Amendolara-11/09/2016: “Sibari, stazione di Sibari…”il racconto di Salvatore La Moglie premiato a Morano Cal.
RACCONTO
Sibari, stazione di Sibari…
«Ho deciso, Pasquà: io, appena sono pronto, parto per la metropoli».
Franchino pronunciò queste parole convinte e decise mentre camminavano in mezzo ai palacchi ormai ben asciugati e induriti della strada. Le vie del paese, allora, non erano asfaltate e neppure lastricate e si conviveva con la terra e lo sterro. D’estate il problema non veniva avvertito più di tanto, ma, a partire dall’autunno, si cominciava a soffrire. Uomini, asini, muli e cavalli, quando pioveva, sguazzavano letteralmente nella melma e quindi, come si diceva nell’idioma sibaritico, ci si impalaccava, si camminava cioe’ nei palacchi, ovvero nel fango. Adesso era agosto e Franchino e Pasquale passeggiavano agevolmente sul terreno indurito dallo splendido sole calabrese.
«C’hai pensato bene, ohi Franchì?», gli chiese Pasquale con volto improvvisamente scuro. Si conoscevano da quando avevano cominciato a muovere i primi passi ed erano come due fratelli. Dov’era Franchino c’era pure Pasquale e dov’era Pasquale c’era pure Franchino. Inseparabili. Due amici per la pelle.
«Franchì, c’hai pensato bene?», ripeté facendo fare uno sforzo alla gola. Le parole di Franchino erano state come una doccia fredda e dover realizzare sull’istante che esse significavano la separazione dall’amico del cuore, dall’amico di una vita gli aveva stretto la gola e il petto.
«Sì, Pasquà, c’ho pensato bene. Ormai non penso ad altro. Non ci dormo la notte e il giorno non faccio che sognare lei…».
«Lei, chi?», chiese Pasquale pensieroso e stupito.
«Ma la metropoli, Pasquà! La metropoli… con i suoi grattacieli e la sue luci!… la gente che va e viene… che lavora e si diverte», replicò Franchino con un leggero sorriso sulle labbra. Si fermò, appoggiò entrambe le mani sulla spalla dell’amico e, indicandogli la povera casa dove viveva, gli disse: «Pasquà, la vedi quella… quella casa? Io mi vergogno di quella catapecchia, anche se è tra le poche del paese ad avere l’acqua potabile e il cesso per i bisogni… Però, quella casa, andava bene per i miei nonni, ma per noi giovani degli anni Sessanta non va più. Eppoi», aggiunse dopo una breve pausa, «questi palacchi… Li vedi questi palacchi? Fino a quando, quelli del Comune, ci terranno con le vie così? Ci vorrebbero i socialisti… Ci vorrebbe Bloise…».
Finì di parlare. Tolse le mani dalle spalle di Pasquale che lo fissava con la fronte aggrottata.
«Quello che dici è vero, Franchì, è tutto vero», disse Pasquale e subito aggiunse: «Ma a me non c’hai pensato?… E ai tuoi genitori, a tua madre… Non c’hai pensato al dolore che darai a loro e… anche a me? Eppoi, ci sono i tuoi fratelli…».
«Pasquà», rispose Franchino anche lui commosso ma intenzionato a fare la parte del deciso, di chi sa quello che vuole dalla vita. «Pasquà, c’ho pensato… c’ho pensato… E se ho deciso di fare la valigia è anche per i miei fratellini… Li voglio aiutare… Voglio aiutare la mia famiglia a uscire dalla miseria… dal bisogno… Voglio fare tanti soldi per poter fare una casa nuova… più bella… di cui non mi devo vergognare».
«Ma puoi aiutarla anche stando qui, la tua famiglia», gli disse Pasquale con voce quasi rotta. Aveva capito che l’amico era deciso per davvero e che non sarebbe riuscito a convincerlo a restare in Calabria.
«No, caro Pasquale. Qui c’è troppa miseria e solo con la terra non ce la fai a cambiare la vita. Puoi, appena appena, sopravvivere… E, alla fine, ti aspetta il cimitero di Cassano…».
Di fronte a queste ultime parole, Pasquale non sapeva più cosa ribattere. Scuoteva malinconicamente la testa. A un certo punto, Franchino cavò dalla tasca destra del suo jeans un foglio di rivista spiegazzato. Dopo averlo reso presentabile, lo mostrò a Pasquale dicendo:
«Guarda, Pasquà. Prova a leggere questa… questa pubblicità». Dopo qualche secondo aggiunse: «Lo vedi cosa dice? Dice che un perito meccanico o un elettrotecnico può arrivare a guadagnare al mese anche più di trenta o quarantamila lire!… E qui quando li pigli trenta o quarantamila lire? Neppure in un anno!… ».
«Sì, è vero… Hai ragione… Ma…», balbettò Pasquale, non sapendo più cosa opporre alle certezze dell’amico.
«”Ma” cosa, Pasquà, vogliamo prenderci in giro?», replicò Franchino sicuro di sé e subito continuò: «Qui puoi morire solo di fame e non diventerai mai nessuno. E io non voglio morire di fame e voglio diventare qualcuno…».
«Tu sembri sicuro di tutto», riprese Pasquale riacquistando un po’ della grinta perduta. «Tu sei sicuro che la metropoli ti farà diventare ricco… Tu sei sicuro che solo nella grande città diventerai qualcuno… Chi ti garantisce tutto questo? Chi ti garantisce che sarà così? E se la metropoli fosse peggio che stare in questo paese?…Noi giovani non dovremmo andare via…Dovremmo avere il coraggio di rimanere qui per cambiare le cose…».
«Vedrai», ribattè con tranquillità Franchino, «vedrai che un giorno anche tu te ne scapperai da qui e verrai dove sono io o te ne andrai in Svizzera o in Germania, come hanno fatto e fanno tanti meridionali…».
«Io… Io…», balbettò Pasquale non sapendo più cosa dire. «Tu niente», gli disse Franchino e subito aggiunse: «Tu te ne andrai via come me, prima o poi. Ma te ne andrai, vedrai…».
«I tuoi lo sanno? Ai tuoi genitori gliel’hai detto che vuoi…».
«Sì, gliel’ho detto».
«E loro?… E tua madre, che per te morirebbe tanto ti vuole bene?… ».
«Ha pianto tanto, poverina, ma alla fine ha capito che se parto è per aiutare la famiglia, e per fare i soldi per costruirci la casa nuova…».
«E tuo padre?».
«Anche lui alla fine ha capito… E del resto, non è che ci debbo stare tutta la vita nella metropoli!… Si va al Nord per fare i soldi, perché lì ci sono le industrie, ci sono le fabbriche… ma poi si ritorna, no? Mica uno ci sta tutta la vita!…».
«Sì, ma i tuoi zii», ribattè Pasquale, questa volta con sicurezza, «ci sono già da quindici anni nella metropoli…».
«Sì, è vero, ma mica siamo tutti uguali!… E poi, se io vado al Nord è proprio perché ci cono i miei zii e, una volta fatti i soldi, me ne ritorno, magari insieme a loro…».
«Ma!…», esclamò perplesso Pasquale. Subito dopo, come ricordandosi improvvisamente di una cosa importante, si diede con la mano destra un colpetto sulla fronte e, all’amico che in quel momento ripiegava il foglio e lo ricacciava nella tasca dei pantaloni, disse: « E la scuola? La lasci la scuola?».
«No, non la lascio. Invece di fare il “tecnico” a Castrovillari, lo faccio lì, al Nord. Quando vado porto con me tutti i documenti per iscrivermi al secondo anno. Mio zio mi aiuterà a sbrigare il tutto…».
Pasquale non potè fare a meno di farsi uscire un altro ancor più stupefatto «ma!…».
Dopo una pausa alquanto lunga, durante la quale ognuno era alle prese coi propri pensieri, fu Pasquale a rompere il silenzio domandando: «E alla stazione chi ti accompagna?».
«Certamente non mio padre con l’asino…», replicò Franchino e scoppiarono entrambi a ridere fragorosamente.
«Sarai tu ad accompagnarmi», disse Franchino una volta ritornato serio.
«Io?!..», ribattè Pasquale scuotendo la testa e facendo contemporaneamente una smorfia con la bocca.
«Sì, tu! Proprio tu! » .
«E come?», replicò Pasquale con stupore.
«Come? Ma con la tua moto, no?».
«Con la moto?!..».
«Sì, con la moto».
«E i pacchi?».
«Quali pacchi!… Io parto solo con una valigia: due maglie, una giacca, due pantaloni… e via!».
«E dove la mettiamo la valigia?».
«Sulla tua testa», rispose Franchino ridendo. Quindi aggiunse:
«La tengo io con la mano destra, e quando mi stanco, ti dico di fermarti, così la tengo con la mano sinistra… E poi, con la moto, a Sibari, in un quarto d’ora ci siamo».
«Allora, hai proprio deciso?», gli domandò ancora Pasquale come a voler fare un ultimo tentativo.
« Sì, Pasquà, ho deciso. Quando in ballo c’è il tuo futuro… il tuo destino… la tua vita… allora devi essere deciso e devi fare quello che va fatto».
«E a me mi lasci qui come un cazzone…», replicò Pasquale con una faccia indescrivibile.
«Vedrai, Pasquà, che anche tu farai la valigia come me…».
«Dici?…».
«Dico»…
Il giorno della partenza arrivò. Franchino si lasciava alle spalle il pianto disperato della madre, il volto rabbuiato del padre e le lacrime dei fratellini che credevano che il Nord e la metropoli che attendevano il fratello fosse poco lontano dal paesino sulla collina dove il destino li aveva fatti nascere.
Con la valigia piena di illusioni, di sogni e di speranze più che di indumenti, Franchino prese posto sulla moto di Pasquale e salutò la sua famiglia agitando la mano sinistra finchè, insieme a Pasquale, non fu ingoiato dalla prima curva della strada che portava a Sibari.
Erano le sei del pomeriggio e agosto era ormai alla fine. Arrivati in stazione, sentirono la voce che annunciava l’arrivo del treno che avrebbe portato Franchino fino a Bari, da dove ne avrebbe preso un altro che sarebbe arrivato dritto – anche se lentamente – fino alla meta che vagheggiava da giorni nella sua mente. Intanto, l’anonima microfonata voce della ferrovia ripeteva: «Sibari, stazione di Sibari. È in arrivo sul terzo binario l’espresso proveniente da Reggio Calabria per Taranto-Bari. I signori viaggiatori sono pregati di fare attenzione sulla banchina…».
Lungo il marciapiede c’era tanta gente con valigie e scatole di cartone di ogni dimensione. Erano germanesi, svizzeresi, milanesi, genovesi e torinesi che ritornavano alle loro destinazioni o che ci andavano per la prima volta. Accanto a ciascuno di essi la propria moglie con almeno due o tre figli che il “destino” costringeva a stare separati dal loro papà, insieme alla loro mamma.
Dopo aver fatto un cenno con la testa, come a voler significare: «guarda quanti ce ne sono!…», Franchino disse a Pasquale: «Hai visto, Pasquà? La gente parte e riparte… Se ne va via perché qui non c’è niente… C’è solamente fame e miseria e una bella zappa per spaccarti la schiena…».
Pasquale non rispose. Cosa avrebbe potuto rispondere di fronte a quella realtà? Entrambi erano rimasti, poi, muti, come se non avessero più nulla da dirsi. Dopo alcuni secondi videro il treno spuntare e lentamente avvicinarsi lungo il binario. Con un forte e sgradevole stridore, si arrestò. Franchino fissò a lungo negli occhi l’amico di una vita, dal quale stava per separarsi. Pasquale lo guardava in silenzio: non riusciva a parlare perché gli si era formato un grosso nodo alla gola.
«Ciao Pasquà e grazie di tutto. Ci rivedremo fra un anno… forse anche prima», gli disse Franchino abbracciandolo e stringendolo a sé forte forte.
Pasquale scoppiò a piangere e riuscì appena a dire: «Ciao, Franchì … Non scordarti del tuo vecchio amico…».
Anche Franchino si mise a piangere. Gli disse: «No, non ti scordo, Pasquà. Tu sarai sempre il mio amico del cuore… Anche se vado via, non ti scordo…».
Intanto, il capostazione invitava a salire sul treno e a chiudere gli sportelli. Fra qualche secondo i due amici si sarebbero separati e chissà il futuro cosa avrebbe riservato loro. Dal finestrino Franchino disse a Pasquale: «Ora smettila di piangere e pensa che un giorno anche tu potresti salire Su, a fare fortuna e cambiare la tua vita».
«Ma, chissà…», rispose Pasquale e aggiunse: «E se poi non cambiasse in meglio?…».
«Peggio di così!…», rispose Franchino.
Il capostazione fischiò due volte, dando il verde al macchinista. Il treno cominciò a muoversi. Pasquale allungò il braccio per stringere la mano dell’amico.
«Pensami! Non ti scordare di me, hai capito?…», gli disse.
«Non ti scorderò mai, Pasquà. Ti voglio bene, ciao!».
«Ciao, Franchì, buon viaggio!…», urlò Pasquale al suo amico che si allontanava sempre di più.
Si salutarono agitando le mani fino a quando il treno non diventò piccolo piccolo e non scomparve del tutto. Pasquale, mogio mogio, riprese la via del ritorno. Il suo amico aveva preso la via nuova e lui riprendeva quella vecchia.
Ma la “via vecchia” durò poco, perché anche Pasquale, un anno dopo, fece le valigie, non per l’Italia del Nord ma per la Germania, dove erano già altri due suoi fratelli. Franchino aveva avuto ragione. Anche lui si era dovuto rendere conto che restare nel piccolo paese sulla collina non avrebbe garantito alcun futuro e che, probabilmente, la giovinezza sarebbe stata buttata via e con essa tutta l’altra parte di vita che Dio o il destino gli avrebbero concesso di vivere.
E, così, venne pure per lui una sera d’estate alla stazione di Sibari ad aspettare il treno della speranza. La speranza di una vita diversa, di un futuro migliore.