Trebisacce-22/10/2021: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del decimo canto-capitolo, preceduto da una sintesi sui canti-capitoli ottavo e nono, dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo.
Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del decimo canto-capitolo, preceduto da una sintesi sui canti-capitoli ottavo e nono, dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Setteponti di Arezzo.
I canti-capitoli VIII, IX e X. Verso il mondo della Bestialità. L’incontro-scontro con l’iracondo Filippo Argenti. La porta della Città di Dite. Le Erinni (o Furie). Medusa. Il messo celeste. Il canto di Farinata degli Uberti ovvero il primato della politica e del politico sul privato (Cavalcante dei Cavalcanti che sviene perché crede che suo figlio sia morto).
Il canto VIII è prima di tutto il canto del famoso gerundio: Io dico, seguitando che, secondo alcuni, non significherebbe altro che: Io proseguo il racconto da dove l’ho lasciato nel canto precedente; invece, secondo altri, Dante avrebbe scritto i primi sette canti prima dell’esilio e poi avrebbe ripreso la scrittura dopo una lunga interruzione e, per questo, all’inizio dell’ottavo canto ci sarebbe quell’incipit. Comunque, si tratta di un passo mai veramente sciolto dal dubbio e, pertanto, potrebbe essere che Dante scriva in quel modo usando una mera tecnica di racconto già, del resto, usata anche da altri autori.
Dunque, Dante – guidato da Virgilio, mar di tutto ‘l senno – prosegue il suo viaggio (canto VIII) e vede Flegiàs che, con la sua nave piccioletta, si avvicina minacciosamente chiamando il Poeta anima fella, cioè malvagia, per spaventarlo. Però, Virgilio, lo azzittisce come ha fatto con gli altri guardiani infernali dicendogli con tono ben deciso e fermo: Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto (a vuoto, inutilmente) e lo convince a traghettarli da una parte all’altra dello Stige reprimendo dentro di sé l’ira per l’impotenza a cui Virgilio lo ha ridotto. Flegiàs, figlio di Marte e di Crise, diede fuoco al tempio di Delfi per vendicarsi contro Apollo che aveva sedotto sua figlia Coronide. Simboleggia l’ira ciecamente vendicativa e per nulla timorosa della divinità.
Ad un certo punto, mentre sono sulla barca di Flegiàs e attraversano la morta gora , cioè la palude stagnante dello Stige, vedono agitarsi in quelle acque (un pien di fango) un’anima tutta ricoperta di fango che finge di non conoscere Dante (che fa la stessa cosa…) e che gli urla: Chi se’ tu che vieni anzi ora? (Chi sei tu che vieni qui prima del tempo, prima di essere morto?). E Dante: S’i’ vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto? (Se io sono venuto, non rimango: come dire: pensa a te che devi restare qui in eterno!…. Ma, piuttosto, tu chi sei che ti sei fatto così brutto, sporco?). E l’altro: Vedi che son un che piango (come puoi vedere, sono uno dei dannati che espia la sua colpa). E Dante, impietoso: Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto (con pianto e dolore per la tua pena, anima dannata, tu resterai qui, e ti dico che ti ho riconosciuto, nonostante tu sia tutto sporco). Il dannato, preso dall’ira, stende entrambe le mani (allora stese al legno ambo le mani) come a voler percuotere il Poeta e addirittura scuotere la barca per far rovesciare Dante nello Stige e farlo annegare. Virgilio, però, intuisce la cattiva intenzione del dannato e lo previene dandogli uno spintone (il maestro accorto lo sospinse) e urlandogli addosso: Via costà (da qui) con gli altri cani! (con le altre anime rabbiose, come cani idrofobi). Quindi, abbraccia con affetto paterno il Poeta, baciandolo sul volto e dicendogli: Anima nobilmente sdegnosa contro il Male, benedetta sia tua madre che rimase incinta di te (alma sdegnosa, benedetta colei che in te s’incinse). Poi gli spiega chi è Filippo Argenti, riconosciuto anche dalle altre anime: Questi fu al mondo persona orgogliosa (cioè boriosa, superba e iraconda); non si ha memoria alcuna della sua bontà, perciò la sua anima è qui furiosa, cioè furente e irosa. Insomma, non ha lasciato una buona memoria di sé. Quelli che come lui si reputano nel mondo terreno dei personaggi importanti (e per questo sono così arroganti e superbi: quanti si tengon or là su gran regi), qui, nell’inferno staranno in eterno come porci in brago, come maiali nel fango, nella melma, lasciando di sé solo la memoria di azioni orribili ed esecrabili (orribili dispregi!). Dante esprime a Virgilio il desiderio di vederlo sguazzare in questa broda (melma) prima di lasciare la palude stagnante dello Stige. Tanto è il disprezzo e la condanna morale per il fiorentino Filippo Argenti, del ramo degli Adimari, cavaliere ricchissimo, superbo, arrogante, potente e prepotente, di parte Nera e avverso a Dante (pare che una volta avesse dato uno schiaffo al Poeta), il quale mostra di avercela davvero moltissimo con costui tanto che fa dire a Virgilio, suo mentore, che presto sarà soddisfatto perché è giusto che tu goda del suo stato di dannato, del suo contrappasso (convien che tu goda). Appena dette queste parole, Dante si avvede che dell’anima di Filippo Argenti viene fatto strazio da parte di altri dannati immersi nel fango (vid’io quello strazio far di costui alle fangose genti) e di questa scena ancora ringrazio e rendo lode a Dio per avermela concessa (che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio). Sia la Ragione che la Fede hanno dato la loro approvazione allo sfogo del giusto sdegno di Dante, fa notare opportunamente il Sapegno. E così il Poeta scrive che tutti gridavano: a Filippo Argenti! (addosso! diamogliele!) E, questi, iroso e crucciato (fiorentino spirito bizzarro) mordeva se stesso con i denti per la rabbia impotente di essere fatto a pezzi e non poter rivalersi sugli altri.
Dante e Virgilio lo lasciano al proprio sciagurato destino e più non ne narro, e non vuol raccontare altro, Dante, perché gli bastano le urla disperate di dolore, il suono dei lamenti per cui spalanca gli occhi protesi in avanti per il desiderio di vedere e conoscere altre cose nuove e terribili che quei lamenti gli fanno presagire. E davanti c’è la Città di Dite, tutta fiamme, con i gravi cittadin, cioè con anime cariche di pene da scontare. Dite era l’inferno pagano e anche qui è una parte infernale molto dolorosa in questo basso inferno. Arrivati alle porte della terribile città di dolore, i due vengono fatti scendere dalla barca, con maniere dure e con un urlo da Flegiàs (usciteci, cioè scendete da qui). Subito dopo si trovano addosso più di mille diavoli che cercano di terrorizzare Dante e farlo recedere dal suo folle viaggio. Dante è preso dall’angoscia e dallo sconforto e si rivolge a Virgilio pregandolo di dargli, ancora una volta, la sicurezza e il coraggio per poter proseguire. Virgilio lo rassicura, gli dice di non temere perché il loro viaggio non può essere impedito in quanto è voluto da Dio (da tal n’è dato) e, pertanto, stai tranquillo perché non ti lascerò nel basso mondo, cioè nel basso Inferno (dove sono punite le colpe di bestialità e di malizia). Un dubbioso e timoroso Dante resta in quel punto ad attendere che il suo dolce padre vada a parlare in segreto coi diavoli per convincerli a non dar loro fastidio in quel procedere per le male vie del basso Inferno: già altre volte i tracotanti diavoli si sono opposti, ma Virgilio dice a Dante di avere fiducia perché, anche questa volta, vincerò la prova…E Virgilio non può non vincerla ma, questa volta, le resistenze, le forze del Male sono tali che occorrerà l’aiuto di un Messo celeste, come si vedrà più avanti.
I due Poeti (siamo nel nono canto) sono ancora nei pressi della palude che ‘l gran puzzo spira (esala) e che cinge d’intorno la città dolente, cioè di Dite. L’attenzione di Dante si appunto su qualcosa di spaventoso che vede nella parte alta e infuocata (cima rovente) della torre. Dante vede le tre Erinni o Furie o Eumenidi (figlie di Acheronte e della Notte) che simboleggiano i rimorsi dilaniatori della coscienza, e se le vede davanti agli occhi subitamente dritte come in posa d’attacco. Le tre furie infernal, dal corpo color sangue, avevano membra e atteggiamento femminile, avvolte da idre, cioè serpenti d’acqua velenosi e anguicrinite. Virgilio le fa conoscere a Dante citandole per nome: Megera (dal sinistro canto), Aletto (quella che piange dal destro) e Tesifone che sta nel mezzo. Sono delle fiere mostruose che spaventano a morte il povero Dante, tanto che si stringe a Virgilio e non lo molla: Con l’unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme, e gridavan sì alto da far morire di paura. Tutt’e tre guardano verso Dante e invocano la presenza di Medusa (la minore delle tre Gorgoni che si diceva avesse il potere di pietrificare chiunque la guardasse): Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto: vogliono ridurre Dante a un blocco di pietra! Virgilio avverte subito Dante di girarsi e di non guardare verso quel luogo, perché qualora Medusa dovesse apparire, non potresti più continuare il tuo viaggio e ritornare nel mondo dei vivi. Virgilio, però, non fidandosi più di tanto della prontezza di Dante, lo prende con le mani (che poi mette sugli occhi per impedire che li aprisse) e lo fa voltare dall’altra parte. Dietro tutta questa scena così realistica e da film di horror c’è tutto un ragionamento allegorico e tanti interpreti hanno detto la loro perché Dante subito dopo scrive questi versi, appunto, strani, cioè allegorici: O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto il velame delli versi strani. O voi (che leggete e) avete l’intelletto puro, non corrotto e siete disposti a conoscere le cose nel loro vero significato, cercate di comprendere il significato morale che si cela sotto il velo degli strani, cioè misteriosi, allegorici versi e, si sa, attraverso il Convivio, che per Dante l’allegoria è una veritade ascosa sotto bella menzogna. Pertanto, secondo alcuni commentatori, le Erinni sono l’allegoria della cattiva coscienza del miscredente, dell’eretico, e Medusa simboleggerebbe il dubbio che rende gli uomini insensibili alla fede, proprio come una pietra e, dunque, il dubbio religioso o la disperazione. Insomma, Dante vorrebbe dirci che gli enormi ostacoli che l’uomo incontra e che deve superare nel suo tentativo di salvezza sono davvero tanti e l’umanità peccatrice deve trovare la forza di opporsi alle tentazioni (il diavolo), alla cattiva coscienza, al ricordo-rimorso della sua vita passata (le Erinni) e il dubbio religioso e il non sperare in Dio. E non basta Virgilio (la Ragione umana, le leggi dell’Imperatore contro l’eresia) a salvare Dante-umanità e, quindi, ci sarà bisogno dell’autorità ecclesiastica, della Fede, della Grazia cioè, per superare e vincere la miscredenza, la mala coscienza e il dubbio. Così, tutt’a un tratto, quasi come deus ex machina, appare, rumorosamente, come portato da un forte vento, il Messo celeste (la Grazia divina) e Virgilio può togliere le mani dal volto di Dante e dirgli che adesso puo’ stare tranquillo e guardare dritto davanti a sé. Vede avanzare il Messo inviato da Dio, che si fa strada con sicurezza, in mezzo alla melma dello Stige e a migliaia di anime dei dannati abbattuti dalla sofferenza. Egli parea pien di disdegno e nessuno costituisce per lui un ostacolo al suo avanzare con in mano una verghetta (un piccolo scettro, simbolo dell’autorità celeste). Insomma, questa volta non è bastato dire: vuolsi così colà ecc. ma c’è stato bisogno del soccorso della Fede, della Grazia, perché da sola la Ragione umana era impotente. E, così, il Messo, con tono deciso e sicuro, si rivolge agli spregevoli diavoli (o cacciati dal ciel, gente dispetta) chiedendo loro da dove nasce la loro oltracotanza, la loro superbia, il loro atteggiamento di sfida a Dio; e domanda retoricamente perché continuano ostinatamente ad opporsi al viaggio di Dante visto che esso è voluto da Dio (quella voglia): a cosa giova urtare e contrariare la immutabile e incontrastabile volontà divina? Non serve a nulla, conclude il Messo e, senza dir nulla ai due Poeti e dando ad intendere che ben altri sono i suoi pensieri e che la sua unica preoccupazione è quella di ritornare in cielo e al suo compito, riprende il cammino attraverso la strada lorda dello Stige.
I due Poeti, rincuorati e rassicurati dall’intervento divino, si incamminano verso la Città di Dite senza alcun impedimento. Lì c’è una fortezza, un castello e Dante, che è un grande curioso, un giornalista investigativo, vuol vedere (l’occhio intorno invio) la condizione, lo stato dei dannati, il loro peccato e la loro pena all’interno della città dolente di Dite: vede, un po’ dappertutto, una vasta campagna incolta, piena di dolore e di tormento dovuto alla pena da scontare. Siamo nel sesto cerchio, quello in cui domina la Bestialità e dove sono puniti gli eretici o eresiarchi insieme ai loro seguaci, adepti; le loro anime sono imprigionate dentro arche, avelli, sepolcri o tombe infuocate, roventi e scoperchiate, a simboleggiare che l’eresia (quella catara, patarina, o di derivazione epicurea, per esempio) è punita dalla Chiesa, dal Tribunale dell’Inquisizione con il rogo, con le fiamme che devono purificare l’anima peccatrice (tra gli avelli fiamme erano sparte, cioè sparse, distribuite). Gli eretici sostenevano che l’anima è mortale e che tutto finisce in una tomba, non avvertirono l’ardore della fede, della giusta dottrina religiosa e ora, nell’Inferno, sono puniti stando, in eterno, con l’anima che arde proprio dentro una tomba infuocata (la legge del contrappasso è applicata per contrasto). Inoltre, sono anche puniti (loro che non si preoccuparono del futuro della loro anima) a non conoscere bene le cose del futuro: quando queste sono troppo vicine nel tempo, ecco che non ne sanno più di tanto, sono come i presbiti che vedono meglio le cose lontane che quelle vicine (nulla sapem di vostro stato umano, spiegherà Farinata a Dante).
Dante chiede a Virgilio chi sono i dannati che emettono dalle loro tombe sì duri lamenti e si fan sentir con li sospir dolenti: sono gli eresiarchi, i capi eretici (o di eresie) insieme ai loro seguaci di ogni setta e non puoi immaginare quanti essi siano. Sono puniti col fuoco e con varia gradazione, a seconda della gravità della loro colpa. Detto questo, Virgilio si dirige verso destra e Dante lo segue camminando tra i martìri e li alti spaldi, cioè tra le tombe (luogo di pena e sofferenza) fiammeggianti e le alte mura della Città di Dite.
Dante incomincia il decimo canto dicendo che Virgilio continua a camminare per un secreto calle cioè per un sentiero angusto e che lui lo segue (Ora sen va per un secreto calle, tra ‘l muro della terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle). Ad un certo punto, si rivolge a Virgilio (o virtù somma, che per li empi giri mi volvi): o Virgilio, tu che sei la Ragione, tu che sei il mio virtuoso maestro, che mi guidi per i cerchi infernali, dimmi (sodisfammi a’ miei disiri) se i dannati nelle arche (simili a sarcofagi) si potrebbero vedere, visto che i coperchi son tutti sollevati e non c’è nessun demonio a fare da guardiano (la gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati tutt’i coperchi, e nessun guardia face). In effetti, Dante ha in mente un solo personaggio, di cui ha già chiesto informazioni al goloso Ciacco, e cioè Farinata degli Uberti, capo ghibellino, condottiero e importante uomo politico di Firenze. Virgilio gli risponde che i coperchi che vede saranno tutti chiusi (serrati) quando ci sarà il Giudizio Universale, quando le anime si ritroveranno tutte nella valle di Giosafat, dopo che avranno ripreso i corpi che hanno lasciato sulla terra; aggiunge, poi, che lì hanno il loro sepolcro (suo cimitero) Epicuro (filosofo greco vissuto tra il 341 e il 270 a.C., la cui filosofia era materialistica ed edonistica) e i suoi seguaci, accusati di negare l’immortalità dell’anima (che l’anima col corpo morta fanno); infine, Virgilio gli fa sapere che presto e in quel luogo il suo desiderio (che tu mi taci), di vedere cioè Farinata, sarà soddisfatto.
Ma chi sono gli eretici? Gli eretici sono coloro che hanno deviato dalla giusta dottrina religiosa, non hanno avuto timore di Dio, anzi sono stati superbi, nel senso che lo hanno sfidato o ignorato peccando di quello che i Greci chiamavano hybris, cioè l’empietà, la dismisura, la tracotanza, la superbia e la sfida nei confronti della divinità; gli eretici sono stati dei miscredenti, scettici verso l’esistenza di Dio o, peggio ancora, atei e, infatti, in odore di ateismo era lo stesso Guido Cavalcanti, grande poeta e grande amico di Dante, che forse ebbe in gran dispitto Dio, come dice il Poeta al padre di Guido, facendolo svenire con quel ebbe a disdegno.
Dunque, mentre Dante dice a Virgilio che lui non intende nascondergli quel che ha nel cuore ma che se ha taciuto è stato per non importunarlo (non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco), ecco che, tutt’a un tratto, all’improvviso, da una tomba, escono, chiare e ad alta voce, queste parole (che, nel linguaggio della retorica, costituiscono quella che si chiama apostrofe): O Tosco, che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patria natio alla qual forse fui troppo molesto.
L’incontro con il grande Farinata degli Uberti finalmente è avvenuto e Dante ci può finalmente parlare. Improvvisamente, da un’arca, sono uscite quelle parole e Dante ha paura, tanto che si avvicina al maestro, il quale lo richiama alquanto duramente dicendogli di non fare il timoroso e di guardare verso Farinata: Volgiti: che fai? Vedi là Farinata che s’è dritto: dalla cintola in su tutto ‘l vedrai.
Manente, più conosciuto con il soprannome di Farinata di Jacopo degli Uberti, era il più famoso della sua nobile casata composta tutti di ghibellini, cioè di filoimperiali. Nel 1248 contribuì alla cacciata dei guelfi (i filopapali). Poi fu a sua volta allontanato da Firenze perché il partito guelfo era ritornato al potere e, così, nel 1260, con l’aiuto di Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, riuscì a riprendere il potere e il governo del comune di Firenze. Morì nel 1264 e, dopo la sua morte, contro di lui e i suoi seguaci fu messo in piedi un processo postumo per eresia. Era, evidentemente, una montatura politica, una messinscena della parte Nera per gettare fango (come si dice oggi…) su un personaggio e una personalità indubbiamente eccezionali, nel quale la passione politica, fatta anche di ambizione, astuzia, spregiudicatezza e anche, insomma, di machiavellismo, era forte e preminente ma la sua levatura, il suo valore di uomo era tale che quando si decise di distruggere Firenze, lui fu il primo ad opporsi fieramente e con coraggio a tale sciagurato proposito. In verità, il canto dell’eretico Farinata degli Uberti è il canto del primato della politica, la politica che viene prima di ogni altra cosa. Una sorta di politique d’abord, politica innanzitutto, prima di tutto dello scrittore reazionario Charles Maurras, e Dante (forte anche della lezione di Aristotele, per cui la politica è tutto ciò che può servire alla polis e, quindi, il bene degli uomini) sa, cinque secoli prima che la politica – come dirà Napoleone, uno che se ne intendeva – è il destino, il destino individuale, il destino degli uomini, il destino di una comunità piccola o grande e, insomma, dell’intero mondo. Quante volte diciamo che: se i potenti del mondo avessero buonsenso, farebbero qualcosa per ridurre l’inquinamento, il surriscaldamento del pianeta, ecc. ecc. Perché, in verità, al centro del discorso del Poeta c’è la politica intesa nel senso di polis, di cittadinanza, di cosa pubblica, di Stato e lo Stato a cui pensa Dante è una sorta di hegeliano Stato etico ante litteram, altamente etico, appunto, che deve pensare e preoccuparsi del bene comune, pubblico, collettivo e far sì che tutto sia perfettamente ordinato e secondo giustizia. E questo perché Dante ha capito benissimo che tutto è politica, che la politica è tutto, che alla politica è legata la sorte degli Stati e soprattutto degli uomini, per l’oggi e per il domani. Persino l’antipolitica è una forma di politica, è la proposta di un modo diverso, altro di fare politica e, infatti, anche quando diventa antipolitico e farà parte per se stesso, in quanto disgustato dal basso livello in cui si era ridotta la lotta politica, Dante continua a fare politica. La fa anche e soprattutto con la Divina Commedia, perché Dante sa già, prima di Alberto Moravia, che l’impegno artistico è l’impegno più politico che possa darsi un artista.
Dante aveva ben chiaro che la politica e i politici possono fare moltissimo per una comunità nazionale come per un microcosmo locale (Firenze) quando la politica e i politici sono guidati da un forte sentire e da un’etica superiore (il bene della propria comunità), supportati da una grande passione e da un grande desiderio di vedere il proprio Paese o la propria piccola comunità progredire, svilupparsi e crescere non solo economicamente ma civilmente, culturalmente e socialmente. Come a livello macro un politico deve avere il senso dello Stato e il sentimento del bene del proprio Paese, così, a livello micro, egli deve avere il senso della comunità e il sentimento del bene del proprio piccolo grande paese che amministra.
Dunque, Farinata è una personalità così imponente, torreggiante e di spicco che Dante può addirittura vederla… spiccare interamente anche se a metà, dalla cintola in su. Con un Dante che appare molto emozionato, che ha quasi timore di parlare con una personalità così autorevole e gigantesca, di cui ammira la tempra, il carattere, Farinata non ha alcuna remora a dialogare (e poi a polemizzare civilmente) con lui e, infatti, inaspettatamente, gli dice: O toscano, che te ne vai parlando garbatamente per la città infernale di Dite, fermati in questo luogo e parla con me; la tua parlata mi rivela, mi fa capire che sei di Firenze, di quella nostra nobile patria, alla quale, forse, ho arrecato molto danno (per le lotte politiche aspre e sanguinose).
Farinata sta davanti a Dante come un monumento, una torre, granitico. Figura statuaria, fa notare il Sapegno, e verso questa personalità così straordinaria e fuori del comune, pur condannandolo come eretico, cioè come uomo non sorretto dalla Grazia divina, in effetti, come avviene, per es. con Francesca da Rimini, Ulisse, Pier delle Vigne, Brunetto Latini e Ugolino, il Poeta (nell’esaltarli) prova un sentimento tale per cui vi è, a fronte del contrappasso, una specie di giustificazione-assoluzione: è come se la grandezza della figura trattata mettesse una sorta di velo sulla condanna infernale. Pertanto, anche questa volta, il tono e l’atteggiamento del Poeta appaiono assolutori e giustificativi.
Dunque, Dante guarda fisso verso un Farinata torreggiante, che si ergeva col petto e con la fronte com’avesse l’inferno in gran dispitto: come se disprezzasse l’inferno, come se non gli importasse nulla di essere lì, dentro un’arca infuocata. Ed è un gran dispitto decisamente diverso da quello di Capaneo o di Vanni Fucci: in questi due a prevalere è l’estrema superbia e tracotanza contro la divinità, mentre in Farinata nulla di tutto questo e a prevalere è la consapevolezza della propria grandezza di uomo politico e della sua levatura morale. E il fatto che Dante ce lo presenta così, è proprio per rimarcare la sua stima per la grandezza politica e morale del personaggio, nonostante la condanna per eresia o miscredenza che dir si voglia. Siccome il personaggio che ha di fronte è quello che è, Virgilio suggerisce a Dante di parlare con decisione, in maniera dignitosa e nobile, con parole cioè chiare, precise e adeguate a una personalità così di rilievo: le parole tue sien conte. Appena Dante è vicino alla tomba di Farinata, questi lo guarda con volto sdegnoso, con una certa alterigia, con la consapevolezza di essere lui un tal personaggio e l’altro non si sa bene cosa possa vantare. E così gli domanda subito: chi furono i tuoi avi? (chi fuor li maggior tui?). Farinata vuol aver chiaro se sta parlando con un uomo vicino alle sue posizioni politiche oppure con un avversario per eredità politica. Dante dice che lui è desideroso di rispondere e non nasconde nulla, anzi fa tutto l’elenco dei suoi antenati e si avvede che Farinata fa un gesto di dissenso e di cruccio con le ciglia degli occhi rivolte verso l’alto (io ch’era d’ubbidir disideroso, non lil celai, ma tutto lil’apersi; ond’ei levò le ciglia un poco in soso). E, infatti, Farinata, gli fa notare che: Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fiate li dispersi: furono orgogliosamente avversi sia a me che alla mia parte politica, tanto che per ben due volte (nel 1248 e nel 1260) li ho cacciati e allontanati da Firenze. Dante, colpito nell’orgoglio, gli tiene testa e ribatte con un affondo, una vera e propria stoccata: S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte l’una e l’altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell’arte: se furono cacciati non furono, però, distrutti e, anzi, riuscirono a ritornare da ogni parte in cui si erano rifugiati sia dopo la prima sconfitta (nel 1251) che sopo la seconda (nel 1267); ma quella della vostra fazione politica non appresero certamente bene l’arte di ritornare…
Mentre Dante e Farinata proseguono la polemica e lo scontro politico anche nell’Oltremondo, appare sulla scena (allor surse alla vista scoperchiata), cioè emerge dalla stessa arca infuocata un’altra anima, non a caso posta accanto a quella di Farinata, che si può vedere fino al mento, forse perché sta appoggiata sulle ginocchia (un’ombra lungo questa infino al mento: credo che s’era in ginocchie levata). Quest’anima (che è quella di Cavalcante dei Cavalcanti, padre di Guido, guelfo e avversario politico di Farinata e anche consuocero, visto che Guido aveva sposato la figlia di Farinata) si guarda intorno per vedere se con Dante c’è qualcun altro (dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s’altri era meco) e, una volta spento ogni dubbio (e poi che il sospecciar fu tutto spento), avendolo riconosciuto, gli dice piangendo: Se per questo cieco carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’è? Perché non è teco?, sottinteso: mio figlio che, certamente, non è inferiore a te, ed è tuo amico. Perché Guido non è con Dante in questo viaggio? (Se per questo cieco carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’è? perché non è ei teco?). Dante gli dà una risposta con un ebbe finale che si presta al malinteso e che fa svenire un uomo che crede di sentir parlare della morte del figlio: Da me stesso non vegno: colui ch’attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno: non sono qui per mia volontà e merito: Virgilio, che mi sta aspettando là, mi conduce attraverso questo luogo infernale forse verso una persona, cioè Beatrice, ovvero la Fede, la Teologia, verso la quale vostro figlio Guido mostrò disprezzo (rifiutò cioè di avvicinarsi alla giusta dottrina cattolica inseguendo, ateisticamente, le teorie filosofiche e materialiste di Epicuro e di Averroè che negavano l’immortalità dell’anima e, insomma, credevano più nella ragione materiale che in un Dio). Però, l’ambiguo ebbe, l’ambiguo passato remoto, dal sen fuggito certo in maniera non intenzionale, ha sul povero Cavalcante una potenza tale da farlo drizzare sui piedi e fargli perdere i sensi, in quanto ha creduto che Dante gli ha annunciato la morte del figlio che credeva vivo. Dopo aver detto al lettore che per le parole pronunciate e per la pena come eretico ha capito chi fosse, e cioè il padre di Guido Cavalcanti, e che la sua risposta è stata adeguata alla domanda (le sue parole e ‘l modo della pena m’avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena), Dante – che sembra non dar alcun peso a quel ebbe che gli è scappato senza alcuna volontà di arrecare dolore a un padre – ci fa sapere come costui ha reagito: Di subito drizzato gridò: “Come dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora? non fiere li occhi suoi il dolce lume? Dunque: il sole non colpisce più gli occhi di mio figlio (morto nel 1300)? Dante, però, non può credere che Cavalcante, come, per es. Ciacco, non conosca le cose dei vivi e dei morti, persino le cose che accadranno, e per questo non dà alcun peso a quell’elli ebbe e, quindi, scrive che quando Cavalcante si avvede che Dante non dà alcuna risposta alle sue angosciate domande e ai suoi drammatici dubbi, supin ricadde e più non parve fora: ricade all’indietro nell’arca, sviene e non appare più. Indifferenti (e sembrerebbero disumani ma non lo sono) al dolore e alla reazione di un padre che sospetta della morte di un figlio, Dante e Farinata proseguono nella polemica politica come se fossero sulla terra e non nell’Aldilà: la passione politica, civile prevale e sembra essere sorda e insensibile, quasi spietata, verso i sentimenti più umani e più dolorosi, verso un fatto che riguarda la vita privata, il privato. E, così, quell’altro magnanimo a cui posta restato m’era, cioè Farinata, uomo generoso, che aveva chiesto a Dante di fermarsi e di parlare con lui, non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa: resta impassibile, non muove né il collo e neppure il torace, il petto, perché i suoi pensieri sono concentrati sul politico, sul pubblico, su quello che gli ha detto Dante in merito alla sconfitta della sua parte politica e della sua stessa famiglia e sta meditando su come ribattere e come uscire bene dal confronto politico innescato con Dante. La risposta efficace, da grande personalità così prepotentemente presente sulla scena politica di Firenze è questa: S’elli han quell’arte male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia della donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è si empio incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?: Se la mia parte politica non ha appresa bene l’arte di ritornare in patria, sappi che questo mi pesa e mi angoscia più di questa tomba infuocata. Però, devi sapere che non passeranno 50 mesi, 50 plenilunii (cioè 4 anni e 2 mesi) tanti per quante volte è accesa la Luna (o Diana o Ecate o Proserpina, moglie di Plutone, che qui regge), e tu proverai sulla tua pelle quanto sia difficile e dura quell’arte.
Farinata gli predice il doloroso esilio: siamo nel 1300 e fino al 1304 Dante, in esilio, farà, insieme agli altri, più di un tentativo per rientrare a Firenze: è del 1304 il fallimento dell’impresa della Lastra. Ma Farinata è uomo magnanimo e augura a Dante di poter ritornare nel dolce mondo (anche Farinata dice così…), dopo il viaggio ultraterreno, e gli chiede di spiegargli perché i Fiorentini sono così spietati, crudeli con la sua famiglia in tutte le loro leggi. Dante gli dà una risposta non proprio diplomatica, anzi alquanto secca: Lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso, tali orazion fa far nel nostro tempio: la strage e il sangue che la tua famiglia e la tua parte politica fecero scorrere nel fiume Arbia durante la battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) è il vero motivo per cui a Firenze (tempio) si prendono certe decisione e si fanno certe leggi (orazion) contro gli Uberti e i loro seguaci.
Farinata, il monumentale Farinata, appare adesso più umano, sofferente forse al pensiero del sangue versato, del sangue che chiama sangue, del duro scontro politico che genera discordia, morte, ingiustizie, violenze, ecc. e, dopo aver sospirato e scosso la testa (poi ch’ebbe sospirato e ‘l capo scosso) replica, con tono pacato ma deciso e anche sicuro che le parole che dirà lo restituiranno grande e di nuovo torreggiante agli occhi del suo interlocutore, che non può che assolverlo politicamente pur condannandolo come eretico e miscredente: A ciò non fu’ io sol né certo sanza cagion con li altri sarei mosso. Ma fu’ io solo, la dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto: colpevole del sangue versato non sono stato solo io e, certo, è stato il motivo del rientro a Firenze che ha mosso me e gli altri. Però, devi sapere che quando si tollerò l’idea di distruggere Firenze, sono stato soltanto io a difenderla a viso aperto, con coraggio e sfidando tutti gli altri.
Cos’era successo? Era successo che dopo la vittoria di Montaperti, i ghibellini, riunitisi in convegno ad Empoli, avevano proposto e deciso di distruggere Firenze ma, contro questa decisione, si oppose soltanto Farinata, mostrando il suo solito coraggio ed eroismo, tanto che Giovanni Villani, nella sua Cronica, scrive che l’avrebbe difesa fino a ch’egli avesse vita in corpo, con la spada in mano…
Insomma, Dante, attraverso la figura monumentale di Farinata (personaggio della storia contemporanea o, se si vuole, della cronaca e quasi della più scottante attualità politica fatta di lacrime e sangue) vuol dare al lettore, non solo di ieri ma di oggi e di domani, questo grande messaggio: guardate che la politica non è una cosa sporca o, comunque, non lo è sempre e le mani ce le possiamo sporcare quando essa è vissuta come limpida e onesta partecipazione alla vita civile e sociale della comunità, quando essa è passione, lotta anche aspra ma svolta per il bene della collettività, con alto sentire e alto senso del dovere verso la società e lo Stato in cui si vive e, insomma, quando a prevalere è l’etica, il bene pubblico e non, come direbbe il Guicciardini, il proprio (miserabile…) particulare. Insomma, la politica e l’impegno per la polis, per la cittadinanza sono cose belle e anzi bellissime che solo i politici corrotti e scandalosi possono rendere brutte e sporche.
Il canto di Farinata si conclude con Dante che gli chiede lumi in merito al fatto se sia vero che i morti sanno e vedono ogni cosa, visto che Cavalcanti ha dimostrato che non conoscesse la sorte del figlio. Farinata gli spiega che essi sono simili ai presbiti, vedono meglio le cose lontane che quelle vicine e che, insomma, la loro è una conoscenza limitata alle cose che verranno, ma che quando le cose del futuro sono troppo vicine nel tempo, ecco che non ne sanno più di tanto (Noi veggiam come quei c’ha mala luce, le cose che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s’appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta). E, dunque, Dante prega Farinata di tranquillizzare Cavalcante (or direte dunque a quel caduto): Guido, il figlio e suo grande amico, non è morto ma è ancora in vita (che ‘l suo nato è co’ vivi ancor congiunto). Io, prima non ho risposto subito – ci tiene a precisare Dante – alla domanda di Cavalcante perché avevo quel dubbio in merito alle cose che sanno i morti: sottinteso, non sono stato zitto, non ho indugiato nella risposta per mancanza di umanità e di sensibilità per il dolore e il dramma di un padre (e s’i’ fui, dianzi, alla risposta muto, fate i saper che ‘l feci che pensava già nell’error che m’avete soluto). Poi, velocemente (perché Virgilio gli dice con qualche gesto di sbrigarsi perchè devono continuare il viaggio), domanda a Farinata chi sono gli altri dannati. Risponde che sono tantissimi (qui con più di mille giaccio) e gli rivela che nelle tombe vicine a lui ci sono, rispettivamente, l’imperatore Federico II di Svevia e il Cardinale per antonomasia cioè Ottaviano degli Ubaldini, vescovo di Bologna (1240-1244), poi cardinale dal 1245. Proveniente da una ricca famiglia ghibellina, era ritenuto un eretico e un fautore del partito ghibellino tanto che gli venne attribuita la frase: Io posso dire, se è anima, che l’ho perduta per parte ghibellina. Qui ricorre, ancora una volta, il tema della corruzione e della scandalosità degli ecclesiastici, degli uomini di chiesa e ai più alti livelli e, infatti, si diceva, fra l’altro, che il Cardinale fosse uomo molto amante delle cose mondane più che di quelle spirituali…
Farinata non cita altri dannati perché non famosi e ripiomba nell’arca (indi s’ascose) mentre Dante, ripensa e riflette sulla tremenda profezia dell’esilio (ripensando a quel parlar che mi parea nemico) e Virgilio (l’antico poeta), che si è avveduto del turbamento e dello smarrimento di Dante, gli domanda perché è angosciato (perché se’ tu sì smarrito?). Dante parla e Virgilio replica dicendogli di memorizzare bene, di conservare nella memoria la triste profezia (la mente tua conservi quel ch’udito hai contra te) ma: adesso, ascolta bene quello che sto per dirti (e ora attendi qui, e lo dice alzando un dito della mano come fa chi vuole lanciare un monito o mantenere una promessa): quando sarai dinanzi al dolce raggio, cioè davanti a Beatrice (perché Beatrice è dolce splendore), colei che in Dio tutto vede, ebbene, sarà attraverso lei (ma, in verità, per bocca di Cacciaguida, suo trisavolo) che conoscerai meglio come andrà la tua vita, il corso del tuo futuro (da lei saprai di tua vita il viaggio): sottinteso: ci sarà il doloroso esilio, ecc. ecc. ma, poi, tutto avrà il suo sbocco nella pace e nella luce di Dio, nella beatitudine e nella salvezza eterna. Come dire che dopo tante asprezze si giungerà alle stelle (per aspera ad astra, dicevano i saggi latini) e, insomma, alla fine, ci sarà il giusto premio, la giusta ricompensa dopo tanto dolore e tanta sofferenza.
Quindi, Virgilio indica il cammino prendendo una strada sulla sinistra (i due Poeti procedono praticamente sempre sulla sinistra durante il loro viaggio): Appresso volse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver lo mezzo per un sentier ch’a una valle fiede che ‘nfin là su facea spiacer suo lezzo: lasciano le mura di Dite e si immettono nella parte più interna del sesto cerchio, attraverso un sentiero che conduce a un fossato, a un baratro che immette nel settimo cerchio e che fin dove sono i due Poeti fa sentire pesantemente e disgustosamente la sua puzza.
E anche questa volta dimentichiamo che Farinata è un dannato punito in una tomba rovente mentre ci resta l’immagine di un grande personaggio della politica dei tempi di Dante, il quale gli è grato per i suoi alti valori morali, per la sua alta coscienza e per non aver fatto radere al suolo la sua amata-odiata Firenze.