l’uno e l’altro muoversi (entrare in azione). Il serpente, appena ha sentito il rumore delle verdi ali degli angeli che fendevano (smuovendola) l’aria, è fuggito (si è messo in fuga, se l’è data a gambe) e gli angeli sono tornati indietro, volando insieme verso l’alto (verso il cielo) e alla loro sede (oppure, secondo altri commentatori: ai loro posti di guardia nella valletta. Tutta questa scena, secondo alcuni esegeti, sarebbe un’allegoria per ricordare ai prìncipi negligenti che in vita si sono fatti tentare dal Male, dal Serpente delle tentazioni e, quindi, costituirebbe un ulteriore contrappasso).

Intanto, riappare Corrado Malaspina che, prima, era stato opportunamente messo in ombra da Dante e che ora viene ancor più opportunamente ripescato per esaltare la casata dei Malaspina, che furono così generosi con l’esule, e per ribadire il suo destino di uomo e di poeta ingiustamente esiliato: L’anima che si era avvicinata al giudice Nino quando era stata chiamata, non aveva mai smesso di guardarmi, di fissarmi durante tutto l’assalto (degli angeli contro il serpente; Corrado guarda fissamente Dante perché stupito dal fatto che sia uomo vivo e, quindi, in grado di fornire notizie che lo possono riguardare). (Così si è messa a parlare):

Possa la Grazia divina che ti conduce verso l’alto (la beatitudine) trovare nel tuo libero arbitrio (nella tua volontà) tanta buona disposizione quanta ne occorre per giungere fino al paradiso terrestre (sommo smalto: terreno adorno di colori vivi e splendenti; secondo più di un commentatore sarebbe metafora del Paradiso, più che della cima del Paradiso Terrestre), (ebbene) se hai (se conosci) notizie vere della Val di Magra (la Lunigiana) o di luogo (territorio) vicino (circostante), fammele sapere, a me che lì, in quei luoghi, sono stato un potente (ovvero: appartenente a potente, grande e importante famiglia: e qui ritorna un tema di fondo: il malinconico, anche se orgoglioso, ricordo della vita terrena, dei momenti di gloria, dei giorni e degli anni lieti vissuti da potenti della Terra, da uomini di Potere). Ero chiamato Corrado Malaspina, non sono il Vecchio (il capostipite), ma discendo da lui (sono un suo discendente); ai miei familiari ho portato l’amore che qui si purifica (cioè, non più solo amore per la casata e la sua grandezza, ma amore libero da ogni scoria, impurità, rivolto a Dio e al prossimo).

E Dante (che è stato lì da esule, risponde fingendo di non conoscere quei luoghi): Oh, io non sono mai stato nelle vostre regioni (nelle vostre terre); ma in quale parte abitata dell’Europa non è ben risaputa (non è conosciuta, ben nota) la fama di liberalità dei loro signori (nota attraverso gli omaggi dei tanti poeti, trovatori provenzali che erano stati da loro ospitati)? La fama (di liberalità, generosità) fa onore alla vostra famiglia, celebra ed esalta ovunque con le lodi i nomi dei loro signori e dei territori da loro governati, tanto che li conosce anche chi non vi è mai stato. E vi giuro, possa io arrivare alla cima del monte e poi al Paradiso, che la vostra onorata famiglia (così ovunque e da tutti tanto celebrata) merita di continuare a fregiarsi dei due grandi pregi della liberalità (borsa) e del valore militare (spada, che sono i due grandi pregi della vera nobiltà). L’esercizio del bene e la disposizione naturale (al bene) e l’abitudine a farlo (l’esercizio del bene…) danno alla vostra famiglia un tale privilegio da farla procedere quasi in solitudine per la retta via disprezzando quella malvagia (del mal procedere) per quanto il mondo (cioè, Roma caput mundi, l’imperatore assente e soprattutto il papa e la Chiesa corrotti dalla sete di Potere e di ricchezze) faccia deviare (e traviare tutti (dal giusto sentiero; il mondo è tutto fuorviato, tutto corrotto e disposto al male, ma i Malaspina vanno per la loro retta strada).

E Corrado chiude con questa replica il canto-capitolo: Ora va; perché non passeranno sette anni e il sole non ritornerà sette volte nella parte del cielo che la costellazione dell’Ariete copre e occupa con tutti e quattro i piedi, che questa tua cortese opinione sulla mia famiglia ti sarà confermata (fissandola, imprimendola) nella mente dalla tua personale (diretta) esperienza, con argomenti (chiodi) ben più efficaci (convincenti) dei discorsi (delle parole) degli altri (del sentito dire), se il corso della volontà divina non si ferma (il tuo giudizio sulla liberalità e sul valore della mia famiglia ti sarà confermato tra sette anni, nel 1306, quando, da esule, sarai generosamente ospitato, se così vorrà la volontà di Dio che ha deciso che il tuo destino, il corso della tua vita vada in un certo modo)…

 

 

Termina così, con le dolenti e pacate note sulla profezia dell’esilio il canto-capitolo ottavo che era già iniziato con il tema del viandante e, insomma, di chi si trova lontano dalla patria e dagli affetti più cari e sente dentro il suo cuore e nella sua mente un desiderio e una nostalgia struggenti. A noi lettori (che Dante vorrebbe sempre attenti e agguerriti nel leggere le sue parole in profondità e non alla superficie) resta la tristezza e la malinconia del Poeta che, in maniera sublime fino all’ineffabile, è riuscito a sublimare il proprio dolore e la propria sofferenza con pagine immortali. Anche adesso, per l’ennesima volta, il messaggio di fondo appare l’uomo e il suo essere portato al Bene o al Male. Anche qui Dante sembra dire: Ah, se gli uomini fossero più buoni e portati ad operare virtuosamente per il bene comune, per la pace, la giustizia, il progresso, ecc. ecc. come tutto sarebbe più bello su questa Terra! E il buon governo dei Malaspina lo dimostra…Gli effetti del Buon come quelli del Cattivo Governo, si potrebbe dire parafrasando i celebri affreschi di Ambrogio Lorenzetti, un quasi contemporaneo di Dante, al quale sarebbero piaciuti senza alcun dubbio e di fronte ai quali avrebbe detto probabilmente: Ma questo è praticamente quello che intendo io!…

Infine, a conforto della mia tesi della Commedia come romanzo, mi corre l’obbligo di citare due critici e conoscitori di Dante. Il primo è Giuseppe Petronio il quale, in merito all’episodio di Corrado, parla di sapienza narrativa e di un’abilità…che certo non è in alcun altro narratore del tempo, in verso o in prosa. Il secondo è Vittorio Capetti il quale, commentando nel lontano 1903, scriveva che la bellezza del canto, a differenza di molti altri, qui venga…anche da un’abilità di narratore che complica le fila del racconto, lo interrompe e ve ne innesta un altro, quasi gareggiando coll’epica romanzesca. Ed è vero: Dante qui complica la narrazione con sequenze diverse e il lettore deve stare molto più attento a seguire lo svolgimento del racconto, l’intreccio che si fa sempre più complesso perché, altrimenti, se perde il filo, non si raccapezza più e non ci capisce niente… Ma adesso andiamo a vedere il canto-capitolo nono che inizia anch’esso con una scena, con una finzione propria da romanzo: Dante che ha fatto un sogno