Trebisacce-20/11/2021: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del XII canto-capitolo dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo. Questa volta i protagonisti sono la pessima categoria dei violenti, degli assassini. Sempre gli stessi di sempre.  

 

La Moglie

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del XII canto-capitolo dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo. Questa volta i protagonisti sono la pessima categoria dei violenti, degli assassini. Sempre gli stessi di sempre.

 Il canto-capitolo XII. Settimo cerchio, primo girone. L’alto burrato. Più si scende giù e più aumentano la Malizia, la Violenza e la Matta Bestialità dell’uomo. I Violenti: i violenti contro il prossimo, nella persona e nelle cose. Sono immersi nel sangue bollente del fiume Flegetonte (loro che in vita sparsero sangue) e sono saettati da terribili Centauri. Il Minotauro. Tiranni, omicidi e ladroni. Il centauro Nesso guida i due Poeti verso il secondo girone, quello dei suicidi.

 

Se fino al quinto cerchio eravamo nel regno dell’Incontinenza, dal sesto in poi siamo in quello della Bestialità e della Malizia e più si scende in basso più si incontra il peggio dell’uomo, la feccia, la spazzatura umana, gli esseri più immondi e moralmente più ripugnanti. E appartengono tutti ai ceti alti, alla classe dirigente, all’establishment.

Sono circa le tre del mattino e i due Poeti, poi, proseguono per il primo girone del settimo cerchio. Siamo arrivati al XII canto-capitolo e siamo nel regno della Malizia e dei Violenti, questa volta dei violenti contro il prossimo. Per legge del contrappasso (per analogia) i dannati sono immersi nel sangue bollente del fiume Flegetonte e sono saettati dai Centauri. Il primo incontro che i due viandanti fanno è con il mitologico Minotauro, messo a guardiano del cerchio lì, ai piedi, sull’argine del Burrato, del burrone, della ripa, della balza scoscesa, franosa, che dir si voglia, proprio in quanto simbolo della bestiale violenza. Infatti, la mostruosa bestia dalla testa umana e dal corpo di toro, era nato dal rapporto sessuale tra un toro e la regina di Creta, Pasife, moglie del re Minosse che, per poter soddisfare il suo capriccio, si era chiusa in una vacca di legno (l’infamia di Creti era distesa, che fu concetta nella falsa vacca). Virgilio lo ammonisce subito dandogli della bestia priva di ragione e dicendogli di allontanarsi da loro due, di togliersi di mezzo (pàrtiti, bestia) perché Dante è venuto lì per veder le vostre pene e non per farti del male, magari suggerito e ammaestrato dalla tua sorellastra Arianna che, col suo famoso suggerimento del filo dato a Teseo, riuscì a far uccidere da questi il toro che era rinchiuso nel Labirinto. Dopo le ferme parole di Virgilio, il Minotauro, da bestia priva di ragione qual è, si mette a saltellare qua e là per l’ira impotente proprio come un toro che sia stato colpito mortalmente e non sa in quale direzione andare perché è stordito. Così, Virgilio, avvedutosi dello stordimento da pugile suonato della mostruosa bestia, grida a Dante di approfittare dello smarrimento rabbioso del Minotauro (l’ira bestial ch’io ora spensi) e di correre per attraversare il varco della ripa dove di solito il mostro infernale sta a guardia del cerchio. E, così, i due si incamminano per l’ammasso di pietre franoso e Virgilio dice a Dante di guardare bene a valle, in basso perché tra poco giungeranno al fiume Flegetonte, fiume di sangue, in cui bolle chiunque (sono i violenti contro il prossimo) abbia procurato danno ad altri con la violenza (la riviera del sangue in la qual bolle qual che per violenza in altrui noccia). E, Virgilio, al pensiero di quel bollente bagno di sangue che punisce questi dannati, lancia un’esclamazione di commiserazione della bestialità umana: Oh cieca cupidigia (irragionevole avidità di ricchezze) e ira folle (ira e superbia senza misura che conducono alla violenza contro il prossimo), che sì ci sproni ne la vita corta (che tanto sospingi  gli uomini nella breve vita terrena), e ne l’etterna poi sì mal c’immolle! (e poi, in quella eterna, li fa stare ben bagnati e immersi, come all’ammollo, nel Flegetonte, sottinteso, per giusta punizione divina)…

Ad un certo punto, Dante vede davanti a sé (e noi con lui, come tante altre scene della Commedia) un ampio fossato, un’ampia fiumana di sangue arcuata e, tra questa e la base dell’alta ripa (dove c’è l’alto Burrato) vede correre, a schiere, i Centauri, mostri mitologici col corpo di cavallo e testa e petto umani, tutti nudi (come tutte le anime dell’Oltremondo) ma armati di arco e di saette, di frecce che lanciano contro i dannati, allo stesso modo di come facevano sulla Terra (come solìen nel mondo andare a caccia). Fa notare opportunamente il Sapegno che per la loro doppia natura, umana e ferina, e per i particolari del mito, che li rappresentavano rissosi e amanti del saccheggio e della rapina, eran degni d’esser prescelti dal poeta come guardiani dei violenti. E più avanti conclude che Dante ci dà di quelle belle fiere (belle in senso ironico…) una rappresentazione attenta e vivacissima, tutta rivolta a far campeggiare quelle immagini di agilità e di potenza fisica… con un’intensità di rilievo plastico, che è il segno del suo robusto realismo, alieno da ogni compiacimento meramente estetico e decorativo e sempre contenuto, e come trasportato, nel ritmo incalzante e grave del racconto.

I Centauri si avvedono della presenza inusuale dei due Poeti e tre di loro (Chirone, Nesso e Folo) sono ben armati di frecce scelte con molta cura e con l’obiettivo di colpire. La scena che segue è da sequenza cinematografica (come tante altre…): uno dei tre centauri (è Nesso), pronto a prendere a frecciate i due Poeti, li minaccia, da lontano, con parole di fuoco, intimando loro di star fermi, di non andare oltre e di dirgli, da quel punto lì, dove pensano di andare, altrimenti tenderà l’arco: E l’un gridò da lungi: “A qual martiro (pena, tormento) venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non l’arco tiro”. Virgilio non si fa intimorire e replica con tono deciso, alla violenta e irosa bestia, che la risposta l’avrebbero data al capo-centauro Chirone (mitologico figlio di Saturno e di Filira, nonché maestro saggio di Achille) non appena fossero stati più vicino ai tre (costà di presso) e rimprovera al suo interlocutore che: mal fu la voglia tua sempre sì tosta (a tuo danno è stata la tua irruenza, la tua impulsività, il tuo istinto violento e sempre pronto a scatenarsi contro gli altri).

Virgilio tocca Dante e gli dice che quello che ha minacciato di colpire è Nesso, che morì per la bella Deianira e fe’ di sé la vendetta elli stesso. Nesso si era innamorato della moglie di Ercole, Deianira, e tentò di rapirla pur di averla; dopo esser stato colpito, dall’offeso Ercole, con una freccia avvelenata, prima di morire diede a Deianira la sua veste imbrattata di sangue avvelenato, dandole a credere che avesse il potere di far innamorare chi l’avesse indossata; e così, pensando di riconquistare l’amore di Ercole, gliela diede ma, quando l’eroe la  indossò, divenne prima pazzo furioso per poi morire. Insomma, indirettamente, si era vendicato della sua morte…

L’altro in mezzo ai due, che sta a capo chino sul petto in atteggiamento riflessivo, è il gran Chirone (il saggio), il qual nodrì Achille (fu maestro, precettore di Achille), fa sapere Virgilio, mentre l’altro è Folo, che fu sì pien d’ira: il mito narra che durante il matrimonio di Piritoo e Ippodamia, insieme ad altri Centauri ubriachi, violentò alcune donne e cercò di rapire la sposa. Insomma, se Nesso simboleggia la cupidigia violenta, Folo simboleggia l’ira, il furore folle, cieco e violento e, in breve, la violenza più cieca.

Virgilio spiega, infine, a Dante che questi centauri si lanciano a  migliaia intorno al fossato pieno di sangue bollente somministrando frecciate al dannato che tenta di uscire fuori (per soffrire di meno, per cercare un po’ di sollievo), più di quanto dovrebbe per la sua colpa: Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille.

I due Poeti si avvicinano a quelle fiere snelle (veloci ed agili); Chirone, con una freccia, smuove la lunga barba, mostrando bene la grande bocca, e mette sul chi vive i suoi compagni: vi siete accorti che quel di retro (cioè Dante, che segue Virgilio) è vivo? (move ciò ch’el tocca?, cioè le pietre del Burrato quando cammina): Così non soglion far li piè de’ morti, conclude l’avveduto Chirone.

Virgilio, che è ormai vicinissimo, di fronte alla loro mostruosa doppia natura, interviene per spiegare che: ebbene sì, Dante è vivo ed è così solo che tocca  a me mostrargli l’oscuro Regno infernale; è la volontà divina a condurlo qui, a consentirgli questo viaggio (dal Peccato alla Grazia) e non per puro piacere, per diporto; Beatrice lasciò il suo scanno in Paradiso, cessando momentaneamente di lodare Dio, per commissionarmi, affidarmi il compito inconsueto di guidare un vivo nell’Oltremondo, e sappi che costui non è certo un ladrone, un  brigante né io l’anima di un ladro: Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia: necessità ‘l ci ‘nduce e non diletto. Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest’officio novo: non è ladron, né io anima fuia.

Fornite queste cortesi informazioni (Virgilio non usa, con Chirone, il tono duro che ha usato con gli altri guardiani infernali), il buon duca di Dante chiede al Centauro, in nome di Dio (quella virtù), di dare loro una guida che gli mostri come guadare, attraversare il Flegetonte e che porti Dante sul groppone (e che porti costui in su la groppa) perché non essendo un’anima non può volare attraverso l’atmosfera, non può sorvolare il fiume (chè non è spirto che per l’aere vada). Chirone sa che deve piegarsi alla Potenza divina e si mostra subito disponibile: si volta verso la sua destra, dove c’è Nesso, e gli dice di guidarli e di far scansare chiunque di altra schiera di Centauri volesse impedire il loro passaggio e quindi: ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facìeno alte strida. Dante vede tanti dannati immersi nel bollore di Flegetonte fino alle ciglia, cioè fino alla testa, e Nesso (il gran Centauro), che porta Dante sul suo robusto groppone, gli spiega che: quelle sono le anime dei tiranni che usarono far violenze e rapine nei confronti dei loro sudditi e dei loro beni, con la furia dei rapaci, e per questo, qui, piangono e pagano per i crudeli danni e le spietate offese arrecate ai propri simili: e’ son tiranni che dier nel sangue e nell’aver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni. E fa alcuni nomi di famosi ed efferati uomini di Potere: Alessandro il Macedone; Dionisio, cioè Dionigi il vecchio, tiranno di Siracusa; Azzolino, cioè Ezzelino III da Romano che, nato nel 1194 nella Marca Trevigiana, divenne Signore di Verona, Vicenza e Padova e uomo potentissimo anche grazie al matrimonio con la figlia naturale di Federico II, Selvaggia; esercitò il suo potere tirannico tra Padova e gran parte della Lombardia e pare che, soprattutto a Padova, avesse fatto uccidere, bruciare ed accecare parecchie persone e tolto loro anche gli averi; morì in carcere nel 1259; infine, viene citato Opizzo da Esti, ovvero Obizzo II d’Este, marchese di Ferrara e della Marca di Ancona, finito assassinato da un figliastro o figlio illegittimo nel 1293.

Dopo la rassegna di questi feroci uomini di Potere, Virgilio dice a Dante che, da quel momento il primo a fare da guida è Nesso, e che lui sarà secondo, perché Nesso è scorta fida, guida sicura e fidata (così lo ha definito poco prima) e su quel girone dei violenti ne sa più del famoso saggio. Più avanti Nesso si ferma vicino a gente che ‘nfino alla gola parea che di quel bulicame uscisse: dannati che sembravano riemergere fino alla gola dalle acque bollenti del fiume, da quel terribile bollor vermiglio: sono gli omicidi, i cui delitti sono ritenuti meno gravi e meno offensivi dalla Potenza divina in quanto hanno usato la violenza soltanto verso le persone e non anche verso i loro averi. Il Centauro indica ai due Poeti l’anima di un dannato che se ne sta da solo in un angolo, in una parte del bulicame: si tratta di Guido conte di Monfort, che in Toscana era vicario di Carlo I d’Angiò e che per vendicare il padre Simone, fatto uccidere dal re Edoardo I d’Inghilterra, assassinò a sua volta il cugino del re, Arrigo, in una chiesa di Viterbo. Si narrava che il cuore trafitto di Arrigo fosse stato custodito in una coppa d’oro e posta su una colonna sul ponte di Londra sopra il Tamigi o, secondo altri, in un calice in mano a una statua d’oro collocato sulla sua tomba. Il feroce e premeditato delitto era stato commesso in un luogo sacro e alla presenza dei sovrani di Francia e di Napoli e, per questo, aveva provocato la pubblica condanna ed esecrazione e la gente (quella che oggi chiamiamo opinione pubblica) rimase allibita per il silenzio dei sovrani e per non aver fatto nulla per rendere giustizia alla vittima. Dante – che nella Commedia rappresenta spesso anche l’opinione pubblica –  isola l’ombra dell’assassino, circondandola di un alone di orrore (dall’un canto sola), chiosa, giustamente, il puntuale Sapegno. Ancora una volta, il giudizio morale e la condanna di Dante sono senza mezzi termini, senza se e senza ma, come si dice oggi.

Poi, Dante vede ancora tanti altri dannati che tenevano la testa e tutto il busto fuori dalle acque rosse e bollenti, e di questi dice di averne riconosciuti tanti (assai). In questa gradazione, gradualità delle pene nel Flegetonte a seconda della gravità della colpa commessa, tante sono le anime sofferenti (dei feritori, guastatori e predoni) che incontra man mano che le acque si fanno meno profonde, tanto che a scottarsi, a bollirsi sono soltanto i piedi: Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi. E siccome il fiume è meno profondo, è da lì che si può guadare più agevolmente. Nesso spiega a Dante che il fiume man mano diventa meno profondo in questa parte mentre non lo è dall’altra dove diventa, invece, più profondo e va a ricongiungersi dove sono puniti i tiranni, cioè i peggiori violenti contro il prossimo e i loro beni (ove la tirannia convien che gema). Così, in quest’altra parte, la Giustizia divina punisce e fa soffrire (punge) Attila, il flagello di Dio (che fu flagello in terra), Pirro (forse il re dell’Epiro che combattè contro Roma o Pirro o Neottolemo, il figlio di Achille, che infierì contro Priamo e i troiani che erano stati sconfitti) e Sesto (certamente il figlio di Pompeo Magno, descritto da Lucano come un feroce pirata). La Giustizia divina, poi, spreme (munge), in eterno, le lacrime di esseri immondi come i due grandi ladroni Rinier da Corneto e Rinier Pazzo, grazie al bollore del fiume che le fa uscire dolorosamente dai loro occhi. Questi due ignobili individui commisero un’infinità di delitti, di ruberie e di violenze lungo le strade che percorrevano (fecero alle strade tanta guerra): il primo era un famoso ladrone, contemporaneo di Dante, che seminava il terrore nelle campagne della Maremma fino alle porte di Roma, rubava e uccideva senza pietà e, inoltre, si circondava di delinquenti simili a lui per organizzare le sue crudeli imprese. Il secondo apparteneva alla nobile famiglia dei Pazzi di Valdarno, anche lui un grande e noto ladrone che commise tante violenze, ruberie, estorsioni, usurpazioni e, dopo aver assassinato il vescovo  Silvanese Spagordo, insieme al suo seguito, mentre viaggiavano verso Roma, fu scomunicato dal papa Clemente IV nel 1267.

Insomma, più si va giù nel Basso Inferno e più ci troviamo di fronte alla feccia umana, alla matta bestialità, all’uomo-bestia, all’uomo-feccia che, facendo uso sistematico della Ragione, commette i peggiori crimini e appare più in basso degli animali proprio in quanto questi non sono dotati di Ragione ma soltanto di istinto.

Il canto-capitolo XII si chiude con Nesso che fa scendere dal suo possente groppone i due Poeti e quindi torna indietro e rifà lo stesso tragitto, ripercorre da solo il guado, il valico del fiume insanguinato e bollente (poi si rivolse, e ripassossi ‘l guazzo).