Trebisacce-03/12/2015:Profilo di Dino Campana (di Salvatore La Moglie)

 

Salvatore La Moglie
Salvatore La Moglie

Profilo di Dino Campana

 

di Salvatore La Moglie

 

Sera, silenzio, deserto, ombra, luce, notte, ricordo, infinito, cuore, crepuscolo, cielo, sole, felicità, tempo, morte, vita, oblio … e, soprattutto, mistero, enigma, sogno, chimera… Queste sono alcune delle parole, dei sostantivi che ricorrono con più frequenza nelle poesie in versi e in prosa di Dino Campana, il “poeta pazzo” e maledetto della letteratura italiana del Primo Novecento. Non è facile parlare di una personalità così complessa come Campana così come non è facile collocarlo schematicamente in una particolare corrente letteraria e ha ragione Mario Lunetta a definirlo «non omologabile». Tuttavia, se l’irregolare Campana è in gran parte estraneo al clima letterario fiorentino e alla cultura espressa da riviste come Lacerba e La voce, non è estraneo alla cultura e alla nuova sensibilità generata dal Simbolismo e dal Decadentismo francese di cui fa rivivere la poetica. Se Campana non è crepuscolare, se non è futurista o ermetico è certamente un grande poeta che si forma e cresce nel grande clima del Decadentismo europeo che rivoluzionò le “coordinate” della poesia e della narrativa introducendo, fra l’altro, la scoperta dell’inconscio, cioè di una realtà psichica profonda e importante che ci pone di fronte alle tante facce di cui è fatta la nostra personalità.

Il “poeta maledetto” nasce a Marradi, in provincia di Firenze, nel 1885. La sua giovinezza e la sua maturità sono tormentatissime, entrambe vissute tra ghetto manicomiale e peregrinazioni in Italia e all’estero. Tra il 1916 e il ’17 ha una relazione breve ma tumultuosa con la scrittrice Sibilla Aleramo, al termine della quale finisce per essere definitivamente rinchiuso nel manicomio di Castel Pulci. Siamo nel 1918 e Campana finirà i suoi giorni in quel manicomio. La morte “avrà i suoi occhi” nel 1932. Quanto abbia pesato il fallimento della relazione con l’Aleramo su una psiche già sconvolta, turbata e dal fragilissimo equilibrio non è dato sapere. Certo, la fine di quella struggente passione avrà avuto un’influenza non secondaria in quell’infelice epilogo esistenziale.

Il “poeta matto” vive e produce poesie tra la fine del periodo giolittiano e il fascismo al potere. La sua cultura e la sua formazione sono certamente di respiro europeo. Campana non si ciba solo di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, dei crepuscolari e dei futuristi ma si ciba anche dei grandi maestri del Decadentismo francese: Baudelaire, Rimbaud, Mallarmè, Verlaine…e conosce bene anche vitalismo dell’americano Whitman e il pensiero nichilista di Nietzsche, dal quale subisce un’influenza non secondaria. Basti pensare, per capirlo, a quanto di “dionisiaco” c’era in lui e anche quanto grande fosse – similmente a Nietzsche – la tensione onirica e utopistica che lo portava a sognare una realtà altra in alternativa a quella di tutti i giorni, nella quale non si riconosceva e viveva da emarginato, da estraneo e da “maledetto”. Perché, in verità, quando la realtà è diversa da noi e da come noi la vorremmo, non possiamo viverci bene e in armonia e, dunque, non ci resta che fuggire da essa, estraneandoci fino a crearcene un’altra a nostra immagine e somiglianza. Così anche la follia può essere – pirandellianamente – una forma di reazione alla realtà e anche una particolare forma di esistenza. Non solo, ma la “lucida follia” consente di “leggere”, decodificare meglio la realtà che ci circonda e di cogliere, “visionariamente”, quei significati e quegli aspetti misteriosi che ad altri è negato. Dino Campana – e tutta la sua poesia ne è la perfetta dimostrazione – è davvero un “poeta-veggente”, alla Rimbaud, tanto per intenderci, capace con improvvise “illuminazioni”, “folgorazioni”, “rivelazioni” di cogliere un oltre e un mistero esistenziale e psicanalitico che solo a pochi è concesso. Come Rimbaud, egli vuole cambiare la vita fino a sognarla – utopisticamente – “rovesciata”, all’insegna di una “chimera” che resta lì, sullo sfondo, come oggetto impossibile dei suoi pensieri e dei suoi desideri. Come Rimbaud, infine, Campana perde la vita per delicatezza: “impazzisce” il poeta, la persona sensibile, “debole” e poco “adatta”, darwinianamente e freudianamente, e non certo il “sano”, l’”adatto” alla realtà in cui vive. Campana è, indubbiamente, un “inetto” alla vita, nel senso sveviano della parola, inadeguato alla realtà, “insufficiente” ad essa (direbbe Moravia) e, dunque incapace di adattarsi e di vivere la vita di tutti i giorni. E cosa resta, in questa situazione esistenziale, al povero Campana? Non resta che inseguire il suo Sogno, e la sua Chimera: non gli resta che la Poesia e quindi, la scrittura e la creazione artistica attraverso la quale, solo riesce – nicianamente – a liberarsi dalla sofferenza e a farsi la vita leggera. Che il Poeta fosse consapevole della sua “pazzia-inettitudine” e dell’importanza capitale che la poesia, la scrittura costituissero per lui come alternativa di vita e particolare modalità di esistenza nei confronti di un mondo e di una realtà che contestava e verso le quali era in continua rivolta, lo si comprende abbastanza bene da quello che dichiara il 6 gennaio 1914, quando si presenta a un Prezzolini certamente stupefatto da quello “strano” personaggio:

 

   Io sono quel tipo che fui presentato al signor Soffici all’esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone. Scrive novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi.

 

Scrivere, poetare, essere stampati…: in una parola: vivere! Fare poesia consente a Dino Campana di vivere, di sentirsi vivo, di riappropriarsi di se stesso, della propria esistenza, della propria identità e della sua stessa coscienza inquieta, tormentata e smarrita che una buona terapia psicoanalitica avrebbe potuto evitare che si torturasse e spegnesse in un manicomio. In un mondo così impoetico, ormai così poco sensibile alla bellezza della Poesia, il Nostro crede testardamente nella Poesia, nella parola poetica che ritiene la  sola capace di svelare il mistero che ci circonda e  la sola capace di condurci in un’altra realtà, illuderci che la felicità può anche esserci; di farci vivere in un mondo incantato dove è possibile anche sognare e credere e sperare che la Chimera non è soltanto nella nostra fantasia.

Il nome di questo poeta così originale e innovativo, ma anche così poco conosciuto, è legato a quel capolavoro poetico che sono i Canti Orfici che egli pubblica a sue spese nel 1914, dopo aver ricostruito a memoria il testo originale (Il più lungo giorno) che Ardengo Soffici ha smarrito. Certo, egli ha scritto altre opere uscite postume: gli Inediti (1942), Taccuino (1949), Lettere (1958), e Taccuino fiorentino (1960). Va ricordato, infine, che nel’73 viene pubblicato il famoso manoscritto che si riteneva smarrito, Il più lungo giorno e che è stato, invece, recuperato tra le carte di Soffici.

Perché Canti Orfici? Ecco come spiega Alberto Asor Rosa in un suo profilo di Campana, scritto qualche tempo fa per una serie di poeti del ‘900 pubblicati dall’Unità in piccoli volumetti:

 

  Canti Orfici vuol dire esperienza poetica che, alla pari degli inni orfici antichi (IV-V sec. d. C.), usa il linguaggio umano per alludere ad una forma di conoscenza superiore, quasi divina, esoterica ed iniziatica, dunque, eppure al tempo stesso capace di far vedere a tutti cose che l’occhio normalmente non vede. E’ vero dunque, che Campana usa materiali che, isolatamente presi, potrebbero anche essere definiti carducciani o dannunziani. Ma la violenta spinta che Campana imprime loro ad andare oltre la superficie rivela in lui una autentica vocazione visionaria, lo sguardo del veggente che scorge ciò l’essere umano normale, e il poeta comune, non riesce  a scorgere.

 

Orfismo, Orfeo sono due parole che significano più di una cosa: potere d’incanto e quasi d’incantesimo del canto e della musica; potenza dell’amore, mistero e religiosità, misticismo ed esoterismo; ma anche tendenza a fuggire il reale per immergersi nel mondo della “visione”, per immergersi in una realtà e in un linguaggio puro, originario e mistico, per poi poter reperire certi archetipi, certe immagini “primitive” e fuori dal tempo. Orfismo è anche sguardo, vista, impossibilità di rinunciare a voltarsi e a guardare (a guardare Euridice fatta ritornare in vita…). E, dunque, incapacità di rinunciare all’Amore, al Sogno e a Sognare. Sognare di essere felici… E Campana non è stato mai felice. Forse la Chimera di cui parla potrebbe anche essere una metafora della felicità che non c’è. Il poeta ha viaggiato, peregrinato molto e poetato per cercare se stesso e anche la felicità, l’eterna chimera, sempre, però, attraverso «le vie leggere del sogno», quando il sogno non è «tortura». Ecco cosa scrive in una poesia in prosa (“Il viaggio e il ritorno”):

 

(…) ed il mio cuore era affamato di sogni, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice dell’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi sulla sua forma pallida come un sogno uscita dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosee il mio antico cuore (…).

 

Attraverso una poesia spesso ermetica e “iniziatica”, ricca di analogie nella quale non mancano – come nei simbolisti francesi – le sinestesie e gli ossimori, il tormentato e inquieto poeta di Marradi ci conduce nel suo mondo incantato dopo essere uscito dal mondo disincantato e dopo aver provato il disincanto del mondo. Alla fine del “viaggio” – che è anche soprattutto viaggio nel sogno e nell’inconscio straziato – non riesci a non voler bene a quest’anima irrequieta e, quasi, ti metti a sognare con lei. Non a caso Sebastiano Vassalli ha dedicato anni di ricerche e, alla fine, un libro a «quest’uomo meraviglioso e “mostruoso”» (sono parole sue): La notte della cometa. Dal quale si apprende che la mente del Poeta, che era già debole, vacillò ancor di più in seguito alla sifilide che si era buscata per aver frequentato le “donne di vita” di Genova e, soprattutto, quando Soffici smarrì il manoscritto delle sue poesie. Poi venne la drammatica rottura con l’Aleramo, che fece il resto…

I principali temi della poesia campaniana sono: l’amore, la donna, il mistero, il tempo (anche quando cessa di scorrere); il viaggio e il ritorno; l’amore panico, dannunziano per la natura; la morte; la potenza del silenzio; il ricordo, la memoria di ciò che è stato; l’infinito; il lato enigmatico della vita; il contrasto tra luce e ombra, giorno e notte; l’oblio; la felicità, il sogno, la Chimera…Questo – per usare una sua espressione – il panorama scheletrico del mondo. Un mondo in cui Campana visse un disagio e nel quale operò in solitudine, perché non fu amato e non fu capito neanche dagli intellettuali conformisti della sua epoca. Ha ragione Alberto Asor Rosa quando scrive che «la sua ricerca» fu «solitaria» e che fu grande innovativo pur non avendo «creato né una scuola né una tradizione. (…)».

Se dovessimo immaginare cosa ci direbbe oggi Campana sulla sua vita infelice e così disperatamente vissuta all’insegna del Sogno, del Sogno che la realtà, il destino e anche gli uomini gli hanno impedito di realizzare e di vivere, diremmo che il “poeta pazzo” – con il volto triste e gli occhi stralunati e smarriti – pronuncerebbe le parole che, tanto tempo fa, scrisse durante uno dei momenti poetici più creativi: «Ci hanno avvelenato le sorgenti del sogno, a noi che non avevamo altro che il sogno a consolarci».