Trebisacce-27/07/2021: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

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Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del sesto canto-capitolo dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato da Setteponti di Arezzo

 

Il canto-capitolo VI ovvero il canto dei golosi. Incontinenza. Terzo cerchio: i golosi, Cerbero e i novi tormenti e novi tormentati. Ciacco e l’invidia, la superbia e l’avarizia che dominano nella corrotta, degenerata e violenta Firenze

 

Siamo a un nuovo terribile racconto del romanzo che – come tutti quelli della Commedia e soprattutto dell’Inferno – appaiono come delle sequenze cinematografiche di film di horror che, man mano che più in basso si scende, diventano più orrorifiche, da brivido e da paura: quelle scene e quei personaggi dei racconti del Male e del Dolore ti sembra di vederli, di viverli in presa diretta tanta è la forza del realismo dantesco. Le anime appaiono sempre più come corpi, come uomini in carne ed ossa.

Dunque, Dante – sempre più uomo del sottosuolo infernale – si è svegliato, ha ripreso i sensi dopo la forte emozione-commozione per i due cognati-amanti il cui racconto lo ha tanto rattristato e psicologicamente turbato e stordito da farlo cadere per terra come un cadavere. Ma dopo la scena della grande passione d’amore, ecco che Dante si trova di fronte a novi tormenti e a novi tormentati, di fronte ad ani- me ancor più sofferenti e le vede in ogni parte e in ogni dove. Dante sa di trovarsi nel terzo cerchio, quello dove sono puniti i golosi che, per legge del contrappasso, per contrasto, sono costretti a sguazzare per l’eternità in una melma maleodorante, puzzolente e disgustosa loro che, nella vita vissuta nel dolce mondo non seppero rinunciare ai piaceri della gola, facendo bagordi, grandi abbuffate (direbbe il compianto regista Marco Ferrero) e quant’altro pur di dare sfogo al palato, simili a pecore matte e non a uomini dotati di ragione. Inoltre, sono infastiditi e tormentati dalla terribile piova etterna, maladetta, fredda e greve e dai latrati assordanti di Cerbero che, poi, li graffia, scuoia e squarta. Per Dante la golosità eccessiva, il peccato di gola è grave anche in quanto costituisce una forma di egoismo e di avidità per cui, mentre noi ci ingozziamo di buon cibo, tanti altri esseri umani soffrono la fame per le carestie e, quindi, il goloso è come se sottraesse qualcosa a danno degli altri, come avviene per tutti gli altri avidi di ricchezze e di denaro. La melma disgustosa è dovuta a una pioggia pesante, fredda, maledetta da Dio e sempre, eternamente e in uno stesso modo scrosciante sui corpi e sul luogo dove sono raccolti questi malvagi; pioggia che diventa anche grandine grossa che martella le anime, e poi ancora acqua-neve scura e torbida che va a riversarsi nell’atmosfera tenebrosa e spaventosa di quel luogo che, pertanto, diviene puzzolente e nauseabondo: Al tornar della mente, che si chiuse dinanzi alla pietà de’ due cognati, che di tristizia tutto mi confuse, novi tormenti e novi tormentati mi veggio intorno, come ch’io mi mova come ch’io mi volga, e come che io guati. Io sono al terzo cerchio della piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l’è nova. Grandine grossa, acqua tinta e neve per l’aere tenebroso si riversa: pute la terra che questo riceve.

Si tratta di uno di quei canti che, insieme agli altri due sesti canti del Purgatorio (il canto di Sordello da Goito) e del Paradiso (il canto di Giustiniano) costituisce la triade dei cosiddetti canti politici della Divina Commedia. In verità, però, nella Commedia, un po’ tutti i canti sono politici, soprattutto quelli dell’Inferno. Diremo di più: tutta la Commedia è politica e la politica, intesa nel senso più ampio della parola, è presente dappertutto e ovunque. E questo a dimostrazione che la passione civile, politica di Dante fu sempre forte e sempre sentita, anche quando decise di prendere le distanze dai suoi amici e rivali politici. Nel sesto del Purgatorio, Dante lancia una lunga invettiva-urlo che inizia con i celebri versi: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! Un vero e proprio urlo di dolore per la misera condizione in cui è caduta l’Italia, una volta giardin de lo ‘mperio, e ora, da quando non c’è più l’Impero, divisa e lacerata, serva di tiranni, un vero e proprio casino, luogo di meretricio dove a prevalere sono il disordine, la corruzione e il Male nell’accezione più vasta; e questo non solo in Italia ma nel mondo intero, perché è solo con Cesare che la Terra è meglio governata e più giusta dal punto di vista etico, cioè nella condotta degli uomini. In Italia (ma anche altrove) a prevalere non è l’amore ma l’odio, la violenza, la discordia e la prepotenza (Vieni a veder la gente quanto s’ama!, dice ancora (con amara ironia) rivolgendosi idealmente all’Imperatore Alberto d’Asburgo e, oggi, siamo messi veramente male: Chè le città d’Italia tutte piene son di tiranni, ed un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene: l’Italia è piena di piccoli tiranni e il primo dei villani, di quelli che vivono nel contado, si presenta sulla scena come oppositore dell’Impero, sentendosi come un novello Caio Claudio Marcello (console fedele a Pompeo, che fu avversario di Giulio Cesare) e, con la loro fazione, il loro partito si adoperano per compiere il Male invece del Bene…

Nel sesto canto del Paradiso, attraverso Giustiniano (482-565 d. C., simbolo di giustizia e di buona amministrazione imperiale, complice Dio), Dante continua nell’esaltazione dell’Impero, ovvero cerca di persuadere, ancora una volta, il lettore della bontà della sua concezione politica secondo la quale la migliore forma di governo politico, universale, è quella imperiale e il mito dell’Impero Romano, capace di buona e saggia amministrazione per il benessere dei popoli, si avverte sempre più forte. Del resto, l’Impero Romano è stato benedetto da Dio, tanto che ha deciso – nel suo provvidenziale disegno storico per l’umanità – di sacrificare il proprio figlio, Gesù Cristo, sotto il governo mondiale di Roma, dove il Cristianesimo troverà il suo centro di diffusione universale e la Chiesa e il Papato avranno la loro sede. Non a caso, in altro canto (il XXXII del Purgatorio) Dante scriverà: quella Roma, onde Cristo è romano. A parlare è Beatrice e la Roma di cui parla è quella terrena ma anche quella celeste e subito dopo dice a Dante che, una volta ritornato sulla Terra, deve scrivere, deve far conoscere, con la sua opera, tutto quello che ha visto perché è sua missione divina quella di lanciare agli uomini malvagi e alla Chiesa (carro) un messaggio d’amore e di salvezza (Però, in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, ritornato di là, fa che tu scrive).

Soffermandoci ancora un po’ sul citato canto di Giustiniano, uno degli ultimi grandi imperatori Romani, con sede a Bisanzio (poi Costantinopoli) e cioè nella parte Orientale dell’Impero Romano, dove Costantino aveva stabilito di trasferire l’Aquila imperiale, ebbene Giustiniano costituì uno degli ultimi tentativi di possibile riunificazione dei territori dell’Impero e per questo tutto il canto è una continua esaltazione del mito imperiale di Roma ed una continua metafora sull’importanza dell’esistenza dell’Impero per il bene dell’umanità. A parlare, dall’inizio alla fine, è sempre Giustiniano, per il tramite della penna del cupido ingegno di Dante (Par., V) che, ancora una volta, propone la sua weltanschauung, la sua visione generale del mondo, che è, poi, una visione politica, da dottrina politica, basata sulla necessità, per l’umanità intera, di essere retta, governata dalla due grandi istituzioni universali (i due Soli): il Papato (nel canto precedente dice chiaramente che per gli uomini ci sono il vecchio e il nuovo Testamento e il Papa, il pastor della Chiesa che vi guida), il Papato che deve operare per il benessere e la felicità spirituale e l’Impero che deve operare (di conserva e in perfetta collaborazione con quello) per il benessere e la felicità terrene. Solo in tal modo gli uomini possono cessare di essere pecore matte (canto V, Par.) e vivere sulla Terra in base ai valori cristiani dell’Amore, del Bene, della Pace, della Verità, della Giustizia, ecc. Non a caso, Giustiniano, nel racconto della storia di Roma e della sua vita sottolinea la sua opera (sorretta dalla volontà divina) diretta a raccogliere tutte le leggi di Roma in un unico grande corpus giuridico, togliendo, opportunamente, il troppo e il vano: il Corpus Juris civilis o Justinianeum.

Insomma, quella Roma onde Cristo è romano è ancora una volta esaltata da Dante che, contro i partiti dei guelfi e dei ghibellini, contro i Bianchi e i Neri che ostacolavano, ognuno a suo modo, il potere imperiale per il proprio particulare e i propri poco nobili fini, trova l’occasione per scagliare i suoi strali e indirizzare il proprio disprezzo, immedesimandosi, alla fine del canto, nella figura dell’onesto e umile Romeo di Villanova (sec. XII) che (come lui) ingiustamente accusato da uomini-feccia disonesti e invidiosi, preferì l’esilio contro la macchina del fango messa in azione per demolirne la personalità: Indi partissi povero e vetusto; e se il mondo sapesse il cor ch’elli ebbe mendicando sua vita a frusto a frusto, assai lo loda, e più lo loderebbe. Anche nel sesto canto dei golosi Dante troverà l’occasione per lanciare le sue accuse contro i partiti e gli uomini-feccia di Potere che, per il proprio tornaconto, provocavano divisioni, lacerazioni, violenze e ingiustizie a Firenze come in altre parti d’Italia.

Dopo l’introduzione alla pioggia eterna e maledetta che si abbatte sui dannati, Dante ci fa conoscere il terribile, terrorizzante e feroce guardiano demoniaco che sta lì per spaventare a morte quegli infelici che sguazzano (immersi e sommersi) nella fetida melma. Si tratta di una bestia crudele e diversa, cioè orribile, strana e mostruosa, una sorta di grosso cane-lupo fornito di tre teste, con coda e crini di serpente che, con i suoi orribili latrati, assorda le povere anime, tanto che vorrebbero essere sorde, e poi, come se non bastasse, le graffia, le scuoia e le squarta. Cerbero (che anche nella mitologia greca era rappresentato come un cane mostruoso, figlio di Tifeo e di Echidna) ha gli occhi rosso-fiamma, la barba sporca, sudicia e scura, il ventre bello grande ad indicare la sua voracità ed insaziabilità, gli arti ben dotati di unghie che servono per lacerare le carni dei dannati che, anche qui, appaiono ai nostri occhi come corpi, uomini in carne ed ossa che soffrono terribilmente per i loro peccati, per le loro umane debolezze, per i loro errori e le loro colpe. La pioggia-melma sferza i golosi e li fa urlare come cani per il dolore, tanto che cercano di trovare riparo e conforto appoggiandosi l’uno sulla spalla dell’altro e, quindi, questi miserabili peccatori, si girano e voltano spesso: Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sopra la gente che quivi è sommersa. Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e ‘l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spiriti, iscoia ed isquatra. Urlar li fa la pioggia come cani: dell’un de’ lati fanno all’altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani.

Cerbero, il gran vermo, cioè un essere mostruoso, schifoso e rivoltante, si avvede della presenza inopportuna di Dante e di Virgilio e cerca di spaventarli per farli tornare indietro: si agita e dimena con tutto il corpo, spalancando le terribili bocche e mostrando le spaventose zanne, pronte all’uso: Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo. Ma Virgilio (lo duca mio distese le sue spanne), apre le mani e, prendendo della terra (prese la terra, e con piene le pugna), la getta dentro alle avide e insaziabili bocche della mostruosa bestia (la gittò dentro alle bramose canne). Segue una di quelle sublimi similitudini con cui Dante è capace di spiegare un mondo e di farci vedere la scena come se l’avessimo sotto gli occhi: Qual è quel cane ch’abbaiando agugna, e si racqueta poi che ‘l pasto morde, chè solo a divorarlo intende e pugna, cotai si fecer quelle facce lorde dello demonio Cerbero, che ‘ntrona l’anime sì, ch’esser vorrebbe sorde. Dunque, come il cane che esprime il proprio desiderio, la propria brama di cibo e, insomma, la propria fame e si calma solo dopo aver cominciato a mordere il pasto, poiché la sua intenzione è soltanto quella di divorarlo ed è così preso, in questo, da sembrare una vera e propria lotta, così, allo stesso modo si quieta il demonio Cerbero che, con i suoi terribili latrati, assorda, stordisce le anime tanto che vorrebbero essere sorde.

Noi – prosegue Dante nel suo racconto, e il tono è di forte disprezzo – passiamo su queste anime che la pesante pioggia infernale fiacca, abbatte, fa stare piegata (noi passavam su per l’ombre che adona la greve pioggia) e posiamo, camminiamo con i nostri piedi sopra la loro inconsistenza materiale (che è soprattutto morale) che dà l’impressione di avere di fronte dei corpi, degli uomini in carne ed ossa (e ponavam le piante sopra lor vanità che par persona). A questo punto, Dante ci vuol far conoscere Ciacco dell’Anguillaia (o Anguillara, modesto rimatore fiorentino e, soprattutto, golosissimo), il probabile protagonista di questo canto. Dice che le anime giacciono tutte quante per terra, tranne una che si alza all’impiedi non appena vede i due passarle davanti. Ciacco si rivolge subito a Dante e gli propone una sorta di indovinello: vediamo se riesci a riconoscere chi sono: Elle giacean per terra tutte quante, fuor d’una ch’a seder si levò, ratto ch’ella ci vide passarsi davante. “O tu che se’ per questo inferno tratto (condotto) riconoscimi se sai: tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto”: tu nascesti prima che io morissi. Dante fa lo smemorato, finge di non riconoscerlo, di non averlo mai visto ma vuole sapere chi sia, come si chiama quest’anima collocata lì in quel posto puzzolente e condannata a una pena così amara che se un’altra può essere maggiore, nessuna è, però, così sgradevole a vedere e soprattutto da sopportare (l’ironia del Poeta è sottile e pungente, mentre finge di provare dolore per il dannato: la sofferenza e il tormento di Dante, in genere, sono dovute al pensiero fisso del perché l’uomo, pur dotato di ragione, debba ridursi in certe condizioni): L’angoscia che tu hai forse ti tira fuor della mia mente, sì che non par ch’i’ ti vedesse mai. Ma dimmi chi tu se’ che ‘n sì dolente loco se’ messa ed a sì fatta pena, che s’altra è maggio, nulla è sì spiacente.

Ciacco replica mostrando ancora una volta di aver riconosciuto il suo concittadino, che sembra quasi provar vergogna a rivelarsi come tale perché la condizione umana (viene sempre da dire così…) in cui lo sventurato si trova è così penosa, disdicevole e degradante da consigliare di fingere di non riconoscerlo, probabilmente affinché non si senta mortificato più di tanto. Ciacco gli dice che, nella vita serena (la dolce vita terrena dei bagordi bestiali, delle grandi abbuffate, delle cose buone e gustose alle quali la ragione aveva ceduto…) ha vissuto a Firenze, che è anche la tua città, città in cui a prevalere e dominare è l’invidia (sì che già trabocca il sacco) che è una delle malebestie, insieme a superbia e avarizia, che sono alla base dei mali del mondo e dell’umanità, che portano alla divisione, all’odio, agli eccessi, alle prepotenze, ai soprusi, alle ingiustizie, alle lacerazioni tra gli uomini che, poi, si uniscono in fazioni, in partiti che lottano tra di loro fino all’ultimo sangue. Voi di Firenze mi chiamavate Ciacco (ovvero, nell’italiano antico, porco, maiale, diventato, in verità, una sorta di soprannome) per la troppa golosità e avidità di cibo e cose gustose (che è stata causa della mia rovina spirituale…), e per la dannosa colpa della gola, come ben puoi vedere, al cadere della pioggia mi abbatto. E siccome aver compagno al duol scema la pena, ecco che Ciacco ci tiene a precisare di non essere solo, di non essere l’unica anima trista costretta in quella disgustosa e miserabile punizione e pena che lo condanna a gustare in eterno la melma puzzolente, maleodorante dopo aver tanto gustato in vita le cose buone a cui non si sapeva rinunciare pur di soddisfare la gola, ecco che Ciacco dice a Dante che tante altre sono punite con la stessa pena per la stessa colpa; quindi, smette di parlare: “La tua città, ch’è piena d’nvidia sì che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa della gola, come tu vedi alla pioggia mi fiacco. E io anima trista non son sola, chè tutte queste a simil pena stanno per simil colpa”. E più non fe’ parola.

Dopo avergli espresso (c’è captatio benevolentiae) il proprio dolore, la propria angoscia per vederlo così sofferente sotto la pioggia infernale tanto che vorrebbe piangere (Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ‘nvita), Dante (da quel buon giornalista investigativo, d’inchiesta che è) vuole tre precise risposte e fa a Ciacco tre precise domande, e gliele fa sapendo che le avrà e giuste, perché (come si dice) i morti conoscono la verità: 1) dimmi se sai a quali conclusioni, a quali esiti giungeranno i cittadini di Firenze, così divisi e lacerati dalle fazioni politiche, dalle discordie civili; 2) se vi sono alcuni cittadini capaci di elevarsi al di sopra delle parti facendo trionfare la giustizia anziché il proprio interesse di parte; 3) da cosa è nata tanta discordia, che ha come preso d’assalto la città: ma dimmi, se tu sai, a che verranno li cittadin della città partita; s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagion per che l’ha tanta discordia assalita.

Questa la replica di Ciaccio: “Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l’altra con molta offensione. Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l’altra sormonti con la forza di tal che testè piaggia. Alte terrà lungo tempo le fronti, tenendo l’altra sotto gravi pesi, come che di ciò pianga o che n’adonti. Giusti son due, e non vi sono intesi: superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi”. Qui puose fine al lacrimabil sono.

Dunque, Ciacco gli risponde che: 1) dopo una lunga lotta ci sarà una guerra civile che vedrà i Bianchi, capeggiati dai Cerchi (la parte selvaggia, perché provenienti dal contado e, quindi, alquanto rozzi anche se ricchi mercanti), vincere e cacciare da Firenze, con molto danno, i Neri, capeggiati dai Donati. In seguito, però, fra tre anni (siamo tra 1300 e 1302), accadrà che i Bianchi saranno sconfitti e cacciati a loro volta e che, dunque, i Neri avranno il sopravvento e prenderanno il potere grazie all’aiuto di papa Bonifacio VIII, che, al momento, cerca di destreggiarsi, di barcamenarsi tra le due fazioni senza mostrare di avere simpatia per questo o l’altro partito (ma che, in verità, aspirava a mettere le mani su Firenze e sulla Toscana). I Neri avranno a lungo l’egemonia sulla città sottoponendo i Bianchi a gravi misure repressive (sotto gravi pesi), e a nulla varranno le loro lamentele e il loro sdegno per le pesanti offese subìte; 2) a Firenze di persone giuste ce ne sono appena un paio: le persone di buonsenso e con senso della giustizia e del bene comune sono pochissime e non sono neppure ascoltate: sono voci nel deserto; 3) questo perché ad accendere i cuori dei fiorentini sono tre fiamme, ovvero tre grandi Mali (che per Dante sono tra i più terribili): superbia, invidia e avarizia: avidità di beni, di ricchezze, arroganza e prepotenza politico-economica dei capipartito insieme all’invidia, all’odio, al rancore, al malanimo, alla competizione distruttiva e negativa che formano quella miscela esplosiva che domina a Firenze e, infatti, ogni tanto la fa esplodere provocando lo spargimento di sangue fraterno (la guerra civile).

Detto questo, fatte tali funeste profezie sulla sventurata comune patria, Ciacco conclude il suo doloroso parlare (puose fine al lacrimabil sono): doloroso perché si tratta di Firenze, si tratta della vita politica della sua amata-odiata patria, in cui avrebbe voluto che a prevalere fossero quei due giusti e non le tre faville che incendiano gli animi e le menti…

Dante, infine, (fingendo di non sapere nulla, lui che è il narratore onnisciente per eccellenza) chiede informazioni (perché vuole indagare e la sua è anche una grande indagine, una grande inchiesta, un grande reportage da consegnare poi all’umanità una volta ritornato sulla Terra…) sulla sorte di Farinata (degli Uberti), del Tegghiaio (cioè Aldobrandi degli Adimari), che fuor sì degni, e ancora di quella di Jacopo Rusticucci, di Arrigo (forse appartenente alla famiglia dei Fifanti), di Mosca (dei Lamberti) e anche degli altri ch’a ben far (a ben operare per il bene comune) puoser li ‘ngegni. Dice a Ciacco che ha un gran desiderio di sapere che fine hanno fatto, dove si trovano, se nella dolcezza del Paradiso o nel veleno e nell’amarezza dell’inferno (se ‘l ciel li addolcia o lo ‘nferno li attosca). Ciacco, senza girarci tanto intorno, fa sapere (alquanto velenosamente) che quelle (presunte…) persone (per bene…) sono tra le anime più dannate, più colpevoli dell’Inferno e che, se scenderà più in basso, le potrà vedere e prendere atto della loro dura pena per le loro gravi colpe (tra gli eretici, i sodomiti e i seminatori di discordie); chiude pregandolo, una volta ritornato nel dolce mondo (che Ciacco rimpiange terribilmente) di ricordarlo alla memoria dei fiorentini e gli dice che non avrebbe risposto a nessun’altra domanda: Ei son tra l’anime più nere: diverse colpe giù li grava al fondo: se tanto scendi li potrai vedere. Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch’alla mente altrui mi rechi: più non ti dico e più non ti rispondo.

Dette queste parole, Ciacco ha un’espressione di dolore, forse anche perché la vista di Dante lo ha riportato al ricordo struggente della dolce vita vissuta nel dolce mondo: li diritti occhi torse allora in biechi, lo guarda per un po’ e poi abbassa la testa e con questa crolla per terra     a par delli altri ciechi, cioè delle altre anime dannate, che furono e sono cieche sia spiritualmente che materialmente, in quanto la melma in cui sono costretti a sguazzare e a sprofondare copre i loro occhi impedendo loro di vedere in maniera chiara e nitida.

Dante e Virgilio proseguono nel loro viaggio e oltrepassano la sozza mistura dell’ombre e della pioggia, a passi lenti parlando del destino degli uomini nell’Oltretomba, se il tormento delle anime sarà lo stesso o di meno dopo il Giudizio Universale (la gran sentenza): Virgilio fa sapere che i dannati soffriranno anche più di ora come maggiore sarà la beatitudine per tutte le anime pure e non peccatrici. Quindi, continuando ancora a parlare molto di certe cose (parlando più assai ch’io non ridico), i due Poeti girano attraverso la circonferenza del cerchio giungendo al punto dove si digrada, cioè si discende, si va più giù: nel quarto cerchio, dove ad attenderli e a minacciarli è il demoniaco guardiano Plutone, il grande nemico di Dio e degli uomini (quivi trovammo Pluto il gran nimico) che, però, Virgilio metterà subito a tacere, tranquillizzando, ancora una volta, un Dante spaventato a morte, che si dimostra ancora incerto e dubbioso sul suo folle viaggio.