Alessandria del Carretto-27/07/2013:Una Scandinavia dai colori mediterranei. Tra “I dimenticati” di Vittorio de Seta
Una Scandinavia dai colori mediterranei. Tra “I dimenticati” di Vittorio de Seta
24 luglio 2013
di Francesco Bevilacqua
Camminiamo nelle montagne di Alessandria del Carretto, sul versante orientale del Massiccio del Pollino, nell’omonimo parco nazionale, poco all’interno della costa ionica. Siamo alti, sopra il paese. Oltre quella zona liminare, fatta di campi e pascoli, dove non va più nessuno. Un tempo queste montagne erano frequentate quotidianamente da pastori, contadini, carbonai, legnaioli, boscaioli. Sembra di udire quelle voci, quei belati, quello scampanellare.
Abbiamo lasciato l’auto a Piano Farneto. Qui ogni nome ha significato: una pianta, un animale, un fatto, una forma, un utilizzo, una presenza, un ricordo.
Ci sono una serie di “rifugi forestali” e un “laghetto collinare”. Nomi comuni, questi, che raccontano un’altra storia, quella degli sprechi della forestazione e di chissà quale altra provvidenza statale per il Sud. Opere inutilizzate, chiuse, buone solo per propiziare qualche abbuffata epocale nei giorni deputati di pasquetta e ferragosto o in qualche domenica estiva: l’unico modo che la maggior parte della gente conosce per andare in montagna.
Avanziamo in mezzo a praterie fiorite. Veccie, speronelle, papaveri, margherite, viole, orchidee. Siamo all’inizio dell’estate. La terra, dopo il lungo sonno invernale, si risveglia. Acqua, aria, terra, semi, hanno disegnato una tavolozza policroma. E’ la resurrezione annuale, una festa di colori e profumi. E’ la rinascita che ogni anno investe le antiche civiltà contadine del Mediterraneo. Quelle comunità che vivevano in ragione dei cicli stagionali di nascita, vita, morte, rinascita. Era l’agricoltura dell’aratro, produttrice per eccellenza di cereali, che, come ricorda Ernesto de Martino (in “Morte e pianto rituale nel mondo antico”), praticava la rotazione delle colture, si insediava stabilmente sul suolo, dava grande sviluppo all’allevamento di bovini ed equini, conosceva la mungitura del latte, utilizzava gli animali nel corso dei lavori agricoli, comportava una particolare esperienza del ritmo stagionale e un acuto rapporto con la polarità vita-morte, sonno invernale-risveglio vegetale.
Il cielo brontola. Tuoni attutiti in lontananza. Nuvole nere si alternano a sprazzi di sereno. Ci sarà pioggia. Non esiste il cattivo tempo, diceva il fondatore dello scoutismo, Badel Powel, esiste solo il cattivo equipaggiamento. E noi siamo equipaggiati: ombrelli con il manico segato, mantelline impermeabili, giacche e copri pantaloni sempre pronti negli zaini, per ogni evenienza. Io non fuggo dinanzi al temporale. Me lo bevo tutto, fino all’ultima goccia. Perché è uno degli spettacoli più straordinari della natura. Ovvio che non lo cerco. Ma se viene, nessun dramma. Mi godo il cielo che mette in scena tutta la sua potenza. E se un fulmine è il mio destino, ben venga: sono fatalista.
Tagliamo lungo un sentiero che sale diagonalmente verso nord. Un enorme pioppo tremolo ingombra il cammino con un grande ramo spezzato, ancora saldamente appeso al tronco. Non lontano, giacciono sparse le ossa calcinate di una vacca. Forse hanno sfamato un branco di lupi. Proprio in queste montagne si consumò, diversi anni fa, una strage efferata di questi straordinari predatori. Con bocconi avvelenati ne furono uccisi cinque in una volta. Sterminato un intero branco. Qualche anno prima avevo incontrato, d’estate, un anziano pastore che girava armato, la doppietta a tracolla, nonostante fossimo in periodo di caccia chiusa. Il parco nazionale non c’era ancora. L’osso del bacino della vacca, con i suoi grandi buchi simmetrici, è una curiosa maschera naturale. Intorno ai resti c’è anche qualche fatta di un grosso canide. Difficile stabilire se si tratti di lupi o cani rinselvatichiti.
Al Sud, a fronte di poche centinaia di lupi, vi sono decine di migliaia di cani rinselvatichiti, frutto dell’abbandono in foresta di intere cucciolate soprattutto da parte di pastori. Molti sono anche i cani perduti dai cacciatori. Tutti ritornano alla vita selvatica dei loro avi. E come loro si comportano. Con la differenza che i lupi temono l’uomo e ne sfidano armi e trappole solo se assolutamente necessario, mentre i cani rinselvatichiti no. E poi, in un branco di lupi si accoppiano solo il maschio e la femmina di rango più alto. In una muta di cani vige, invece, l’amore libero. Il ritmo di proliferazione è, dunque, nettamente diverso.
Intersechiamo la strada a fondo naturale che sale da Alessandria del Carretto e si biforca. Il ramo di destra corre sempre a mezza costa nel Bosco di Spinazzeta penetrando nel territorio del confinante comune lucano di Terranova di Pollino. Il ramo a sinistra sale verso la sommità di Timpone della Neviera.
Alessandria del Carretto, mille metri di quota, è il paese de “I dimenticati” di Vittorio de Seta. Un cortometraggio girato nel 1959, quando non c’era neppure una strada carrabile che portasse al paese. Chi proveniva dalla costa doveva sobbarcarsi un lungo e faticoso tragitto a piedi. Nell’alveo ghiaioso ed impervio, spesso burrascoso, del Torrente Saraceno. E poi su, per labili sentieri, appesi sopra abissi insondabili. Il film fu girato in aprile. Giornate cupe, piovose. Greti dei fiumi densi di rapide spumeggianti. Fango e pietre lungo le antiche mulattiere. Nubi incombenti nel cielo. Montagne con ancora i segni degli improvvidi tagli delle ultime foreste primigenie del Sud. Case di pietra, vicoli, usci, finestre. Grigi e marroni come la terra, della quale erano semplici escrescenze. Mille e seicento uomini e donne vestiti di orbace, fustagno, velluto. Vivevano una vita autarchica, arcaica, sperduta in un luogo che per gli italiani, per una nazione in rapido sviluppo, poteva anche non esistere. Suoni più che voci. Atmosfere più che scene. Il film racconta di una festa tradizionale, quella dell’abete (la “pita”).
A primavera, dopo il lungo silenzio invernale, in gran parte trascorso sotto la neve, i contadini di Alessandria ritualizzano (il rito non è altro che la ripetizione simbolica di un mito) a loro modo il ciclo agrario della morte e della rinascita (de Martino, la chiama, efficacemente, “passione vegetale” o “passione delle messi”, intesa come vuoto che si accompagna alla morte della pianta per effetto della raccolta). E’ un rito espiatorio. E’ il pregare che il ciclo non si interrompa. E’ propiziarsi il nume che governa questo misterioso universo culturale. Luigi Lombardi Satriani e Mariano Meligrana (ne “Il ponte di San Giacomo”) ricordano, per Alessandria ed altri paesi della zona, un altro rito (detto scaccu), ormai scomparso, con lo stesso significato: l’uccisione comunitaria, con una sorta di tiro a bersaglio, di un capretto appeso in piazza, il cui effetto più evidente era lo spargimento del sangue, altro evento altamente simbolico nelle comunità contadine del Sud.
Nella memoria ancestrale di quei contadini, di quei pastori, il mito è iscritto a caratteri indelebili. Ancora oggi, visto che la festa dell’abete si ripete, uguale a se stessa da secoli. Gli abitanti del paese – salgono in massa alla Spinazzeta, scelgono l’abete più alto e slanciato, lo abbattono, lo sramano, lo scortecciano. Poi, tutti insieme, trasportano il gigante morto, a braccia, sino al paese, urlando, cantando, imprecando. Li accolgono le donne, con cibo e vino. Si banchetta, si eccede, si danza, ci si stordisce. Poi l’abete viene issato nella piazza del paese. Liscio ed enorme. Nuovamente eretto. Con in cima l’innesto di una chioma ancora perfettamente verde, da cui pendono doni. I più ardimentosi si fidano a chi riesce a salire sin lassù senza nessun aiuto. Solo braccia e gambe. Come ragni. Poi la festa finisce. Torna il silenzio, la solitudine, i tempi lunghi, i gesti lenti e iterati di una vita conservatasi così per secoli.
Qualche anno fa la festa dell’abete di Alessandria è ricomparsa in un film: “Le quattro volte” di Michelangelo Frammartino. Girato interamente in Calabria. Senza parole. Senza musica. Solo immagini e suoni. Per rendere il senso arcaico di un modo di vivere che, nonostante l’omologazione imperante, è ancora lì, abbarbicato su un costone di monte, in un luogo sperduto dell’Europa opulenta e moderna. C’è una sacca di persistenza, insomma.
C’è un relitto autenticamente (e non retoricamente) identitario. C’è qualcuno che tramanda un mito. C’è un piccolo popolo che, attraverso un rito, ritrova il senso del suo stare al mondo, la ragione dell’appartenere ad una patria, ad una comunità. C’è gente, ancora, che non si rassegna a che Alessandria del Carretto divenga l’ennesimo paese fantasma.
Ci addentriamo nel Bosco di Spinazzeta. Un pastore in fuoristrada si ferma curioso. Scopro che è il figlio del vecchio col fucile. Ora c’è lui, nonostante tutto. Dice che quella vita gli piace. Ha fatto altro da giovane. Ma ora è tornato. Non ha saputo sfuggire a un richiamo inespresso dentro di sé.
La luce dei pascoli, dei prati, dei vecchi campi di grano, delle pendici denudate, si attenua man mano che entriamo nella foresta. Accanto agli ontani e agli aceri, ecco apparire i maestosi abeti bianchi. L’ombra risucchia la luce. Potremmo credere di trovarci in un angolo di Scandinavia, contaminato da colori mediterranei. Strane regioni, queste montagne del Sud! I viaggiatori stranieri vi ritrovarono la Svizzera, la Scozia, la Norvegia, le Alpi, ma senza le cupe atmosfere di quelle selve gelide e grigie.
La strada diviene sentiero, il sentiero traccia, la traccia un labirinto di piste di animali. Ci sperdiamo nella Valle Nera. So perfettamente dove siamo. Sono orientato. Ma l’occasione di vagare per un po’, liberamente, non me la lascio sfuggire. Veniamo ripagati, come sempre. In un vallone tra due sorgenti (una con gli abbeveratoi ancora intagliati in tronchi d’albero) rinveniamo un nucleo relitto di abeti ed aceri giganteschi: trenta metri e più d’altezza, almeno un metro e mezzo di diametro, credo cinquecento anni di vita almeno. Ci attardiamo a rendere omaggio a questi patriarchi arborei, a questi spiriti della foresta, come avrebbe detto Dino Buzzati, che proprio ad essi dedicò un bellissimo ed originale romanzo, “Il segreto del bosco vecchio”. Ma il bosco viene investito da raffiche inquiete. E la luce si oscura. E il cielo – che non scorgiamo – rantola. Ci affrettiamo lungo un’erta che man mano fuoriesce dal bosco.
Il tempo di scorgere alcune rare fioriture di genziana lutea, ed eccoci sulla stradina di crinale del Timpone della Neviera, con ancora altre tre ore di cammino e una trapunta plumbea di nubi che sembra voler aprile le sue cateratte.
Decidiamo di continuare il percorso prefissato: un anello, senza tornare sui nostri passi.
Saliamo verso Timpone della Rotondella immersi in una atmosfera onirica. Alla sella di Taccapeppini arriva la pioggia. A scrosci e a raffiche. Come si addice ad un temporale estivo. Indossiamo l’equipaggiamento anti pioggia. Sotto l’acqua giungiamo al “paleolago” di Lagoforano, una piccola conca, anticamente, forse, invasa dall’acqua poi tracimata. Troviamo un altro piccolo rifugio di pietre. All’interno un volantino attaccato ad una trave recita: “Accompagnatore sui punti panoramici ed inesplorati del Pollino raggiungibili solo con fuoristrada (otto posti)”. E di seguito numero di telefono ed indirizzo mail. Curioso come sia facile fraintendere il senso di un parco nazionale. Se questo signore crede che i luoghi selvaggi del Pollino siano raggiungibili in fuoristrada, allora del Pollino non ha visto quasi nulla. E inoltre non ha compreso che in montagna si va a piedi. Che è l’unico modo per sentirla davvero, la montagna. Per coglierne, con lentezza e rispetto, tutta la bellezza, tutte le storie che essa sa raccontare.
La sfuriata temporalesca è passata. Siamo zuppi, ma un vento caldo ci conforta. Scendiamo ora sul versante sud del Monte Sparviere. Attraversiamo la parte più rigogliosa della sua famosa acereta. Un bosco misto, in cui convivono ben sei specie diverse di aceri. Questa foresta è un tempio, una cattedrale. E come in una grande chiesa dalle alte navate, ecco penetrare nuovamente il sole, in lunghe linee oblique. Siamo sulla via del ritorno. Giungiamo all’auto dopo sei ore di cammino. C’è ad attenderci Vincenzo Arvia, un caro amico di Alessandria, che per questi luoghi ha fatto e fa tanto. E’ anche lui uno dei dimenticati di De Seta. Ne va fiero. Cerca di conservare e tramandare memoria. Perché solo la memoria può guarire questo nostro strano mondo malato. Che ha scelto vite innaturali ed ora comincia a pagarne le conseguenze. Anch’io mi sento un dimenticato.
Annoto sul mio diario. “Il mal di testa (e di cuore) è la condizione del mio non essere nelle cose, in queste cose che mi circondano quotidianamente. E’ il grido del mio corpo che vorrebbe evadere. E’ il vedere la terra e non poterla zappare ogni giorno. E’ il vedere il bosco e non potermici smarrire ogni giorno. E’ il vedere il sole e non potergli esporre, ogni giorno, un volto scuro e rugoso. E’ il sentire il vento e non permettergli di mutarmi il sangue, ogni giorno. C’è un rito che mi toglie, temporaneamente, da questa condizione. E’ il giorno d’aria, lo spaziamento, come lo chiamano i monaci certosini. Quando divento mulo, asino e capra. Quando lascio la pianura insozzata e salgo nella purezza della montagna. Aspro deve essere il cammino. Irto il sentiero. Dura la salita. Per far sentire la stanchezza. Per farmi ansimare. E sudare. E contemplare. E sentire l’aria rarefarsi, divenire limpida. Vedere vespe ronzare sui fiori. E le cose farsi chiare e semplici. Senza complicazioni. Solo cammino, e fatica, e cime da raggiungere, e gioia, e comunione. E osservare un orizzonte più vasto del monitor di un computer o del tetto di un palazzo. Senza aver davanti libri che ti spiegano le regole della vita. Quella vita che ogni giorno mi duole. Alla testa e al cuore.”
Estratto da www.calabriaonweb.it