Trebisacce-25/11/2019: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie   In occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne e per dire un fermo “No alla violenza sulle donne”, La Palestra propone ai lettori un racconto di Salvatore La Moglie che narra di un femminicidio realmente avvenuto negli anni Settanta in un paese dell’Alto Jonio cosentino.

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

 

In occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne e per dire un fermo “No alla violenza sulle donne”, La Palestra propone ai lettori un racconto di Salvatore La Moglie che narra di un femminicidio realmente avvenuto negli anni Settanta in un paese dell’Alto Jonio cosentino.

 

                Papà ha ucciso mamma!

Negli ultimi tempi la loro vita era diventata estremamente difficile. Erano in cinque: padre, madre, due figli maschi adolescenti e una ragazzina di dieci anni. Il salario di Gino non riusciva più a bastare ogni mese come una volta. I ragazzi erano cresciuti e con loro le esigenze: i vestiti, i libri per la scuola, la bicicletta come l’avevano i loro coetanei e via discorrendo. E menomale che stavano in una casa popolare e pagavano il mutuo per poterne, alla fine, diventare proprietari, altrimenti era ancora peggio. I tempi si facevano sempre più difficili e duri. Erano gli anni Settanta del Novecento e si era in piena austerity per la crisi del petrolio, con i pescicani (si sarebbe detto una volta) che riuscivano  comunque a fare i loro begli affari e i poveretti che vivevano delle loro braccia che tiravano avanti come potevano e, quelli che avevano figli maschi, li mandavano a lavorare già a dodici anni nei campi o alla bottega di un artigiano. Gino lavorava come bracciante negli immensi campi del più grande proprietario della zona, era messo a posto con i contributi e prendeva pure la disoccupazione, ma negli ultimi tempi non riusciva più a mantenere moglie e figli come una volta. Però, lui era un uomo molto orgoglioso e non voleva assolutamente che i figli andassero sotto padrone come era successo a lui perché la sua famiglia era povera. E così stringeva i denti e, insieme a quella brava donna di sua moglie, avevano cominciato a fare rinunce e a privarsi ora di questo e poi di quello, ma ai figli non doveva mancare niente nè si doveva far capire loro che le cose non andavano bene e che bisognava stringere la cinghia. Per lui sarebbe stata una sconfitta! E così, stringi i denti oggi e stringi i denti domani, i nodi vennero inevitabilmente al pettine e Gino e sua moglie (che si chiamava Carmela, ma per tutti era Lina) cominciarono a litigare come mai era accaduto. «Certo, se andassi a lavorare anche tu si starebbe meglio… La mia paga non basta e, prima o poi, i ragazzi si accorgeranno… e io non voglio… io non voglio che pensino che il loro padre non è capace di mantenerli come si deve…», sbottò un giorno Gino, con il volto adirato. Era una calda sera di maggio. Erano in cucina. I figli erano fuori a giocare chi a nascondino e chi a pallone con gli amici. «E dimmi: cosa dovrei fare oltre a fare la casalinga, badare ai figli e cercare di far quadrare i conti… dovrei fare pure la bracciante o le pulizie nelle case dei vicini… o che altro?», ribattè la donna con una punta d’orgoglio e ben consapevole del suo ruolo di brava economa nella sua famiglia. «E che male ci sarebbe poi a fare qualche lavoruccio e a guadagnare qualcosa?!… Non ci sarebbe nulla da vergognarsi… Ci si deve vergognare solo se si ruba…», replicò  Gino con tono sicuro e anche alquanto duro. «E sì… come se mio padre e mia madre mi avessero messo al mondo per fare la serva!… Mio padre mi ha sempre tenuto come una principessa!… Ora tu… siccome non sei in grado di mantenere la tua famiglia… ecco che vuoi mandarmi a lavorare… come se a casa non facessi niente!…», ribattè la donna col tono di chi si sente ferita nell’orgoglio e anche alquanto offesa. «Io incapace di mantenere la mia famiglia… i miei figli?!…», replicò Gino pieno d’ira. «Evidentemente… ma… te la prendi con me…», disse Lina. «Non più una parola, hai capito?», urlò Gino sempre più accecato dall’ira. «Sennò che fai, mi picchi? Guarda che se adesso ti vedessero i tuoi figli… non ti riconoscerebbero…». «Basta, Lina! Basta o questa sera succede qualcosa… Anche perchè ho sempre dubitato della tua fedeltà… Adesso te lo dico… Qualche grillo per la testa… quando non si lavora…». «Ma  cosa dici!… Cosa dici!… Sembri proprio fuori testa!… Ci manca solo che mi ammazzi… così hai un problema in meno nella tua vita…». «Basta! Non ne posso più!», urlò  Gino e, impugnando il primo lungo coltello che gli capitò tra le mani, lo conficcò più di una volta nel corpo della povera donna, che aveva avuto il tempo di urlare due o tre volte. Quelle urla furono sentite dal figlio maggiore, Gianluca, che corse velocemente verso casa, al primo piano. La scena che si trovò davanti agli occhi era orribile, davvero orribile per i suoi quindici anni: la madre per terra in un lago di sangue e il padre che, disperato e con le mani insanguinate tra i capelli,   si domandava cosa fosse successo e come mai… Ripeteva: «Cosa ho fatto!… Cosa ho fatto! Dio mio aiutami!… Dio mio aiutami!…». Gianluca rimase esterrefatto, con gli occhi e la bocca spalancati: lo shock era stato grande, non credeva ai suoi occhi, non poteva credere che il padre avesse ucciso la madre, che due persone che si volevano così bene… No, proprio non riusciva a capire e l’unica reazione che in quel momento fu capace di avere fu di correre  ancor più  veloce di prima e urlare più  volte per strada: «Papà ha ucciso mamma! Papà ha ucciso mamma!». I suoi fratellini, uno di tredici e l’altra di dieci, lasciarono subito i giochi e si misero a correre con lui e a gridare le stesse parole fino a quando non scomparvero nel buio della campagna, dove il paese finiva. Non volevano più tornare a casa. Preferivano stare, finchè era possibile, tra gli animali e magari gli orchi di cui avevano sentito parlare nelle fiabe piuttosto che stare con l’uomo che aveva ucciso la loro povera mamma.