Trebisacce-09/05/2020: Assassinio Aldo Moro-Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

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Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

 

In occasione del 42° anniversario della strage di Via Fani e del barbaro assassinio di Aldo Moro avvenuto il 9 maggio del 1978, data che è stata fissata come Giornata della Memoria per le vittime de terrorismo, la Redazione de La Palestra, su gentile concessione dell’autore e della casa editrice, propone ai suoi lettori (in due parti) la lettura dell’Introduzione di Salvatore La Moglie al suo libro Hanno ucciso Moro! Racconto del martedì nero della Repubblica. Qui di seguito la prima parte. Buona lettura.

 Salvatore La Moglie

 

Il presente volume non è altro che la prosecuzione, nella parte terminale, del mio precedente libro edito da Macabor nel 2018 per il quarantennale della strage di via Fani e del delitto Moro (Hanno rapito Moro!), libro che tanto successo di pubblico e di critica ha ottenuto e che in tanti premi letterari ha raggiunto i massimi risultati (in “Appendice” saranno riportati i “giudizi critici” ripresi dalle “motivazioni” di alcuni dei riconoscimenti conseguiti fino al gennaio del 2020). Come il precedente lavoro, anche questo vuol essere il ricordo di una tragedia vissuta da Aldo Moro e da un intero paese, questa volta, nel racconto di soli due giorni. Dunque, siamo alla parte conclusiva del diario di Roberto, giovane estremista di sinistra che ascolta, legge e scrive per comprendere quello che sta succedendo di grave nel suo paese e, alla fine, giunge alla cronaca del martedì nero della Repubblica, ovvero di quel tragico 9 maggio del 1978. Anche adesso una sfida e una scommessa: riuscire – attraverso il racconto del 9 maggio che prosegue anche il 10 tra diario e giornali che raccontano del delitto Moro – a dare un’idea della complessità dell’affaire Moro, di cosa fu l’operazione via Fani a chi quei 55 giorni visse (ma che non sempre lesse tutti gli articoli pubblicati allora dai giornali) e a chi non sa neppure chi è Aldo Moro. Ebbene, crediamo di esserci riusciti anche questa volta e, comunque, al lettore il giudizio finale. Anche questa volta il titolo è un’esclamazione: Hanno ucciso Moro! a voler dare, come per il primo volume, il senso dell’incredibilità di quel che di grave era accaduto, nonostante il fatto che in molti erano ormai rassegnati, dopo quasi due mesi, alla fine tragica del Presidente della DC. In tanti, tuttavia, pensavano che non si sarebbe mai arrivati a una crudeltà e a una spietatezza così infame nei confronti di un uomo anziano, inerme e verso il quale si era fatto di tutto per demolirlo moralmente e politicamente. Evidentemente, quell’uomo faceva comunque tanta paura da non potersi e non doversi lasciare in vita.  Qualora Moro fosse statoliberato, ilViminale, e cioè Francesco Cossiga (in pieno accordo con la Procura della Repubblica di Roma), aveva predisposto (probabilmente durante le lunghe e inutili sedute del Comitato di crisi composto da personaggi come il terroristologo americano Steve Pieczenik, che tutto voleva fuorchè la liberazione del prigioniero…) il Piano Victor (se Moro vivo e il Piano Mike se morto) in base al quale all’illustre prigioniero sarebbe stato fatto un bel lavaggio del cervello (secondo le tecniche da servizio segreto…) affinchè non ricordasse più nulla di quanto era accaduto nella o nelle prigioni del popolo in cui era stato tenuto in ostaggio insieme al Paese e non dicesse nulla di scomodo e di pericoloso. Sarebbe stato rinchiuso e tenuto in isolamento in una clinica, probabilmente il Policlinico Gemelli, in un reparto psichiatrico, e nessuno avrebbe dovuto avere contatti con lui al di fuori di Cossiga, di uno o due magistrati e, pare, qualcuno della famiglia. Insomma, il problema dei problemi era: far tacere per sempre Aldo Moro, perché da vivo poteva essere molto pericoloso, anche perché, durante la prigionia, aveva visto e capito ogni cosa. E così è stato. L’ordine finale non poteva essere che quello di una fredda e spietata esecuzione, come fredde e spietate esecuzioni erano state quelle in via Fani contro i cinque agenti della scorta. Dopo la sua violenta e brutale eliminazione dalla scena politica, l’accordo tra DC e PCI ebbe vita breve e di compromesso storico non se ne parlò più: il Partito Armato, il Partito delle BR, formato da brigatisti col mitra agli ordini di brigatisti senza mitra, aveva vinto, aveva imposto il suo diktat allo Stato e al governo e questo fu il vero riconoscimento politico di fatto che esso ottenne e che durante il lungo sequestro si ripeteva monotonamente e ipocritamente, ogni giorno, di non potersi concedere ai terroristi attraverso una trattativa che salvasse Moro, perché altrimenti sarebbe stata la fine dello Stato e della Repubblica democratica. Anche questo volume non è che una minima parte di un ben più ampio lavoro sulla vicenda Moro e, in verità, aver voluto fare, come noi abbiamo fatto, una vasta esplorazione sui 55 giorni che hanno cambiato il corso della storia del nostro paese, ha voluto dire compiere un lungo viaggio in un enorme labirinto, nel cuore della notte, una notte fatta di sangue e di mistero, non solo del sangue e del mistero di via Fani ma anche di altro sangue e di altri piccoli misteri nel grande mistero dell’affaire. E tutto questo durante i soli 55 giorni e non durante tutto il lunghissimo dopo-via Caetani!… Ha scritto giustamente Francesco M. Biscione nel suo Il delitto Moro (Editori Riuniti, 1998) che aver affrontato una ricerca sul caso Moro ha significato «immergersi in una dimensione orribile, fatta esclusivamente di morti ammazzati e di menzogne» ma ha costituito, allo stesso tempo, anche e soprattutto una «sfida intellettuale e civile». Così è stato anche per noi: un lungo viaggio, un’immersione esplorativa nella storia dell’Italia postfascista in 55 giorni, anche nella parte oscura e orribile fatta di sangue, misteri e segreti (di Stato…) inconfessabili e indicibili e, insieme, una sfida intellettuale e civile e anche una particolare modalità di impegno politico (l’impegno artistico, diceva Alberto Moravia, è l’impegno più politico che possa darsi un artista) sotto forma di libro di narrativa che è, allo stesso tempo, anche saggio o, se si vuole, romanzo d’inchiesta. Siamo ormai al quarantaduesimo anniversario della strage di via Fani e del rapimento e poi dell’assassinio di Aldo Moro dopo cinquantacinque lunghissimi e oscuri giorni che hanno cambiato la storia della nostra Repubblica e su quell’indimenticabile 1978 (quando Moro, presidente della Democrazia Cristiana, il 16 marzo stava andando in Parlamento per il voto sul nuovo governo Andreotti che vedeva, per la prima volta, dopo trent’anni, la presenza del PCI nell’area del governo, anche se solo nella maggioranza parlamentare), non si è ancora riusciti ad approdare ad una verità definitiva e accettabile su quanto è davvero accaduto, o meglio è stato fatto accadere, in via Fani, tanto che possiamo ancora dire che il caso Moro resta tuttora un immenso labirintico giallo politico e, anche, una vera e propria metafora del destino politico del nostro paese. Certo, l’ultima Commissione d’inchiesta sul caso (la Moro 2 guidata da Giuseppe Fioroni e Gero Grassi) è riuscita a far venire a galla alcune importanti cose, ha sottolineato la convergenza di interessi interni e internazionali che hanno portato a via Fani e poi a via Caetani, con Moro nel bagagliaio della Renault rosso-amaranto, i nomi e i cognomi dei mandanti di altissimo livello ancora non è stato possibile farli. Più di qualcosa resta tuttora secretato e questo perché su Moro, evidentemente, la verità è così difficile, inconfessabile e indicibile, insieme ai nomi dei veri protagosti delle due ormai storiche vie. Una cosa è certa e più di uno, a destra e a sinistra (anche se con opposte ipotesi) l’aveva compreso già nel ’78, e cioè che l’operazione via Fani, che Rossana Rossanda, sul Manifesto, definì una «sanguinosa vergogna» nazionale, non poteva essere cosa loro, cioè dei brigatisti, e che in quella ormai storica via non c’erano solo le Brigate Rosse ma soprattutto uomini dei servizi segreti stranieri (di potenze amiche e non, anche, pare, israeliani) e di quelli nostrani eternamente deviati e paralleli (allora molti agli ordini della Loggia P2 del “nostalgico” Licio Gelli) ma anche uomini della mafia calabrese, cioè della ‘ndrangheta, come Antonio Nirta e Giustino De Vuono (che è anche uno degli uomini accusati di aver ucciso Moro con la particolare tecnica consistente nel creare una rosa intorno al cuore senza mai colpirlo). I brigatisti c’erano ma solo come copertura ideologica e per funzionare, per l’oggi e il domani, come un enorme depistaggio: dovevano dare a bere a 56 milioni di italiani che con la strage e il sequestro loro, i grandi idealisti, davano il via alla Rivoluzione Comunista con la lotta armata, visto che il PCI di Berlinguer aveva ormai tradito lo spirito della Resistenza e stava collaborando con il nemico di classe, cioè con la DC di Aldo Moro. Il che equivaleva a inficiare il mito stesso della Resistenza – mito fondante della nostra Repubblica e mito caro al Partito Comunista di Togliatti e di Berlinguer – perché, dichiarandosi eredi e continuatori dei partigiani, non facevano altro che mortificarne lo spirito stesso, quello più alto, attraverso degli omicidi a freddo, delle vere e proprie esecuzioni che nulla avevano di rosso, di sinistra e di presunto album di famiglia ma che, affievolendo di fatto l’antifascismo, servivano solo a mettere una grande macchia sull’idea stessa di comunismo e a favorire la criminalizzazione e la repressione dell’estrema sinistra. La quale, fra l’altro, era una spina nel fianco per il PCI che si era fatto Stato e che veniva quotidianamente punzecchiato dalla critica dura dei fogli rivoluzionari (si pensi al Manifesto e soprattutto a Lotta Continua e al Quotidiano dei lavoratori) e che, pertanto, in nome della lotta al brigatismo, finirà per rivelarsi e per operare (in sintonia con la parte peggiore del sistema di potere democristiano) come mannaia, come ghigliottina per la Nuova Sinistra e per quello che veniva chiamato Movimento. E fu soprattutto allora che vennero create, con piena convergenza, dal ministro degli Interni Francesco Cossiga e da quello ombra del PCI Ugo Pecchioli, le criminalizzanti figure del simpatizzante e del fiancheggiatore delle BR con lo scopo e l’obiettivo di breve, medio e lungo periodo di distruggere l’intera galassia della cosiddetta sinistra rivoluzionaria che agiva e operava alla luce del sole. Infatti, dopo Moro, ebbe vita breve, più di un militante finì per essere costretto a scegliere (e Cossiga di questo fu consapevole) la via sbagliata della clandestinità armata per disperazione politica mentre le BR, sotto varie denominazioni, ma sempre nuove, sono sopravvissute per almeno altri trent’anni e, anche fino a non molto tempo fa, sono state opportunamente citate o tirate qualche volta dal cilindro come una sorta di spauracchio come per dire: guardate che se non fate i buoni, vi facciamo ripiombare nel clima funesto delle BR e del terrorismo di sinistra”, ovvero negli anni di piombo… Per far capire come il famigerato brigatismo (un gigantesco depistaggio che ha fatto più danni del terrorismo nero all’intera sinistra e alla classe lavoratrice) sia stato e tuttora venga strumentalizzato a bella posta per fini politici, basti pensare che, a quasi metà novembre del 2019, in un post su Facebook, con allegata la prima pagina del Corriere della Sera del 20 marzo 2002 sull’agguato a Marco Biagi, un deputato leghista (che ha subito negato) ha praticamente brigatizzato, cioè assimilato ai criminali delle BR le migliaia di giovani (il movimento spontaneo delle sardine) che hanno clamorosamente contestato il leader della Lega, Matteo Salvini, in Piazza Maggiore a Bologna… L’operazione di brigatizzazione dei giovani estremisti della Nuova Sinistra fu proprio quella che, come si è appena accennato, mise in piedi il capo del Viminale, Francesco Cossiga, dal 1977 in poi al fine di criminalizzare l’antagonismo giovanile, alle cui istanze non si sapeva dare se non una risposta duramente repressiva. Ci fu complotto contro Moro? Noi crediamo di sì, anche se non vogliamo appartenere alla schiera dei complottisti tanto per esserlo, così per partito preso. Crediamo che in via Fani ci sia stato fuoco amico con complicità operativa di altissimo livello sia interno che internazionale, in quanto la politica morotea di apertura al PCI come quella filoaraba all’esterno erano fortemente osteggiate dai due livelli che, in quell’anno orribile, si ritrovarono alleati in piena sintonia. Quello che appare sempre più certo è che la verità tragica, indicibile e inconfessabile sull’affaire c’è chi l’ha conosciuta e conosce bene e non l’ha voluta e non vuole dirla perché, evidentemente, deve rimanere un segreto come tutti gli altri orrendi delitti politici realizzati con la inconfessabile, appunto, complicità di pezzi di quello che in quegli anni veniva chiamato questo Stato. Pensiamo soprattutto ad Andreotti e a Cossiga, ormai non più di questo mondo, e pensiamo ai Moretti, ai Morucci e alle Faranda e via discorrendo che non hanno mai detto veramente quello che sanno e, magari, hanno fatto un patto di omertà (come direbbe Sergio Flamigni) con alcune parti politiche e non dello Stato, una sorta di trattativa per cui da una parte si tace per sempre sulla verità e dall’altra si sono concessi libertà e privilegi dopo la dissociazione e il pentimento, reali o finti che siano stati. Non venendo chiaramente alla luce l’indicibile verità, è ovvio che si è ancora costretti a fare dietrologia. Più probabilmente, la verità incoffessabile è che Moro, nel fatidico ’78, aveva osato troppo, si era spinto troppo in là (come dirà Moravia in quei mesi), era stato troppo in anticipo coi tempi, ovvero sul crollo del Muro di Berlino e del sistema sovietico, per cui pagò con la vita il coraggio di sfidare le due Superpotenze e la ferrea logica di Yalta, della guerra fredda e dei Blocchi contrapposti che imponeva l’impossibilità di mutamenti nelle rispettive sfere d’influenza, per cui se l’URSS impediva i cambiamenti con i carri armati (Ungheria 1956 e Cecoslovacchia 1968) l’America li impediva con i colpi di Stato o con operazioni chirurgiche raffinate e perfette (la geometrica potenza…) come quelle di via Fani, che sono una forma inedita e riuscita di colpo di Stato. Non a caso, secondo il già citato Flamigni (che è senza dubbio il massimo studioso del terrorismo di sinistraedelcaso Moro), il presidente della DC è stato praticamente il nostro Allende e il 9 maggio il nostro 11 settembre. Ma Aldo Moro potrebbe anche essere paragonato a Imre Nagy, l’eroico leader della Rivoluzione Ungherese del 1956, fatto impiccare dai sovietici proprio come monito per ogni altro uomo politico dell’Est comunista che avesse voluto fare come lui, cioè sfidare la superpotenza sovietica e mettere in discussione gli assetti post-bellici ovvero la ferrea logica di Yalta(1-continua)