Amendolara-14/06/2017:FACCIAMO IL PUNTO SU: EUGENIO MONTALE (di Salvatore La Moglie)

 

Salvatore La Moglie

FACCIAMO IL PUNTO SU: EUGENIO MONTALE

Di Salvatore La  Moglie

Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 da una famiglia di media borghesia benestante. Comincia presto a scrivere per riviste e giornali e nel 1925 dà alle stampe la sua prima raccolta di liriche Ossi di seppia, in cui invita il lettore a riflettere sulle contraddizioni e le incongruenze dell’esistenza, sul male di vivere. Da notare che essa viene pubblicata durante il regime fascista e Montale è un oppositore della dittatura mussoliniana, cosa che gli viene fatta pagare (nel 1938) con il licenziamento da direttore del prestigioso Gabinetto culturale G. P. Viesseux. Nominato senatore a vita il 13 giugno 1967 è morto a Milano nel 1981.

Montale ha sempre avuto un atteggiamento di disagio e di angoscia nei confronti del contesto storico-politico in cui si è trovato a vivere; è incapace di adattarsi, avverte una vera e propria scissione tra lui e il mondo, vive da sempre in disarmonia con la realtà. Appartenente, come gli altri due grandi Ungaretti e Quasimodo, alla corrente dell’Ermetismo che si sviluppa dal grande albero del Decadentismo,  Montale produce testi poetici che hanno cercato sempre di trovare un equilibrio tra la tradizione classica e la poesia moderna che con quella tradizione cercò di rompere sin dal Romanticismo.  E, dunque, egli molto deve agli autori della classicità antica come a quella a lui più vicina (si pensi, per es., a Leopardi) come pure ai maestri del Simbolismo francese (Rimbaud, Verlaine e Mallarmé) e anche a filosofi come Schopenhauer, le cui tematiche in merito alla voluntas e noluntas  trova  certamente vicine al suo pensiero (la trappola mortale delle scelte, scriverà in una poesia inedita del 1970).

Sicuramente di rottura è l’atteggiamento verso la poesia dei cosiddetti poeti laureati, di cui rifiuta l’atteggiamento da poeta-vate e la convinzione che la poesia possa spiegare il senso e il mistero della vita, perché secondo Montale, nella vita non ci sono certezze né verità, ma solo incertezze, incongruenze, tante cose che non vanno e, insomma, prevale un mondo alla rovescia. Un mondo e una vita che il Poeta vede oscillare tra il sublime e l’immondo /con qualche propensione/per il secondo. Montale, dunque, vede piuttosto la negatività della vita. Il poeta può dire al massimo solo ciò che non siamo e ciò che non vogliamo e, magari, cercare di scoprire le crepe della muraglia dell’esistenza, cercare un varco, un maglio rotto della rete che ci imprigiona. Solo talvolta, però, per un miracolo laico, balena, inaspettato, qualche brandello di realtà, il varco, appunto, di cui Montale parla nella poesia La casa dei doganieri. E così il varco, la fessura, il maglio rotto della rete, l’osso di seppia,  l’incartocciarsi della foglia riarsa, il rivo strozzato che gorgoglia, il cavallo stramazzato, il falco alto levato, la muraglia con i cocci aguzzi di bottiglia, ecc. non sono altro che oggetti emblematici che si caricano di un significato legato ai sentimenti e agli stati d’animo del poeta. Il ruolo dell’oggetto o della situazione o anche dell’occasione  diventa quindi fondamentale nella sua poetica, che è incentrata sulla tecnica, mutuata da Thomas Stearn Eliot, del correlativo oggettivo  che consente, appunto, all’artista di trasferire sentimenti, emozioni e stati d’animo in oggetti, situazioni, occasioni, ecc.

Il continuo interrogarsi sulle ragioni dell’esistenza conferisce alla poesia di Montale un pessimismo che diventa sempre più radicale con il tempo. La vita è ineluttabile dolore e la felicità non dura che lo spazio di un mattino, è un attimo che fugge e più non torna. A prevalere è, dunque, il male di vivere, l’angoscia esistenziale e, quindi, il disadattamento dell’uomo alla dolorosa realtà dell’esistenza e l’inettitudine, cioè il sentimento di inadeguatezza alla vita, simile a quello di Svevo (non a caso fu proprio Montale a scoprire l’autore de La coscienza di Zeno al quale, nel 1925, dedicò un omaggio sulla rivista L’Esame). In una poesia degli Ossi scrive che gli era mancato quello che più occorreva in quello che Cesare Pavese chiamava il mestiere di vivere: il coltello che recide, la mente che decide e si determina. Ecco: Montale ha da subito affermato che la sua è stata una vita tutta interiore, fatta sostanzialmente di libri e di attività culturale: «pensai presto, e ancora penso, che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato». Così ha lasciato detto e, in L’arte di leggere. Una conversazione svizzera, ha spiegato ancora meglio il suo pensiero sulla dicotomia vivere e pensare: «Non vedo una totale incompatibilità tra il vivere e il pensare (…). Sono esistite persone che hanno eliminato del tutto la vita. (…) Un Leopardi ha veramente rinunciato alla vita? Io non credo, non credo affatto. Se misuriamo la vita in mesi, in anni, in settimane o anche in fatti, in viaggi, in esperienze, in donne, in amori, in affari, in azioni… allora si può dire veramente che Leopardi ha vissuto ben poco, insomma. Ma ha poi veramente vissuto ben poco? Questo rimane un punto interrogativo». Insomma, dipende dai punti di vista e, del resto, il grande Fernando Pessoa ci ha insegnato che: «La letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta».

I temi e i motivi principali nell’opera di Montale sono:

  • L’assenza di certezze, di punti fermi e assoluti e, dunque, il vivere la vita con il “sentimento delle incertezze”;
  • Il male di vivere: ovvero il negativo della vita, il sentimento della totale disarmonia con la realtà, l’angoscia esistenziale;
  • Il sentimento di sconfitta di fronte alla vita e al mondo;
  • La ricerca del varco, ossia la ricerca di un oltre e di una via d’uscita dalla trappola del mondo;
  • Il dramma dell’incomunicabilità e della solitudine dell’uomo;
  • L’inautenticità della vita;
  • L’assurdità e il nonsenso della vita;
  • L’assenza, l’aridità e il vuoto esistenziale espresso anche dal paesaggio e dalla natura rappresentata nei versi;
  • Il trascorrere inesorabile del tempo.

Per quanto riguarda  lo stile e la lingua, costante è la ricerca di una poesia essenziale, scabra, atta ad esprimere la sua dolorosa esistenza, disincantata e senza illusioni (avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale siccome i ciottoli della strada). Fu proprio con la motivazione di aver offerto una visione poetica del mondo e della vita priva di illusioni che, nel 1975, gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura. La raccolta poetica più importante è Ossi di seppia, considerato il suo capolavoro. Il titolo è davvero emblematico e suggerisce il senso dell’aridità e dell’immobilità della vita. L’osso di seppia è un’immagine cara a Montale: l’osso sballottato dal mare e gettato sulla battigia come un rifiuto diventa il simbolo della condizione umana, del destino dell’uomo, anch’esso rifiuto abbandonato sulla spiaggia della vita (o allora sballottati come l’osso di seppia…) Per cui si può parlare di poetica del relitto, del rifiuto, del reietto, dell’oggetto, della cosa abbandonata. Tema centrale delle poesie di Ossi di seppia è il male di vivere, con la dolorosa presa di coscienza della sconfitta e della solitudine dell’uomo in un mondo in cui la Storia non è magistra di nulla che ci riguardi. L’uomo è costretto a camminare lungo una muraglia (l’inconoscibile mistero della vita) che non riesce a superare e l’unica possibilità di salvezza potrebbe essere  il raggiungimento di una forma di indifferenza simile a quella di Dio che, dall’alto dei cieli sorride (il sorriso di Dio di cui parlano i filosofi) indifferente alle nostre sofferenze e ai nostri drammi, dopo averci gettato su una terra che non sembra affatto essere un paradiso. E allora non ci resta che concludere amaramente, con versi di quasi cinquant’anni fa, che: «Come barche vorremmo veleggiare/verso lidi migliori, ma restiamo/ancorati al nostro niente».