Trebisacce-18/05/2016:Profilo di Giorgio Caproni (di Salvatore La Moglie)

Salvatore La Moglie
Salvatore La Moglie

Profilo di Giorgio Caproni

 

di Salvatore La Moglie

 

 

Sono ormai ventisei anni che Caproni ci ha lasciati. Venuto al mondo di gennaio (il 7, nel 1912) si è congedato, «cerimoniosamente», sempre di gennaio (il 22, nel 1990), quasi “in ombra”, lui maestro in ombra, secondo la efficace definizione di Pasolini. E Caproni era certamente maestro in ombra in quanto, pur non appartenendo né avendo creato alcuna scuola, è riuscito ad essere un grande maestro – maestro di vita e di pensiero – operando sostanzialmente nella solitudine. Se Quasimodo è stato definito da qualcuno come un “compagno di viaggio” dell’ermetismo, Caproni, ermetico, lo è stato solo per una brevissima stagione. E questo perché Egli, della parola, più che l’oscurità ne amava la chiarezza, più che l’astrusità e l’enigmaticità ne amava la semplicità quasi a volere rendere familiare e alla portata di tutti quel genere – la poesia – che, da Petrarca  in poi, sembra essere la forma letteraria scritta unicamente per gli spiriti eletti.

Si è parlato, per Caproni, di varie “ascendenze” e suggestioni letterarie, poetiche soprattutto e anche filosofiche. Si è parlato dell’influenza della lettura di Dante (persino nel titolo di una raccolta poetica: Il seme del piangere), ma anche di Guido Cavalcanti e di Petrarca e, quindi, del Carducci e del Pascoli. Nessuno – mi pare – ha colto qualche suggestione foscoliana che – come si vedrà – è ravvisabile, a mio avviso, in qualche parte. Si è parlato molto, poi, dell’influenza del Saba, che certamente c’è stata, e si è parlato anche di suggestioni del simbolismo francese (Baudelaire, Mallarmè, Verlaine, Rimbaud). Anche il pensiero filosofico moderno (Schopenhauer e Kierkegaard, ma soprattutto Nietzsche) ha avuto il suo peso nella formazione e nella visione del mondo del nostro Poeta. E perché non pensare che l’abbia avuto anche il Borges delle “finzioni” e del “labirinto”, il Borges cioè delle grandi metafore della vita? Del resto Egli stesso ammise, una volta, che la lettura del Montale degli Ossi di seppia costituì un “trauma” salutare per la sua futura creazione poetica, in quanto – evidentemente – nel capolavoro montaliano ravvisava  e rintracciava temi e motivi fondamentali per la sua visione della poesia e della realtà. Montale e Caproni, quasi contemporaneamente, vissero in una temperie storico-culturale che vedeva crollare tutto un mondo e una società (quelli borghesi) insieme ai loro valori e ideali che – dopo tanto dire e esaltare – si erano rivelati “falsi e bugiardi”. Il progresso non era progresso per tutti, la libertà era libertà per pochi; la democrazia e la giustizia tanto meno; la filosofia e la scienza positiviste non avevano mantenuto le loro promesse né avevano saputo rispondere ai grandi perché e ai grandi misteri della vita: avevano ucciso il sogno e la fede creando quello che Max Weber ha, con efficace formula, definito il disincanto del mondo.

E, dunque, come si presentavano la realtà e il mondo agli artisti e ai poeti? Si presentavano instabili, relativi, sfaccettati e inafferrabili e, quindi, anche difficili da narrare. Perso il senso della “centralità” e della “totalità”, l’uomo-artista si sentì “periferico” e, perciò, smarrito e sconfitto in un mondo e in una realtà che non riusciva più a dominare e a capire e dai quali invece, si sentiva dominato e incompreso. Insomma, per dirla con Montale, ci si accorse di essere in completa disarmonia con la natura e la realtà, e questo perché le certezze, i punti fermi, le coordinate principali della nostra esistenza erano crollati, si erano disgregati portando a quel tramonto dell’Occidente tanto ben descritto dall’apocalittico Spengler. E che si trattasse anche di una visione catastrofica della vita e del mondo era la conseguenza  di quel crollo di certezze e del crollo della stessa visione ottimistica, rassicurante e piena di speranze ad essa legata. Questa visione, priva di speranze e ormai disillusa e disincantata, è ampiamente rintracciabile nell’opera di Caproni che – come ogni scrittore – ha avuto i suoi “autori” e i suoi “maestri” ma ha cercato sempre una sua originale “via” alla scrittura e alla poesia. E originale Caproni lo fu certamente e senza ombra di dubbio.

Giorgio Caproni nasce a Livorno ma vive l’adolescenza e la giovinezza a Genova, città amatissima e protagonista di alcune delle sue poesie più belle. Nel ’38 si trasferisce a Roma per viverci definitivamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, alla quale partecipa e la cui terribile esperienza lascerà un indelebile ricordo. La partecipazione alla guerra prima e alla lotta partigiana poi, sono narrate rispettivamente nel diario Giorni aperti e nel racconto Il labirinto. La prima raccolta poetica esce nel ’36 col titolo Come un’allegoria; seguono Ballo a Fontanigorda nel ’38, Finzioni nel ’41 e Cronistoria nel ’43. Nel Secondo Dopoguerra seguono altre raccolte: Gli anni tedeschi (nel 1943-47), le Stanze della funicolare (nel ’52), Il passaggio di Enea (nel ’56), Il seme del piangere (nel ’59), Il congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee (nel ’65), Il “Terzo libro” e altre cose (nel ’68), Il muro della terra (nel ’75), L’ultimo borgo (nell’80), Il franco cacciatore  (nell’82), Il conte di Kevenhüller (nell’86) e Allegretto con brio (nell’88). Res amissa, uscito postumo nel ’91, è una raccolta in cui si sente forte, nel poeta, il senso di estrema e dolente solitudine. Le poesie di Caproni sono state raccolte nell’83 in un unico volume intitolato Tutte le poesie e nell’89 col nuovo titolo Poesie 1932-86. Dalla fine degli anni ‘90 fino al 2008 sono usciti postumi anche i Racconti della resistenza,  L’opera in versi, Quaderno di traduzioni, La valigia delle Indie e altre prose, I faticati giorni. Quaderno veronese 1942, Aria celeste e altri racconti e Racconti scritti per forza.

Caproni è un poeta, ma per vivere (poiché, direbbe Montale, la poesia «è inutile», cioè non dà utili, oltre che essere davvero inutile in un mondo ormai così impoetico…) per vivere, dicevo, fa, fino al ’73, il maestro elementare, collabora a giornali e riviste e fa anche (con molta finezza) il mestiere difficile del traduttore. Traduce Proust, Baudelaire, Céline, Maupassant, Char, Genet, Apollinaire e altri ancora.

Numerosi sono i premi che ha vinto : Premio Viareggio, Premio Gatti, Premio Montale, Premio Feltrinelli, ecc. Nell’84 ha ricevuto la laurea honoris causa in Lettere e Filosofia all’Università di Urbino e, nell’85, la cittadinanza onoraria di Genova. Quando il 22 gennaio del ’90 è morto, il poeta non ha avuto l’onore dell’omaggio funebre né delle autorità del Comune di Roma né, tantomeno, di quello dello Stato. Cosa, questa, che costituisce una “dimenticanza” che, certo, Caproni non meritava. Perché – come ha lasciato scritto Pasolini – la presenza di un poeta come Caproni è segno che la vita non è qualcosa di vano e privo di senso, ma ha un significato: «(…) se c’è qualcuno come te, la vita non è persa».

Questo l’omaggio pasoliniano a Caproni, che non possiamo non fare nostro. Perché Caproni è stato grande nel suo modo di essere semplice. Non ha mai ignorato il canone della tradizione e della letterarietà (canone al quale nessun letterato italiano riesce a rinunciare fino in fondo) e ha sempre ricercato l’essenzialità, la chiarezza e la semplicità insieme alla musicalità del verso. La musicalità dei versi era per Caproni (non si dimentichi che il Nostro sapeva suonare il violino) era, dicevo, qualcosa di irrinunciabile. Le sue poesie, i suoi sonetti, sono fatti di endecasillabi, di settenari e ottonari con analogie, ossimori, anafore, sinestesie  e via dicendo in cui le rime baciate o alternate che siano creano suoni privi di stonature. Persino la poesia dedicata a Genova, Litania, non è una litania ma un insieme di distici, di settenari e ottonari a rima baciata che suonano senza disturbare l’orecchio. Metro tradizionale con linguaggio elevato o metro moderno con linguaggio quotidiano, quello che prevale è il suono, la musicalità e la ricerca della musicalità quasi in modo ossessivo. L’altra ossessione di Caproni è stata la ricerca dell’essenzialità e della semplicità di cui parlavo prima. Come Montale, Egli avrebbe voluto essere «scabro ed essenziale» come il ciottolo della strada, e come Saba avrebbe voluto pervenire a una poesia che – senza rinunciare al canone della letterarietà – gli consentisse di vivere, uomo in mezzo agli altri uomini, la vita di tutti i giorni convinto com’era che il poeta non è un uomo superiore agli altri, tutt’altro (così in una  intervista a Studi cattolici dell’ottobre del 1983). A conforto di quanto affermiamo, si possono citare tre dichiarazioni di poetica dello stesso Caproni. Ecco la prima: «C’è stato un movimento, se si può dire, a fuso, “fusolare”: ero partito da una scarnificazione ancora di carattere impressionistico, macchiaiolo, che pian piano si è amplificata e gonfiata nel poemetto, nell’endecasillabo, nel sonetto: finché, poi, forse anche per il trauma della guerra, mi è venuta la saturazione di quelle forme, troppo ampie, e allora ecco il bisogno di tornare alla massima semplicità possibile. Il rumore della parola, a un certo punto, ha cominciato a darmi terribilmente fastidio.

L’unica “linea di svolgimento” che vedo nei miei versi, è la stessa “linea della vita”: il gusto sempre crescente, negli anni, per la chiarezza e l’incisività, per la “franchezza”, e il sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o concettuali, per la retorica che si maschera sotto tante specie, come il diavolo, e per l’astrazione dalla concreta realtà. Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri».

Le altre due dichiarazioni di poetica le troviamo in due poesie dedicate alla madre. Battendo a macchina è la prima di queste: «Mia mano, fatti piuma:/fatti vela; e leggera/muovendoti sulla tastiera,/sii cauta. E bada, prima/di fermare la rima,/che stai scrivendo d’una/che fu viva e fu vera. Tu sai che la mia preghiera./è schietta, e che l’errore/è pronto a stornare il cuore./Sii arguta e attenta: pia./Sii magra e sii poesia/se vuoi essere vita./E se non vuoi tradita/la sua semplice gloria,/sii fine e popolare/come fu lei – sii ardita/ e trepida, tutta storia/gentile, senza ambizione.(…)».   Per lei è la seconda: «Per lei voglio rime chiare,/usuali, in are./Rime magari vietate,/ma aperte: ventilate./Rime con suoni fini/(di mare) dei suoi orecchini./O che abbiano, coralline,/le tinte delle sue collanine./Rime che a distanza/(Annina era così schietta)/conservino l’eleganza/povera, ma altrettanto netta./Rime che non siano labili,/anche se orecchiabili./Rime non crepuscolari,/ma verdi, elementari».

Italo Calvino, in un suo scritto, ha parlato di «ontologia negativa» in Caproni. E non ha sbagliato perché Caproni aveva una visione pessimistica della vita e del mondo, una vita e un mondo privo di certezze e di solidi valori, senza Dio e senza amore, con l’unica certezza della catastrofe e del nulla. Ed è naturale che, in questo contesto, Caproni vive con disagio la Storia: «Fa freddo nella storia», scrive emblematicamente in una poesia.

La concezione pessimistica della vita (vita alla quale Caproni cercò anche di rispondere con l’ironia, il distacco e un certo umorismo spesso gnomico) è rintracciabile negli stessi temi e motivi più ricorrenti nelle sue raccolte. E quali sono questi temi e questi motivi? Sono la solitudine, l’angoscia e la disperazione esistenziali; il sentimento di inadeguatezza alla realtà, la lontananza dal mondo; le illusioni perdute per sempre come gli affetti; il ricordo di ciò che è stato, nel bene e nel male e, dunque, il passato che sembra non essere mai stato; l’amore e il ricordo tenero e doloroso per la madre e per la fidanzata morta prematuramente; il sogno che muore di fronte alla realtà; la giovinezza, la pienezza della vita, quella che Caproni chiama «vita viva» e che contrappone alla realtà dell’”inesistenza”, della “non vita”; la guerra col suo carico di morte, di violenza, di distruzione e di dolore; il ricordo della lotta partigiana; l’amata Genova, città interiore, luogo della mente oltre che reale luogo fisico con i suoi bar, i suoi negozi, i suoi tram, i suoi treni, il suo porto, la sua funivia, le sue biciclette ed insomma con la sua palpitante vita di tutti i giorni. Il viaggio è un altro grande tema della poesia caproniana: viaggio inteso soprattutto come ricerca, viaggio mentale, psicologico, viaggio intorno alla propria anima e all’anima degli uomini, ma anche viaggio alla ricerca di un Dio che non c’è, che probabilmente è morto con Cristo e che, pertanto, appare come una Grande Impostura, un Grande Inganno visto che è sempre così assente, silente e indifferente al destino e al dolore dell’uomo. Che quelli di Caproni siano un viaggio e un viaggiare del tutto particolari, direi verticali, cioè alla scoperta di se stesso, ce lo dicono questi magnifici versi: Se non dovessi tornare,/ sappiate che non sono mai partito./ Il mio viaggiare/ è stato tutto un restare/ qua, dove non fui mai. Caproni canta la condizione dell’uomo moderno di fronte al male e alla noia del presente, di fronte al mistero che ci circonda e di fronte all’inconoscibilità della realtà; un uomo che, perciò, si rifugia nel passato e nei ricordi e che cerca  un Dio che non c’è ma che forse  vorrebbe ci fosse, magari solo per ridare armonia e rimettere ordine in un mondo così entropico, caotico, contraddittorio, disumano e distruttivo che sembra votato alla morte e all’apocalisse. La palingenesi, per Caproni, può esservi, svevianamente, solo quando il mondo cesserà d’esistere, ovvero quando tutti gli uomini non ci saranno più. Poi – come in Svevo – si potrà ricominciare una nuova vita con uomini nuovi. Di fronte a tale presa di coscienza e alla certezza della condizione di solitudine per l’uomo che, a notte, a casa si ritrova solo coi «suoi sospiri», non resta che il congedo, il saluto finale, definitivo da tutti e da tutto: il congedo dalla vita per l’ultimo viaggio: verso la solitudine più assoluta, verso la morte, verso il nulla. Anche questi – quelli del nulla e della morte – sono temi cari al nostro Poeta. Perché Caproni concepisce la morte come il nulla del nulla della vita che è, appunto, un nulla e un assurdo. Infatti, ecco cosa scrive in una delle sue poesie degli anni ’70 «…Son già oltre la morte./ Oltre l’oltre./ Già oltre/ (in queste mie estreme ore corte)/ l’oltre dell’oltremorte…». E si possono citare ancora questi versi: «Se ne dicono tante,/ che la morte è un trapasso,/certo, dal sangue al sasso»…

In verità, è proprio in questa concezione ateistica della morte e del nulla (Caproni è dichiaratamente ateo) che ci pare di rintracciare qualche suggestione foscoliana, di cui parlavo all’inizio. Nella celebre poesia “Alla sera” Foscolo parla della morte come «nulla eterno». Questo «nulla eterno», al quale si approda dopo tanto dolore e tanta infelicità, non può essere sconfitto – secondo l’ateo e meccanicista Foscolo – se non dalla più grande delle sue «illusioni»: la Poesia, la poesia che di «mille secoli il silenzio vince». Come Foscolo, anche il non credente Caproni sembra affidare alla Poesia il compito di sconfiggere questo doloroso nulla al quale tutti siamo condannati come per comune ed eterna pena da scontare, non si sa per quale colpa commessa. L’ateo (solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo, diceva il filosofo Ernst Bloch), il laico Caproni non può credere nel peccato originario di hybris , di offesa tracotante nei confronti di  Dio commesso da Adamo ed Eva, perché per lui Dio non esiste, è solo un’ idea che ci rende ancor più penoso il nostro “viaggio” di viandanti sans bagages nel cuore della notte di solitudine e di dolore che trascorriamo con tremore e smarrimento. Caproni – che conosce Nietzsche – è il poeta della «morte di Dio», un Dio che vorrebbe trovare da qualche parte e nel quale vorrebbe poter credere. Perciò la Poesia finisce per costituire  un modo «di credere in Dio pur sapendo – definitivamente – che Dio non c’è e non esiste». In una breve poesia (I coltelli) ecco come scrive alla fine: «(…). Ah mio dio. Mio Dio. Perché non esisti?». E in un’altra poesia Lamento (o boria) del preticello deriso – parla di Dio negandone l’esistenza e facendo propria la visione del prete “ateo” nella sostanza e credente magari solo perché avere Dio dalla propria parte rende meno dolorosa la «parete/in cui dobbiamo cozzare», cioè il muro spesso e duro della realtà e della vita. E, dunque, così scrive Caproni: «So anche che voi non credete/a Dio. Nemmeno io./Per questo mi sono fatto prete./(…)».

Per vincere «lo sgomento/della vita» che, alla fine, lo ha fatto approdare ai lidi della «disperazione calma», che gli consente di “congedarsi” con distacco e ironia dagli amici, dalle cose più care e dal mondo in cui ha, per dirla con Pirandello, involontariamente soggiornato, il Poeta ha bisogno della Parola, della Poesia che sono le cose che solo restano di noi e che riescono a farci vivere – fosse pure solo mentalmente e fantasiosamente – in quelli che Caproni chiama «luoghi non giurisdizionali». «Tutti i luoghi che ho visto,/», scrive nella poesia Esperienza, «che ho visitato/ora so – ne sono certo:/non ci sono mai stato». Di qui la  ricerca, il desiderio di poter vivere in “luoghi” diversi, «non giurisdizionali» appunto, “luoghi” che godano della extraterritorialità, della extragiurisdizionalità, e, quindi, non soggetti al controllo delle leggi, del Potere e dello Stato e fuori, magari, dalla Storia e dal «rumore della storia». Il mare potrebbe essere uno di questi luoghi: «Il mare in luogo della storia…», scrive in Albaro, poesia degli ultimi anni. Ma luogo «non giurisdizionale» potrebbe essere una metafora dietro cui si nascondono i “numi tutelari” di Caproni: la Poesia e la stessa grande solitudine a cui fa compagnia l’infinita disperazione di uomo che ha compreso a fondo l’assurdità e il non senso della vita, soprattutto quando si presenta come «una quiete/senza umano riscontro…». Solo in questi luoghi «non giurisdizionali» il Poeta riesce a placare, per un momento, il suo animo inquieto e lacerato dalla coscienza del “dolore del mondo”, un mondo che vede ormai senza possibilità di salvezza.

A un Caproni che nelle sue poesie dell’inizio ha lamentato l’assenza del «sole» (Dio? La speranza? La felicità?…) che è «il sale del mondo» e che, negli ultimi tempi, ha parlato di «frana della ragione» di fronte a un mondo che gli sembrava destinato alla rovina, non restava che lasciarci con un’inquietante metafora o allegoria che dir si voglia: quella della «Bestia»: «(…). Anche se non esisteva,/la Bestia c’era./Esisteva,/e premeva./Nel cuore./Fra gli alberi./Sul ponte,/pugnalato e in tremore./Uscito dalla mia tana,/guardavo – nel linciaggio/della mente – il paesaggio./Ai miei occhi, una frana/La frana d’un’alluvione./La frana della ragione». Così scrive nella poesia La frana, nella raccolta Il conte di Kevenhüller. E, in Io solo, ecco cosa si legge: «La Bestia assassina./La Bestia che nessuno mai vide./La Bestia che sotterraneamente/ – falsamente mastina/ – ogni giorno ti elide./ La Bestia che ti vivifica e uccide…/Io solo, con un nodo in gola,/sapevo. È dietro la Parola». E ancora il Lei: «La bestia leoneggiante./Gecheggiante./La bestia/che mentre la mente dirupa/frantumata, volante/o strisciante sguscia./ e in sé s’intana./La bestia dragheggiante./La bestia amebeggiante…/È lei./Soltanto e inequivocabilmente/lei, la Bestia/(l’ònoma) che niente arresta». E, infine, in Saggia apostrofe a tutti i caccianti: «Fermi!Tanto/non farete mai centro./La Bestia che cercate voi,/voi ci siete dentro»…

Che cos’è questa «Bestia» di cui parla Caproni, ormai «uomo solo/chiuso nella sua stanza»? Cosa simboleggia? Forse il Male, il mostro che si nasconde nell’uomo? O forse la distruttività che sembra essersi impadronita della mente dell’uomo, tanto da condurlo all’autodistruzione? E cosa significa che la Bestia «è dietro la Parola»? Forse che essa è il Logos stesso fattosi Dio? All’inizio era il Verbo, dice il racconto biblico. E il Verbo è Dio stesso. E se – come scrive Caproni – «le parole» «dissolvono l’oggetto», cioè le cose che esistono, ciò che è, vuol dire che forse è Dio (il Verbo, la Parola, il Logos) che si nasconde dietro la metafora della Bestia e che simboleggia la distruttività? È Dio, insomma, la Grande Impostura, colui che crea e distrugge? In verità, la Bestia caproniana (similmente alla terribile orca assassina di D’Arrigo) fa pensare, anche nel suo modo di essere, per la sua stessa natura a quel mostro Infernale che simboleggia il Male assoluto e che il Divino Poeta descrive con potente realismo in una splendida terzina della Commedia: «Ecco la fiera con la coda aguzza,/ che passa i monti, e rompe i muri e l’armi;/ ecco colei che tutto ΄l mondo appuzza!». La Bestia, di cui parla Dante nel XVII canto dell’Inferno è Gerione, guardiano demoniaco, “leoneggiante”, “gecheggiante”;  “dragheggiande” e “amebeggiante” che nel terzo girone del VII cerchio simboleggia la “malizia”, la frode, l’inganno. Una Bestia che vince ogni resistenza e che – male dei mali – appesta e infesta il mondo. Può darsi che la Bestia di cui parla Caproni sia la versione moderna dell’immonda “fiera” dantesca. In ogni modo, l’immagine di questa Bestia, con la quale il Poeta ha voluto congedarsi dal mondo degli uomini, resta una allegoria che infonde angoscia e inquietudine e che – a ben rifletterci – dovrebbe pesare sulle nostre coscienze come un macigno. Se la Bestia sta «dietro la Parola» e nella Parola stessa, allora dobbiamo stare attenti: che la Bestia sia Dio stesso con la sua Grande Impostura e la sua inesistenza distruttiva, o la distruttività insita nell’uomo, o anche il Logos sottoforma di mostruosa Razionalità Tecnico-scientifica che conduce all’Apocalisse o, insomma,  che sia la stessa Parola il male dei mali nel quale si cela il potenziale di distruttività dell’uomo contemporaneo… chiunque sia questa Bestia, il messaggio di Caproni sembra essere questo: io ho scoperto che la Bestia è dentro di noi, che siamo noi stessi con il nostro Logos, la nostra spaventosa Razionalità. La quale, se continueremo così, ci condurrà alla catastrofe, all’autodistruzione. Se il veleno che intossica e uccide il mondo sta nella Parola stessa, nella Parola che è solo Impostura e Razionalità annientante e non Poesia e Amore, allora non resta – dopo esser giunti a questa amara consapevolezza – che congedarsi «cerimoniosamente»: «tirar giù la valigia» e avviarsi «a destinazione», perché di una cosa almeno il Poeta è «certo»: «io son giunto alla disperazione/calma, senza sgomento». Adesso il problema del mondo e della Bestia che, Male assoluto, tende a distruggerlo, è vostro. Quanto a me, «scendo». A voi, che continuate il «viaggio» con la Bestia, non resta che augurarvi: «buon proseguimento»!…