Trebisacce-30/09/2019: Il vino della vita (di Salvatore La Moglie)
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Ancora un racconto di Salvatore La Moglie che fa rivivere la civiltà contadina con i suoi sani valori, ormai definitivamente perduti
Il vino della vita
Ottobre era arrivato e con lui anche la tanto attesa raccolta dell’uva. Dopo tanta dedizione, dopo tanti lavori e sacrifici fatti per farla venir su così bella, adesso era venuto il momento di raccoglierla e portarla in cantina per pestarla ben bene dentro i tini, come si faceva ormai da anni.
I lavori dedicati al vigneto portavano via un bel po’ di tempo: si iniziava verso la fine dell’inverno, nei primi giorni marzo, con la potatura per proseguire più in là con la legatura con giunco dei tralci ormai ben sviluppati e, ancora più in là, tra maggio e giugno, con lo zolfo per evitare che vi fossero attacchi da parte della peronospora, dell’oidio o di altre malattie della vite. Mio padre e mia madre, affiancati puntualmente da me e da mio fratello Sandro, ci mettevano anima e corpo nel vigneto, come pure nell’aranceto, nell’uliveto e nell’orto dove cresceva tutto il ben di Dio. Producevamo un po’ di tutto e non ci mancava niente ma se un raccolto andava male eran dolori, perché a mancare sarebbero stati i soldi con i quali riesci a comprare tutto quello che ti serve non solo per la sopravvivenza ma anche per far andare avanti la proprietà. E si sa che il denaro non basta mai e che il contadino, l’agricoltore si affida e rimette nelle mani di Dio perché quel che coltiva è sotto il cielo e ora può venir giù la grandine, ora la neve che diventa ghiaccio e poi ancora un forte vento che ti dimezzano la quantità del raccolto quando va bene.
Dunque, io e mio fratello – che era più grande di me di tre anni – andavamo in campagna con i nostri genitori quando non si andava a scuola, ovvero tutte le domeniche e i pomeriggi. D’estate, invece, si andava praticamente sempre. I lavori della campagna erano pesanti ma noi li facevamo volentieri perché sapevamo che in ballo c’era la nostra sopravvivenza e la buona riuscita di tutto quello che si coltivava. E, quindi, zappa alla mano, si incominciava di buonora a lavorare nel vigneto zeppo di piante l’una vicina all’altra, tanto che, se non stavi ben attento, rischiavi di dare una zappata a qualcuna di esse e di farla seccare dopo qualche giorno o, comunque, di farla rimanere mutilata.
Io, pur essendo di soli 12 anni, zappavo come uno grande e, siccome di solito stavo tra mio padre e mio fratello, cercavo di sottrarre terreno ora all’uno e ora all’altro, tanto che quel buonuomo di mio padre aveva finito per definirmi scherzosamente l’Eroe-dei-due-mondi, una sorta di novello Garibaldi dell’agricoltura e, quando mi chiamava così, sorrideva e, insieme a lui, anche mio fratello. «Guarda – diceva a mio fratello – l’Eroe-dei-due-mondi va più in fretta di noi». E io sorridevo pure, perché ero contento di quell’epiteto e del fatto che mio padre fosse fiero di vedere come il proprio ultimo rampollo si desse da fare per il benessere della numerosa famiglia. Sì, numerosa perché c’erano anche due sorelle (che pure aiutavano nel momento della raccolta della frutta o delle olive) e un fratello più grande di tutti noi che era partito per il Nord per fare fortuna e per aiutare, anche da lontano, la famiglia.
Così, dopo tanto lavoro e tanta trepida attesa per la buona riuscita del raccolto, il momento era arrivato e per una settimana portammo in cantina decine di quintali di uva nera. Un’uva bellissima e tanto odorosa e profumata che ti dava piacevolmente alla testa. Ti inebriava. Io e mio fratello pestavamo come due dannati della terra e il mosto scendeva giù nell’altra tinozza a grande getto. Alla fine un po’ tutti ci davamo da fare per travasarlo nelle enormi botti da cinque, dieci e anche quindici quintali.
«Quest’anno è proprio una grande annata», disse mio padre a mia madre mentre con volto raggiante versava il mosto nella botte. «Guarda che mosto, ti viene voglia di berlo!…».
«Sì, ti viene voglia di berlo… Speriamo che venga un vino così buono da non dover appendere la macchia sul muro», replicò mia madre.
«Vino buono non ha bisogno di macchia», ribattè mio padre, che subito aggiunse: «Del resto noi la macchia l’abbiamo messa ben poche volte… Quest’anno proprio non ce ne sarà bisogno», concluse con un soddisfatto sorriso.
La macchia era un grosso ramo (che noi, nel nostro dialetto sibaritico, chiamavamo troppa) di macchia mediterranea che i cantinieri del paese appendevano con un chiodo a L al muro della loro cantina per dare il segnale, al forestiero che passava, che lì si vendeva vino. Noi, in verità, la macchia l’avevamo messa due o tre volte in tanti anni e questa volta, secondo mio padre, non c’era affatto bisogno di metterla. E aveva avuto ragione perché a fine anno, quando fece la rituale prova dell’assaggio, gettò quasi un urlo: «Che vino! Che vino! Rosso rosso e limpido limpido! Questo è il migliore di tutti quelli che abbiamo fatto in questi anni!». Mia mamma e tutti noi ridemmo dalla gioia con insieme qualche evviva! e urrà! urlato da me e mio fratello.
«Bene, ragazzi. Questo vuol dire che i sacrifici fatti sono valsi a qualcosa e che staremo tutti meglio», disse mio padre con tono serio e quasi solenne. «Vedete, ragazzi miei», aggiunse subito dopo, «io vi ho sempre insegnato che, nella vita, tutto si ottiene… tutto si può ottenere ma solo con grandi sacrifici, con grande impegno, con tanto lavoro… tanto sudore della fronte e con tanta onestà. Non dimenticatelo mai. Non pensate mai a cercare scorciatoie!… Mio padre mi ha educato a questi valori e io continuo il suo insegnamento perché in questi valori ci credo. Vostro nonno diceva che la zappa (che è fatta di acciaio) per l’uomo è pesante come piombo ma per la terra è come l’oro. Avete visto che uva, che mosto e che vino abbiamo fatto con la zappa… Solo con la fatica si ottiene tutto, figli miei. È vero che su questo mondo ci sono i disonesti, i lestofanti, i truffatori… ma voi non dovete guardarli… non dovete prenderli come esempio.. come modelli… dovete averne ribrezzo. E questo perché anche dopo morti sarete giudicati: si dirà: peccato! era una brava persona, un uomo onesto… Oppure: era uno che sapeva il fatto suo… un disonesto ecc. ecc.».
«Papà, noi non verremo mai meno ai tuoi insegnamenti, anche se si vede che per molti la disonestà appare come la via più facile», dissi io con l’assennatezza di un adulto, tanto che mio padre non potè fare a meno di abbracciarmi e di dirmi sorridendo: «Ma tu non sei soltanto l’Eroe-dei-due-mondi ma anche un piccolo grande saggio che mi riempie d’orgoglio e di gioia!…».
Ricordo che ero diventato rosso non come il fuoco ma… come il vino che stava nelle botti per quel grande abbraccio di mio padre e per l’emozione che avevo provato nell’udire parole che mi facevano sentire maturo, un adulto pronto ad affrontare il mare grande, complesso e insidioso della vita. Mio nonno – ci ricordava spesso mio padre – diceva che il mondo è brutto da passare e beato a chi lo sa passare. Lui ne aveva viste tante, era stato in America, negli Stati Uniti, e poi era ritornato e, con il denaro duramente sudato, aveva acquistato i terreni e piantato un po’ tutte le piante che, poi, mio padre aveva provveduto a migliorare e far crescere bene come dei figlioli. Io, avevo avuto questi esempi e già da allora, volevo imparare a saper passare bene questo mondo, avendo come guida e faro gli esempi di onestà, di rettitudine e di dedizione di mio nonno e di mio padre, persone mai torbide ma solo tanto limpide, proprio come – ormai da tre generazioni – il vino delle nostre viti. E questo, per me, sarebbe stato per sempre il vino della vita.